Eri giunto così in alto con le tue sole forze che di conseguenza nutrivi un’illimitata fiducia nelle tue opinioni. E questo non mi affascinava tanto da bambino quanto più tardi, nell’età della crescita. Dalla tua poltrona dominavi il mondo. Solo il tuo punto di vista era giusto, ogni altro era demenziale, folle, anormale. Nutrivi una tale fiducia in te stesso che non ti sentivi affatto in dovere di essere conseguente, ma non per questo cessavi di avere ragione. Poteva anche accadere che su un particolare problema tu non avessi alcuna opinione, e allora tutti i parei possibili al riguardo dovevano essere sbagliati, senza eccezione. Ai miei occhi assumevi l’aspetto enigmatico dei tiranni, la cui legge si fonda sulla loro persona, non sul pensiero (…)

(Franz Kakfa, Lettera al padre)

Leggere la lunghissima lettera che Kafka scrisse a suo padre è un’esperienza dolorosa ma illuminante. Chi ha amato – come me – il suo genio assoluto non potrà non tracciare una linea dritta che lega tutte le sue opere al soffertissimo rapporto con suo padre.

Il senso di colpa, l’enigma, il processo che condanna senza giustizia e senza appello qualcuno ("ancora dopo anni mi impauriva la tormentosa fantasia che l’uomo gigantesco, mio padre, l’ultima istanza, potesse arrivare nella notte senza motivo e portarmi dal letto sul ballatoio", scrive ricordando un episodio dell’infanzia), la metamorfosi di un uomo "senza qualità" che si trasforma in un insetto diventano improvvisamente più chiari alla luce del rapporto che condizionò e trasformò tutta la sua vita.

Un padre padrone che frustra i talenti letterari del figlio, che lo giudica un incapace, un essere tormentato e irragionevolmente inquieto, diventa così l’elemento creativo nel quale la sofferenza si veste di parole, dando luogo alla letteratura. Sofferenza che, in Kafka, non se ne andò mai.

Il padre e la madre possono essere pietre d’inciampo quando il rapporto diventa complesso, difficile. I loro fantasmi allungano la loro ombra per tutta la vita. Ecco che alcuni, però, trovano ispirazione nell’arte. Anime vulnerabili, esposte ai venti dell’incomprensione, che tuttavia fanno del dolore legna che arde bruciando nel fuoco della creazione artistica.

Forse non c’è neppure talento senza dolore. Non è un inno al masochismo, ma una constatazione che nasce dall’osservazione dei fatti privati e degli stati d’animo di una folta schiera di scrittori, pittori, musicisti.

In Kafka il marchio del padre dà vita a una sorta di lettera scarlatta che imprime una svolta decisiva nel suo destino.

E il figlio malaticcio, sfortunato, problematico, diventa uno dei talenti più brillanti del secolo scorso, un vero gigante della letteratura.

Molti geni sono figli dell’incomprensione con i genitori. Figure complesse, queste. Angeli e demoni dei nostri giorni, quando magari ci troviamo a "combattere con forze infantili in età adulta", come Kafka scrisse a suo padre.

Il bambino che è stato è lì con noi, e non è detto che sia gaio come il fanciullino di pascoliana memoria.

Magari è sbrindellato, ferito, sospeso nei territori inconsci in cui il tempo tace. Fragile, umbratile, lunare, si nasconde dentro e dietro l’adulto condizionandone le decisioni.

Il bambino che fu Kafka muove la penna dell’adulto, ne guida con mano sicura le intenzioni e i pensieri.

Così accade a ognuno di noi, nel bene e nel male.

Un padre non certo facile, quello di Kafka. I caratteri non si conciliano solo in virtù della condivisione di uno stesso sangue. A volte chi dovrebbe educarci diventa il modello dal quale fuggiamo, il modello che non vorremmo mai ripetere, quello che ci visita nei nostri incubi.

A un certo punto della vita, però, si deve avere pietà. Per sé stessi e per quei genitori nei confronti dei quali non siamo riusciti a trovare un varco, un passaggio capace di diventare un luogo di incontro.

Kafka decise di scrivere questa bellissima lettera in modo "da rasserenare un poco entrambi e rendere più facili la vita e la morte".