A 5 anni dall’11 settembre ci si interroga sul cambiamento storico provocato da quel giorno terribile.

Giornali, televisioni, internet e radio non fanno che evocare, ricordare, intervistare, frugare tra la memoria dei cari delle persone scomparse, quelle persone, tante, troppe, che subirono una mattanza imprevedibile per scontare, forse, “altre” responsabilità.

Come sempre il massacro degli innocenti genera orrore. E lo fa soprattutto se il massacro ha una portata tale da investire simbolicamente tutto il sistema occidentale sul quale abbiamo costruito le nostre certezze, il nostro benessere, i nostri valori.

Le Torri che sfioravano i cieli di Dio caddero sotto gli eserciti di Allah.

Da allora non si fa che parlare di scontro di civiltà. 

Inutile, quindi, ripetere anche qui i discorsi sulle guerre al terrorismo, sul mondo che non sarà mai più come prima, eccetera.

 

Solo una piccola nota: il mondo non è mai più come prima ogni volta che muore un sacco di gente. E questo succede spesso, succede ovunque, in Africa come in Thailandia.

Certo, quando si muore perché attentano alla nostra vita il significato è ancora più aspro, drammatico, non ascrivibile al fato cosmico che lancia tsunami o terremoti.

Non è la prima volta che succede, però. E Hiroshima, ad esempio, che cambiò addirittura la geografia di un pezzo di terra?

Ora, cercando di sganciarci dagli schemi filo-americani o dall’antiamericanismo, che continuano a sbattere sulla faccia dei morti visioni diverse, teorie sui mercati e sulle condizioni socio-economiche, responsabilità e fattori religiosi, ricordiamoci che i morti hanno una faccia sola.

Una faccia che non è né americana né musulmana, né di destra né di sinistra.

Che non tifa Al Queida e neppure Bush.

La faccia della morte è la faccia più democratica e allo stesso tempo assoluta.

 

E qualcosa è cambiato da quel giorno, certo, ma questa consapevolezza non è ancora stata radicalizzata.

C’è da ricordare che chi oggi è buono domani può essere cattivo, e viceversa. E che il buono è anche cattivo.

Non è facile, lo sappiamo.

 

Asif Iqbal, cittadino britannico di origine musulmana che è stato torturato per due anni e mezzo a Guantanamo perché in sospetto di terrorismo, racconta che il suo incubo peggiore, al di là delle sofferenze psichiche e fisiche, riguardava proprio i “buoni”.

“A farmi tutte quelle cose orribile erano degli gli americani. Degli americani: come Rambo, come i buoni di tanti film, libri, fumetti, in cui i cattivi erano sempre altri, i russi, i gialli, i nazisti.

Scoprire sulla mia pelle che, invece, i cattivi erano loro, gli americani, ecco, questa è stata la cosa più dura”.

 

Se qualcosa deve cambiare, deve cambiare anche la consapevolezza che il mondo non è solo diviso in buoni e cattivi.