Visita anche: Editoria e Scrittura | La stanza di Virginia | Silmarillon | Stylos | La mia Istanbul
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Ho sempre amato le strisce dei Peanuts.
Charlie Brown, Lucy, Linus, Snoopy tra un divertimento e l’altro mostrano una realtà condivisa, fatta di ansie, idiosincrasie, piccole fragilità. Basta pensare alla famosa coperta di Linus (e a tutte le nostre), diventata ormai un riferimento indispensabile quando parliamo delle cucce che ci costruiamo per esorcizzare la realtà. A tal propsito mio nipote Dede, quando era più piccolo, si è trascinato dietro per anni una federa di cuscino. Blu, tutta rovinata, "in piedi" per la sporcizia (guai a sottrargliela per farla finire in lavatrice), era il suo totem, il suo flauto magico, la sua copertina inseparabile. Quando si ostinava, se la portava fuori con sé, passeggiando con questa federa rovinata, strappata, unta e bisunta (mia madre e mia sorella si vergognavano fino al midollo). Quella federa lui la chiamava " pizzo bello". Già, pizzo bello. Perchè ogni sera setacciava i quattro angoli in quanto ce n’era uno "migliore": il pizzo bello, appunto. Questo angolo speciale era dotato di virtù magiche e terapeutiche, infatti se ti facevi male lui ti strusciava amorevolmente il pizzo bello sulla zona dolorante. E passava il tempo a giocherellare con l’angolo della federa, passandoselo tra il pollice e l’indice con un movimento preciso, ripetuto. Ci si addormentava, con il pizzo bello, e ci si svegliava. Lo cercava durante il giorno, e se lo portava perfino a spasso. Una volta mia madre, esasperata, lo sottrasse per lavarlo, facendogli trovare una bella federa blu nuova di zecca, con tutti i pizzi perfetti (il pizzo bello di Dede era scucito, sgualcito, rovinato dall’usura). Ma lui, dopo un attentissimo esame al tatto, pronunciò le parole fatidiche: "Questo non è pizzo bello".
Un dramma, finchè il pizzo bello non uscì dalla lavatrice (credo fu asciugato con un phon per accelerare la restituzione).
Adesso dede è cresciuto. Non ha più pizzi, né ciucci. Non ricordo come superò il trauma di questa separazione (io vivo a Roma, loro a Senigallia). Ma ce la fece. Tutti, dobbiamo farcela: dobbiamo separarci dalle nostre coperte infantili. peccato che poi ne troviamo altre. Troviamo plaid di dimensioni matrimoniali, confortevoli piumini d’oca, pregiati tessuti estivi. Insomma, le coperte di Linus scortano anche i nostri giorni adulti. Sono i nostri biglietti per un mondo meno insidioso, i nostri esorcismi, la "messa in fiaba" delle paure.
Ogni tanto dovremmo imparare a stare senza coperte. Ma non è facile, nudi, esposti ai venti delle quattro direzioni.
I bambini, con loro arcano intuito, sanno da subito che la vita non sarà facile, che il loro piccolo, transitorio Eden ha una scadenza. E si attrezzano, da subito.
Oggi Dede è un bambino di quasi dieci anni che ti racconta i suoi progressi in inglese e in matematica. Ma non ha mai dimenticato pizzo bello. E forse ne troverà altri, di pizzi.
C’è un libro magnifico, "Su con la vita Charlie Brown!" in cui Abraham J. Twerski, insigne psicologo di fama mondiale, narra i disagi quotidiani scortato dalle strisce dei Peanuts.
Ve lo consiglio: è un ottimo antidoto alle fatiche della vita adulta. I nostri drammi piccoli e grandi attraverso il sorriso vengono smascherati, riconosciuti, accettati. Coperte e scoperte, insomma. Rese vive dalla grazia e dall’intelligenza di Schulz.
Nel folto di noccioli spiccavano le infiorescenze pendule color d’oro pallido, e nei punti indondati del sole gli anemoni boschivi erano completamente schiusi, quasi a proclamare la gioia della vita, proprio come ai bei tempi, quando anche la gente poteva proclamarla. Esalavano un lieve sentore di fiori di melo.
Connie ne colse un po’ per Clifford. Lui li prese per mano e li guardò, incuriosito. " Oh tu, sposa inviolata della quiete"" citò dall’Urna greca di keats. "Mi sembra si convenga assai più ai fiori che ai vasi greci". "Violare è davvero una parola orrenda!" disse Connie. "E’ solo la gente che viola la natura". "Oh, non saprei…le lumahce e creature del genere", disse lui. "Persino le lumache si limitano a mangiarle, le cose, e le api non le violano". Era adirata con lui, che tarduceva ogni cosa in parole. Le violette erano le palpebre di Giunone, e gli anemoni spose involate. Come odiava, Connie, le parole che si frapponevano sempre tra lei e la vita; se c’era qualcosa che faceva opera di violenza, questo qualcosa erano proprio le parole: parole e frasi che succhiavano ogni linfa vitale dalle cose vive".
