Visita anche: Editoria e Scrittura | La stanza di Virginia | Silmarillon | Stylos | La mia Istanbul
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Sono una donna anziana, di 76 anni, malconcia, che ha subìto diversi interventi di cui l’ultimo all’anca e quindi faccio fatica a muovermi. Mi piacerebbe uscire, scendere le scale (non ho l’ascensore) e fare una passeggiata per le vie della città, bere un caffé al bar, sorretta dal mio bastone. Ma ho paura. Paura del mondo attorno perché è così spaventosamente cambiato. Io sono stata in manicomio per tanti anni, ma dopo la legge basaglia (legge 180 che ha fatto chiudere i manicomi) i matti sono in giro e hanno ragione di essere matti: c’è troppo odio in questa società. Un odio che ha devastato l’Italia e che rende le persone ignoranti, aride e cattive. Non c’è più amore per nessuno. E per assurdo affermo che mi sentivo più sicura in manicomio, anche se so che con questa mia affermazione urterò la sensibilità di molti: io vorrei che riaprissero i manicomi. Dico di più, vorrei ritornarci.Tra le mie quattro mura non mi sento sicura, ho dei vicini terribili, persone inqualificabili. Mi disturbano con il silenzio, se facessero rumore mi farebbe piacere, vorrei sentire le grida dei loro bambini, invece niente, silenzio tombale che mi porta a domandare "sarà in casa?".Poi improvvisamente questo silenzio viene rotto da un rumore violento che ti fa sobbalzare perché non te l’aspettavi e se sei fragile di cuore può anche farti male. È una tortura morale. Madre Teresa di Calcutta diceva che c’è qualcosa di più grave dell’omicidio colposo: l’indifferenza, che può arrivare a uccidere un uomo. Ecco, i miei vicini mi trattano con indifferenza.Non parlano, non si rivelano, fanno comunella tra loro, continuano a vedermi come la donna che è stata in manicomio, una sorta di stigam impresso addosso, che mina la mia identità pesonale, per loro io sono ancora matta,
E anche mia figlia lo è, per il solo fatto di essere nata da me. Ma i veri disturbati di mente sono loro. La gente odia la malattia mentale perché ha paura di essre uguale al malato di mente, molti non lo sanno che sono già uguali ai pazzi. E così li emarginano credendosi sani. I miei vicini di casa ricostruiscono la mia pazzia. Sparlano alle mie spalle perché la mia casa è disordinata, per loro vivo nella sporcizia, loro invece hanno case asettiche, perfette e impersonali ma non si rednono conto che vivono nella sporcizia morale. Il fatto che non mi rivolgano la parola è drammatico.
(Alda Merini, testimonianza pubblicata su D – la Repubblica delle Donne)
Già. Alda Merini non è una donna comoda.
E non vuole esserlo. Tutt’altro.
Ma un’anima sensibile come la sua, tutta pelle, esposta alle variazioni climatiche di un temperamento mutevole, incline alla malinconia e allo stesso tempo dotato di ali, le grandi ali dei folli (folli di saggezza, mi verrebbe da dire), deve fare i conti con la tristezza quotidiana di quel mondo patologico che noi chiamiamo normale. Normale perché dormiamo. Normale perché ci rifiutiamo di vedere le nostre miserie, le nostre patologie, le nostre nevrosi ormai elette a modello sociale.
Sul piano psichico, la differenza tra il "sano" e il "malato", diceva Freud, è solo una differenza quantitativa, non qualitativa. Quantitava. Quindi il confine che separa (apparentemente) i due mondi risiede solo in un accumulo di peso, in un aumento della pressione. Interessante. Molto interessante. Siamo tutti potenzialmente folli. Non si tratta di un gene particolare (perlomeno finora neanche gli scienziati DNAdipendenti hanno isolato e indicato il cromosoma responsabile della follia).
Non si tratta di una virata improvvisa verso territori a noi sconosciuti, in cui si aggirano allucinazioni e fantasmi.
Noi, quei territori, li abbiamo già dentro.
Esistono diversi gradi di follia. Ancora una volta, si tratta di gradi. Di un aumento della temperatura che fa bollire la coscienza, la trasforma in magma esplosivo, lava che cola travolgendo le barriere mentali.
Ma i matti, spesso, sono saggi. Terribilmente saggi.
Vedono cose che noi non vediamo. Sì. E tuttavia queste visioni non hanno solo a che fare con le deformazioni psichiche, le proiezioni, gli stati paranoici o allucinatori.
