In una video intervista a Simone Barillari (che uscirà con il prossimo numero di Silmarillon) si parla di letteratura e giornalismo.

Simone sostiene che la differenza fondamentale stia nel concetto di tempo: il giornalismo esiste sul tempo, la letteratura, invece, contro il tempo.

Ha ragione, Simone. Ha ispirato alcune riflessioni che avevo sempre inseguito in modo frastagliato, senza l’unificazione di un gesto del pensiero che pur brevemente donasse loro una forma in qualche modo compiuta.

Le parole del giornalismo frugano i fatti, la contingenza, usano la velocità mercuriale per raggiungere la resa delle storie in tempo reale. Fanno del tempo la loro guida e il mezzo stesso del loro esistere. Sia la cronaca che il commento (editoriali, fondi, ecc.) si basano infatti proprio sul concetto di tempo. Tempo storico, tempo quotidiano della cronaca, tempo dell’esistenza che si concentra in quell’orologio che scandisce i nostri giorni.

La velocità, elemento essenziale del giornalismo, deve essere per forza la stessa di quelle lancette inesorabili, di quel tempo meccanico, arbitrario su cui abbiamo fondato l’esistenza che si stende sui luoghi dell’alba e del tramonto, estremi del ponte sul quale passa la vita, quel tempo sempre in corsa, che comprime l’anima e al tempo stesso la dota di adrenalina.

Penso sempre ai surfisti che ammiravo in California, tanti anni fa. Erano lì, a cavalcare le onde giganti dell’oceano Pacifico. Senza riposo, tutto il giorno, incalzati dal tramonto in cui si concevano invece, tutti insieme, il riposo dolce sulla tavola finalmente immobile (stavano tutti lì, come macchie nere sull’acqua disegnate dalla luce fiamminga di quella sfera rotonda, misteriosa, su cui annegava il giorno).

Il giornalista è un po’ come un surfista. Ed è un po’ come i ladri e i cacciatori. Il giornalista è infatti sia ladro che cacciatore. Ladro perché ruba a chiunque, con i suoi occhi sgranati sul mondo, le orecchie abili a cogliere il più sommesso ronzio. Cacciatore perché esplora ogni riserva, pronto a raccogliere storie, notizie.

Le sue parole sono nel tempo. Raccontano il tempo. Tempo degli uomini, dei fatti, delle piccole storie di cui è tessuta la grande Storia. Lavora, il giornalista, sul rettilineo del tempo, sempre cosciente di un "prima" e di un "dopo", di un passato e di un futuro. E di un presente nel quale si snodano, ogni giorno, gli eventi. Il tempo lo governa, lo orienta. Lo stimola e lo stressa, ne è cuore e motore.

La letteratura invece rifiuta il tempo. La letteratura aspira all’eternità. Se la il giornale si esaurisce quando la luna spinge via il sole, la letteratura non si interessa invece dei moti alterni che segnano il giorno e la notte. La sua altitudine siderale vuole abbattere il Tempo per congiungersi all’eternità. Il suo è il Tempo circolare, quello delle assenze e degli eterni ritorni, quello in cui il raziocinio cede il posto alla danza della Musa, che sussurra i suoi segreti notturni. Ma è la notte dell’anima, la notte degli dèi, la notte in cui è possibile veder sorgere comunque il Sole.

La parola dello scrittore pascola sui prati dell’anima, tenta disperatamente (e a volte ci riesce) di innalzarsi sulle altezze siderali di un’amosfera iperurania che cerca di evadere il tempo dell’uomo. E’ lotta contro la prigione fisica, è grimaldello per aprire le porte del tempo che scorre entrando nel Tempo immobile, per sempre cristallizzato dalla stessa parola che ne fissa la qualità.

Lo scrittore cerca gli spazi solitari che lo allontanano dal brusio del mondo, con quelle ciarle e quei moti continui che potrebbero sconfiggere l’ambita meta, quella della scrittura trans-temporale che unisce l’uomo agli spazi infiniti sui qwuali converge il suo desiderio di immortalità.

Per questo i giornali si buttano e i libri vivono per sempre.

E tuttavia, tuttavia le parole del tempo, quelle del giornalismo, sono altrettantro rare e preziose. Diffiderei, anzi, di chi tende a snobbarle ripiegando solo sui libri. Perché finché siamo qui, sulla terra, abbiamo anche bisogno del tempo. E quei surfisti, scultorei sfidanti delle onde che non a caso divengono in continuazione, come la nostra stessa esistenza, sono la perfetta metafora dell’uomo che impara a cavalcare l’esistenza (che come un’onda ci sbatte qua e là) e che si nutre anche delle parole che lo raccontano. Ogni giorno.

Imparando a lavorare sul limite si impara a superarlo. E non a caso qualche scrittore si è trovato con le ali bruciate, impavido Icaro che ha osato le eterne parole prima che fosse pronto a tuffarsi fuori dal tempo.

Insomma, la qualità delle parole, nel tempo e oltre il tempo, è necessaria nella sua doppia funzione.

Io le amo entrambe. Le parole del giornalismo aiutano a comprendere la vita nella materia di cui è tessuto il quotidiano, fatto anche della sua fuligginosa ambivalenza, con le cronache terribili che ci ricordano quanto siamo lontani da quel paradiso perduto; le parole della lettratura consolano, invece, i giorni fuggitivi portando il respiro sopra ogni il limitare di quella materia, sul bilico dell’eternità.

Amo i diversi sentieri del tempo delle parole nel cui giardino, come nel racconto di Borges, le biforcazioni diventano intersezione, coincidenza, inversione.