I  numeri primi sono divisibili soltanto per 1 e per se stessi. Se ne stanno al loro posto nell’infinita serie dei numeri naturali, schiacciati come tutti fra due, ma un passo più in là rispetto agli altri. Sono numeri sospettosi e solitari e per questo Mattia li trovava meravigliosi.

Certe volte pensava che in quella sequenza ci fossero finiti per sbaglio, che vi fossero rimasti intrappolati come perline infilate in una collana. Altre volte, invece, sospettava che a anche a loro sarebbe piaciuto essere come tutti, dei numeri qualunque, ma che per qualche motivo non ne fossero capaci. Il secondo pensiero lo sfiorava soprattutto di sera, nell’intrecciarsi caotico di immagini che precede il sonno, quando la mente è troppo debole per raccontarsi delle bugie.

(Paolo Giordano, La solitudine dei numeri primi)

Bello, questo libro dell’esordiente Giordano. Bello malgrado alcuni dei vizi formali tipici degli inizi (come qualche leziosismo di troppo, qualche enfasi eccessiva) e malgrado un finale che si sfilaccia rispetto alla pregevole tensione delle prime pagine.

Bello, però, soprattutto per l’intuizione di questa metafora matematica che da sola, almeno per me, regge il romanzo (che, come ripeto, scivola su alcune ingenuità).

Perchè è vero, è vero che esistono questi "numeri primi" sempre vicini ma sempre divisi, sempre separati, costretti all’isolamento nonostante la possibilità di trovarsi gli uni accanto agli altri.

Le affinità elettive a volte sono spietate. A volte producono tensioni, conflitti, separazioni.

I due cuori e la capanna famosa si restringono, come una maglietta di cotone lavata in acqua bollente. Diventano così piccoli – o così grandi, è la stessa cosa – da non permettere alcuna esperienza da vivere. Sono come un grido taciuto per sempre.

Ma non è solo nell’incontro con l’altro che il numero primo sbanda e si schianta, per ritrovarsi più isolato di prima.

Accade anche ogni giorno, in quell’incontro mai reale con tutti, con il mondo che esiste solo come frammento separato, reso meno greve a volte dall’illusione di una penetrabilità che poi si rivela fragile, troppo fragile, e se per per un attimo quel mondo somigliava a una bolla di sapone con dentro tutti i colori sospesi (un po’ come quelle palline magiche con i paesaggi che, rovesciate, producono l’incanto della neve), l’attimo successivo torna a essere muro, cemento, dolore.

E così, i  numeri primi, sempre troppo intelligenti ma allo stesso tempo lesi nello spazio intimo che cuce la pelle al cuore, continuano a vivere profondamente ma tragicamente.

E nell’attesa sembra consumarsi il loro destino.

Penso a uno di questi numeri primi, che ho conosciuto. Penso al giorno in cui mi disse "Sto aspettando di iniziare a vivere". Ma aveva già vissuto, aveva molto vissuto. Si trattava tuttavia di una vita interiore, di una vita di studi e di pensieri e di nuotate notturne nel mare dei desideri mai realizzati, desideri d’amore, di quell’amore normale che pare sempre riservato a tutti tranne che a loro, ai numeri primi.

Non avrebbe mai iniziato a vivere, non in quel senso. E infatti, da allora, ha continuato a sfiorare i suoi sentimenti senza mai toccarli davvero, senza affondare nella carne di un altro per risalirme appagato. Solo comparse, solo bagliori, fuochi fatui di promesse tradite all’alba.

E tuttavia, tuttavia nella solitudine c’è anche un dono prezioso.

Ma a volte fa troppo male afferrarlo.