D.H.Lawrence, L’amante di Lady Chatterley
Mentre riporto il brano del libro che ho appena finito di leggere (e che ho molto amato) guardo fuori dalla porta-finestra del mio studio, dove il limone, l’arancio e il viburno mi fanno compagnia ondeggiando al vento gentile di questa primavera. E’ vero, a volte le parole si frappongono fra noi e la vita, altre volte ne restituiscono invece il sapore mobile, inquieto, colorato come un caleidoscopio.
Doppia valenza. E arcano del linguaggio che sempre si confronta con la vita. A volte vicendo, altre perdendo.
Oggi, tuttavia, se guardo fuori, e osservo le mie piante, non penso né a Giunone né agli anemoni. Penso solo che sono bellissime. Bellissime e basta.
Gentile Signora, se avessi più tempo le scriverei una lettera più breve.
(Voltaire)
Non c’è molto da aggiungere. E’ una frase che, da sola, dice già tutto.
Dovremmo pensare di più all’ineffabile dono della sintesi, in questo mondo di molte parole e pochi pensieri…
Provate a cercare su Google le immagini correlate alla parola "lettore". Usciranno, insieme a qualche sporadica foto di qualche signore con un libro o un giornale, una miriade di immagini tecnologiche sui vari lettori digitali.
Apre la rassegna una scarpa con lettore incorporato.
Cercavo immagini da collegare a un testo che stavo preparando sulla lettura e sulla scrittura.
E invece mi sono trovata a navigare nelle nuove tecnologie.
Un’esperienza che mi ha fatto riflettere su come cambiano i significati delle parole. Su come cambiano i contesti a cui queste parole rimandano. Senza scomodare la linguistica con specifici riferimenti ai vari "significati" e "significanti", preferisco osservare – semplicemente – come la nostra società sia cambiata radicalmente passando da un "fare" umano (come leggere libri, appunto) a un "fare" meccanico, tecnologico (come leggere Mp3 addirittura infilandoseli in una scarpa).
Il lettore, oggi, per le immagini di Google è principalmente il mezzo metallico con cui ascoltiamo musica e altro, non siamo più noi che vediamo parole.
Curioso, no?
Beh, a me manca il sapore tradizionale, quello dei quadri bellissimi che ritraevano uomini e donne con il loro amato libro sul sofa del salotto (come nel quadro di Fragonard)
Mi manca e penso, con sconcerto, che una società mediatica, mediata, perde il gusto del contatto con la fisicità delle cose, legate a una materia – come la carta – che per fortuna si sgualcisce, sipiega e soprattutto…odora. Non a caso il nostro olfatto è sempre più fragile, assediato da odori artificiali che sembrano "puzze" perfino quando profumano (vi capita mai di nausearvi al passaggio di qualche signora particolarmente "odorosa"che vi mozza il respiro con la sua scia violenta e nauseabonda? a me capita spesso).
Intendiamoci: io lavoro con le nuove tecnologie. Uso internet, collaboro con i siti, faccio una rivista on line e scrivo anche su questo blog. Ma ne conosco i limiti e i pericoli e cerco il famoso "giusto mezzo", integrandolo a faccende più tradizionali. Come i libri, appunto.
Ma i lettori, oggi, sono davvero identificabili – nel significato immediato che diamo alla parola – con gli aggeggi che usiamo per scaricare e ascoltare la nostra musica?
Per Google, sì. E Google è specchio e riflesso della società.
Buffo: se digitiamo la parola "lettrice" escono invece solo figure di donne che, appunto, leggono.
Di fatto, nella nostra cultura, le donne sono le vere lettrici forti. Ancora non sono…lettrici MP3.
Comunque, alla fine ho trovato le mie immagini in mezzo alla selva di proposte tecnologiche.
Ma la prima foto che ho trovato mi ha colpito.
Cercavo la parola "lettore", che relaziono solitamente anche con il pensiero (si legge, si riflette, si stimola, appunto, l’intelletto).
E invece mi trovo con una scarpa.
Una scarpa al posto della testa.
Come a suggerire: oggi pensiamo con i piedi.
In apparenza può sembrare una domanda “strana”, simile a quella che riguarda la gallina e il suo famoso uovo.
Di fatto, è una questione su cui ci si arrovella e si discute.
Per quanto mi riguarda, penso che creativi… si nasca. Non credo ai manuali spiccioli del tipo “Creativi in un mese e sette giorni e mezzo”, “Come coltivare la tua creatività e farne una piantina da salotto”, “Da oggi basta: sono un creativo!” e via dicendo.
Mi spiego meglio: possiamo affinare la nostra creatività, perfezionarla, lavorarci sopra… Ma non potremo mai diventare creativi se non lo siamo. E’ un po’ come pretendere che una patata si trasformi in una zucchina.
