Dirk Bogarde e Jane Birkin

Daddy Nostalgie descrive la ricerca di quei piccoli niente che ci legano alla vita.

(Bertrand Tavernier)

Per caso, spulciando fra i video, ho ritrovato Daddy Nostalgie, sublime film di Tavernier che offre spunti di riflessione sui grandi temi della vita: la memoria, gli affetti, la nostalgia, il conflitto, la malattia e la morte.

Un rapporto fra padre e figlia, in passato pieno di incomprensioni che scivolavano sulla superficie delle cose, viene ribaltato dalla malattia di lui. Nella casa di famiglia in Costa Azzurra, in un tempo  senza tempo, come quello dei sogni, fra le rocce a picco sul mare e il vento del presente che soffia sulle onde, madre e figlia assistono l’uomo che lentamente si stacca dalla vita. Lui è un ex ufficiale di marina, rigoroso, severo. Sua figlia, ormai grande, scrive sceneggiature, ed è diventata madre. Quando era piccola, aveva cercato invano di intercettare l’amore del padre, che le era rimasto sempre estraneo, lontano, come circondato da una nebbia impermeabile ai sentimenti.

Ma adesso, adesso, in Costa Azzurra, il tempo si dilata fino a toccare il cielo. Ogni giorno viene scandito da piccole cose: una passeggiata, una chiacchiera in cucina, la spesa…

Dettagli minimalisti che riescono a sanare ogni frattura, ricomponendo – anzi, componendo per la prima volta – l’armonia fra padre e figlia.

I due imparano a conoscersi, a entrare l’uno nell’altra. Non occorrono grandi gesti, o grandi spiegazioni. L’intesa, a volte, nasce come un raggio di sole improvviso: ha solo bisogno di uno spazio minuscolo fra due nuvole cariche di pioggia.

Il film è poetico, delicato, struggente. Si regge sulla magia di un quotidiano costruito sui particolari.

Il rapporto tra Caroline (così si chiama lei) e suo padre si ricuce prima che lui se ne vada per sempre, mentre il mare e il vento testimoniano il respiro d’amore, prima timido, poi più sicuro, che collega due persone prima estranee l’una all’altra. Perché il sangue del proprio sangue non basta a sé stesso per farsi amore, legame, calore. Ha bisogno di cure, di esplorazioni, ha bisogno di essere conosciuto e rinnovato.

Magnifico, indimenticabile film.

Negli anni, ho spesso ripensato alla scena finale, quando Miche e Caroline, rimaste sole, si trovano in una stanza e Miche domanda a sua figlia perché ha spalancato quella finestra lasciando entrare il sole. "Per fare finta di stare bene finché non staremo bene davvero". Quel gesto e quelle parole, se meditate, si aprono sulla profondità dell’esistenza.

Già, perché le finzioni, a volte, ci aiutano ad andare avanti. Sapendo che anche la ferita più grande prima o poi sarà accarezzata dal sole.   

Perché non c’è amore che non comporti dolore. Nè dolore che venga trasformato, prima o poi, dalla danza dei mutamenti.