Capita, a volte, di osservare all’improvviso, un cambiamento. Magari al cinema, guardando un film.
A me è successo con Into the wild, il malinconico, affilato film di Sean Penn.
La vicenda – ispirata a una storia vera – narra delle migrazioni di Chris, un ragazzo poco più che ventenne che decide di seguire la Natura lasciandosi alle spalle la civiltà corrotta. A dire il vero, la spinta, come spesso accade, è data da una ferita profonda, molto profonda.
Il rapporto con i genitori è infatti sofferto, doloroso, segnato da una incompatibilità ormai “fisiologica” che corrompe ogni momento lieto.
E così Chris decide di chiudere con la sua vecchia vita per scrivere una nuova biografia, finalmente libera da convenzioni e condizionamenti. E libera da quei genitori nei quali non si è mai specchiato, frantumando la sua identità in rivoli malinconici e insofferenti.
Ed ecco che il suo viaggio – raccontato in un road movie che attinge però ai grandi miti dell’America pionieristica, come quello dell’uomo solo davanti alla terra selvaggia – diventa anche un percorso dell’anima.
Molto diverso da certe ebbrezze kerouakiane (On the road è una ribellione che corre volentieri sullo “sregolamento dei sensi” e su una certa anarchia poliforme), il film dipinge un intensissimo ritratto interiore nel quale molti possono comunque riconoscersi.
E tuttavia, tuttavia io, che ho fatto del viaggio materia di esplorazione e di studio, all’improvviso ho capito di avere, a un certo punto della mia vita – non so bene neanche quando – saltato un fosso, approdando a una dimensione diversa, non necessariamente più “matura” ma senz’altro più riflessiva.
Mi sono cibata di Chatwin, ho amato la grande letteratura di viaggio perché nel viaggio vedevo e sentivo la possibilità di un altrove diverso dalla fuga – trasformato anche in articoli- ma poi, come dicevo, qualcosa è cambiato. Forse perché ho capito che quella ferita che ci fa migrare, ci fa fuggire in spazi ampi e selvaggi, può essere “curata” anche stando fermi. Invertendo la rotta, passando dall’estensione esteriore a quella interiore. Dentro di noi ci sono brughiere più odorose e umide di quelle inglesi, siamo attraversati da mari profondi come gli oceani, i silenzi di cui godiamo hanno lo stesso sapore di quello che veglia su tutti i deserti di questa terra. E abbiamo estati e inverni, e odorose primavere che si alternano all’uggia di ogni autunno. Ci sono lupi, agnelli e uccelli esotici. E albe e tramonti che annunciano cieli stellati.
Ecco, ecco dove possiamo andare. L’Alaska non è solo un luogo geografico, è uno spazio interno. Ma raggiungere queste lande è molto difficile proprio perché sono così vicine, separate solo da un soffio. O dalla pulsazione del nostro cuore.
Perciò ho avvertito, guardando il film, la misura di un cambiamento. L’avventuriera, la zingara della mia adolescenza si è trasformata, ha cambiato direzione cercando di sfiorare altri spazi, altre immensità. Che poi riesca ad annusarle soltanto è un’altra storia. Ma un certo profumo, un certo profumo non si dimentica. Mai.