A volte i matti vedono, semplicemente. Non guardano. Come diceva anche il Piccolo Principe di Saint Exupery, tra il guardare e il vedere esiste una differenza.
C’è un libro bellissimo, Le libere donne di Magliano, in cui Mario Tobino ci regala un affresco umanissimo, perfino" sensato" (sì, c’è un "senso", una direzione, anche nei matti, il loro caos a volte nasconde archietture precise, come accade con i frattali) del manicomio in cui lavora.
La sua domanda è sempre attuale:
"La pazzia è veramente una malattia? Non è soltanto una delle tante misteriose e divine manifestazioni dell’uomo, un’altra realtà dove le emozioni sono più sincere e non meno vive? I pazzi hanno le loro leggi come ogni altro essere umano e se qualcuno non li capisce non deve sentirsi superiore".
Si sentono invece molto superiori, i vicini di Alda.
Lei, la vecchia poetessa pazza, fa paura.
E io mi domando se questo timore non scaturisca proprio dalla voglia di evitare il confronto con uno specchio evidente (in cui l’immagine si inverte, come in tutti gli specchi) che ci rimanda ll nostro reale disordine nascosto dietro le "pulizie" che ostentiamo. Dietro quella normalità in cui infiliamo i nostri disagi, le follie che tratteniamo nel pugno della mano, preferendo chiudere gli occhi e dormire.
Forse le donne di Magliano sono davvero libere.
E noi, noi prigionieri delle nostre paure, degli attaccamenti, dell’ incapacità di vedere la follia di una società che si ammala di indifferenza. Una società in cui il cuore si chiude, la mente si ottunde, la ragione sancisce il predominio relegando i fantasmi inconsci in soffitta, insieme al baule con i libri di Freud, insieme alle ombre che potrebbero urtare il magnifico profilo sociale e civile in cui ci illudiamo di vivere mentre forse stiamo invece morendo.
Se solo avessimo più coraggio. Se solo decidessimo di guardare in faccia i nostri matti.
Saremmo allora liberi. Come le donne di Magliano. Come Alda.
Certo, un po’ picchiatelli. Ma liberi.
Pubblico un vecchio post del Mulino (uscito nell’ottobre del 2007). Non ho altro da aggiungere, oggi, preferisco tacere.
Accadde inaspettatamente.
Credevo di aver ormai perdonato tutto a mia madre.
Fu all’inaugurazione di una mostra: una conoscente mi chiese perché tutte le mie sculture raffiguranti corpi femminili sembravano erose, scavate da dentro. "Anche quando il vuoto non si vede – disse – quasi lo si avverte, immediatamente sotto la pelle di marmo", benché in marmo ne avessi scolpita solo qualcuna, per di più di piccolo formato. Tendevo a evitarlo, il mio materiale è il legno".
(Slavenka Drakulic, Pelle di marmo)
Pelle di marmo è un romanzo che fa male. Racconta del triangolo del desiderio fra una figlia, una madre e il suo compagno.
Ma la narrazione va oltre: scava nei recessi dell’anima per tirare fuori il nodo del femminile, quello del rapporto madre-figlia che, quando non funziona, genera mostri e fantasmi.
"La madre è la pietra d’inciampo di ogni donna", scrisse una volta la psicanalista Anna Salvo.
E questa pietra d’inciampo nel romanzo si fa marmo, distanza, freddezza.
Finché la figlia non avrà raggiunto e superato sua madre, non potrà mai esistere per davvero. Esisterà solo nel dolore, negli spettri della memoria, nella non compiutezza di un quotidiano esasperante.
Se la madre è quella che ci salva, è anche quella che ci danna. Per questo la mater terribilis presente in ogni tradizione antica aveva la valenza distruttiva, umbratile, che si affiancava a quella clemente, radiosa, rassicurante.
Per ogni Maria c’è anche una Lilith.
Fare i conti con la "pelle di marmo" sulla quale è scivolata una infantile richiesta d’amore può essere molto difficile.
Perchè il marmo non accoglie, non coccola, non avvolge. Le manine incontrano il ghiaccio mentre desiderano invece una radura gremita di margherite assolate.
Così quelle mani, una volta adulte, scolpiscono la ferita e le danno forma, corpo, perimetro.
Mentre in realtà non c’è perimetro, né frontiera, che contenga questo dolore arcaico insediato nell’anima.
A volte i romanzi possono essere impietosi, crudeli. Ma raccontano pezzi di realtà.