So di mettere in discussione le certezze di molti esperti (che, guarda caso, tengono seminari sulla creatività, scrivono manuali sulla creatività, fanno corsi a destra e manca sulla creatività facendo della creatività un business per…non creativi).
Innanzitutto vorrei chiarire una cosa: essere creativi non è particolarmente “fico”. E’ un talento, un dono naturale come altri. Forse è un elemento raro, questo sì, in una generazione che sempre più si adagia – complice internet – sui copia&incolla.
Ma il vero creativo non ha mai “studiato” da creativo. Nel senso che è qualcosa di cui si è impregnati, qualcosa che nasce nello spazio sottile e misterioso di un’intuizione. Ha a che fare con l’immediatezza, con un guizzo dell’immaginazione che crea qualcosa che prima non c’era. E lo fa, di solito, trovando vie alternative rispetto alla monotonia degli schemi abituali.
La creatività è sempre un atto di "ribellione". Nasce dalla rottura di una qualche norma codificata. Non si può imparare sui libri, esattamente come accade con la scrittura.
Possiamo coltivarla, farla maturare, allenarla. Ma la creatività è un po’ come i geni del nostro corpo: o ci sono, fin dalla nascita (in nuce, ovviamente) o non ci sono.
Certo, dai manuali si possono imparare tantissime “tecniche” delle quali, però, dubito un po’. Sicuramente aiutano, ma non sostituiscono.
Mi sono stupita, ad esempio, nello scoprire che c’è chi, nel mondo della comunicazione, crea disegni per spiegare i concetti e trovare così ispirazione. E costruisce teorie su teorie su come fare al meglio questi disegni. Mi sono resa conto che, per quanto mi riguarda, questi disegni sono già nella mia mente. Non li cerco, stanno lì. Mi aspettano. Nel senso che ragiono per immagini, “sento” per immagini, “pulso” attraverso le immagini (è anche una grande croce, questa, perché le cose del mondo ti attraversano come fossi senza pelle, non mitigate dal recinto della distanza razionale che corre solo sul filo "rassicurante" del ragionamento e delle parole).
Dunque per me è normale creare in continuazione geografie mentali popolate di colori e di immagini. Come è normale abbinare due idee distanti tra loro tramite un percorso associativo del tutto anomalo rispetto alle strade prevedibili.
Non riesco a capire come si possa “studiarlo”, ma evidentemente si può (anche se la cosa non mi convince).
La creatività è figlia di Mercurio, non di Saturno. E’ un’iridescenza improvvisa, imprevista, spiazzante; non è l’analisi metodica, il ragionamento che si attarda.
La creatività… crea, essere creativi significa “unire elementi esistenti con connessioni nuove, che siano utili" (Henri Poincaré)
Ecco, quel salto “quantico” che permette l’unione di cose diverse attraverso una nuova connessione è un po’, azzardo, come il figlio – terzo elemento – che nasce dall’unione di un uomo e una donna (due elementi).
E’ frutto di un grande mistero, di un seme particolare.
Per quanto riguarda una creazione meno…impegnativa, come quella della creatività nel quotidiano, o del suo farne un mestiere, i misteri, anche se “minori”, rimangono della stessa natura. E’ sempre una piccola creazione, un minuscolo ma significativo arcano.
Genera molta invidia, la creatività. Forse proprio perché è una perla rara. Ma, come dicevo, a ognuno i suoi talenti.
Non è retorica: difficilmente un vero creativo sarà anche ordinato.
Più probabile che annaspi nella sua scrivania, sommerso di carte e cartacce, che esca con il dentifricio in mano al posto delle chiavi di casa, che infili la porta del palazzo sbagliato, che vada dai carabinieri a denunciare il furto di un auto che ha parcheggiato altrove una settimana prima, che davanti alla matematica reagisca come davanti a un plotone di esecuzione…
Non è folclore, ahimé. Certo, conosco veri creativi con atteggiamenti “ingegneristici” che, però, fanno uno sforzo mostruoso (il vero elemento di “verità”, in questi casi, è sempre la loro scrivania da lavoro…).
Ho detto: difficile che un creativo sia ordinato, non impossibile.
Di certo il povero creativo è una mosca bianca nel mondo degli aspiranti creativi (vasto, esattamente come quello degli aspiranti scrittori).
Sicuramente per lui combinare felicemente un’immagine con una parola, o trovare un titolo azzeccato, o ideare una nuova tipologia di biglietto da visita, è quasi un “gioco”.
L’intuizione balena, va afferrata e se ne va, immediatamente. Ma è anche vero che in mille altre cose non brillerà sicuramente.
Ognuno ha i suoi doni, dicevo. Peccato, però, che spesso calpestiamo i nostri tentando disperatamente di impossessarci di quelli degli altri.
“A ciascuno il suo”, diceva Sciascia. Mi sa tanto che aveva ragione…