Questa storia raduna tutte quelle bambine che hanno toccato, tremanti, la perfezione fredda della pelle di marmo.
E, foss’anche per un solo istante, le libera.
Si sta come d’autunno
sugli alberi
le foglie.
Com’è bello, l’autunno. Anche se ormai è così fragile, assediato – come le altre stagioni – dai cambiamenti climatici e dagli stupri a questa nostra Terra, violata e dolente.
Ma ieri, viaggiando in treno, osservavo le chiazze rossastre, segnali degli alberi per indicare, da sempre, il cambiamento, dal culmine estivo alla "morte" e al riposo della natura in inverno. Le foglie che cambiano nel tempo sono, per me, una mappa meravigliosa dei mutamenti. Gli alberi, adorni e disadorni, in un ciclo continuo, ci insegnano come dovremmo vivere. Anche se noi a volte vorremmo sempre l’estate, festa dei sensi, negligenza del fare. Invece nello spogliarello autunnale, che preannuncia i rigori dell’inverno, c’è un gioco sublime: insieme alla primavera, è il bilico fra due stati, e due ragioni d’essere, per l’uomo che vive la natura come metafora di Vita.
Lo sbocciare dei fiori e la caduta delle foglie rossastre sono terre di mezzo, luoghi in cui tutto è possibile prima della "fissità" estiva e invernale, della alterna prevalenza di luce e del buio.
Ricordo ancora quando, da ragazzina, passeggiavo sul prato Rocca, castello medievale di Senigallia, perché adoravo guardare il grande muro che lo perimetrava, coperto di foglie che mostravano i rossi più belli, in un gioco cromatico suggestivo, invitante.
Ancora oggi, adoro il colore sospeso dell’autunno silente, in cui le foglie cadono e fanno rumore solo se calpestate.
Se ne vanno via così, muiono in un batter d’ali, mute e leggere, fragili e bellissime.
Anche io penso alla condizione umana.
E penso che forse, a volte, questa fragilità è necessaria per una nuova forza.
Dovremmo essere come foglie che si staccano e cadono, a volte. Invece restiamo appesi, ostinati e fuori stagione, a ciò che non può più essere, a ciò che deve scivolare via con il mutato tempo.
Una "morte" preludio di un cambiamento, un distacco necessario per nuovi assetti, per inverni e primavere, e future estati in un’esistenza che non dovrebbe mai essere uguale, in una funerea fissità che ostacola i processi di rinnovamento.
Non ho mai trovato triste l’autunno, anzi l’ho sempre amato di un amore intenso, intenso come quello che riservo alla primavera.
Difficile assistere, oggi, a queste stagioni stonate. Difficile osservarne – impassibili – l’oltraggio.
Gli autunni e le primavere della mia infanzia avevano in sé tutta la vitalità della natura, e il mistero dei suoi insegnamenti.
Usavamo i freschi di lana, oggi scomparsi perchè un giorno ci arrostiamo nel caldo e l’indomani ci rannicchiamo nel freddo, in un moto disordinato, barcollante, privo di orientamento, come quello di un ubriacone.
Ma io conservo la memoria d’autunno. E ancora lo cerco, come ieri, nel treno che attraversava boschi e montagne, rivelando isole rosse, beate nella loro straordinaria caducità.
Spero che anche in futuro rimarranno, qua e là, assaggi d’autunno. Da prendere a morsi. Affamati dal tempo.
Poco fa mi sono casualmente imbattuta in una frase che mi ha colpito. “Per cambiare rotta, quando guidiamo una nave, bastano pochi gradi. E arriviamo perfino in un altro continente”.
Pochi gradi. Pochi gradi per raggiungere un altro continente.
Vero. Spesso immaginiamo i cambiamenti come rivoluzioni epocali, come saghe infinite in cui smantelliamo ogni nostra parte, “moriamo” e rinasciamo. A volte, per cambiare basta poco. Basta…una goccia.
Troppo spesso siamo concentrati sul “grande” e perdiamo di vista il “piccolo”, anche nelle cose di noi che vogliamo cambiare.
Nessun cambiamento è indolore. Quei pochi gradi, possiamo scommetterci, costeranno pezzi di pelle e pezzi d’anima a chi decide quella “virata”.
Però è da lì che si parte.
Non a caso la metafora della barca e del mare è una delle più amate. In fondo, la vita è davvero come un viaggio in mare aperto, una navigazione a vista, un guardare orizzonti che si spostano continuamente.
Noi siamo la barca, sì. Ma siamo anche il marinaio e il mare.