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La mia Istanbul

Viaggio di una donna occidentale attraverso la Porta d'Oriente

 

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La paura è uno dei sintomi del nostro tempo. Tanto più essa suscita costernazione in quanto è succeduta a un’epoca di grande libertà individuale, in cui la stessa miseria, per esempio quella descritta da Dickens, era ormai quasi dimenticata.
In che modo è avvenuto questo passaggio? Se volessimo scegliere una data fatidica, nessuna sarebbe più appropriata del giorno in cui affondò il Titanic.
Qui luce e ombra entrano bruscamente in collisione: l’hybris del progresso si scontra con il panico, il massimo confort con la distruzione, l’automatismo con la catastrofe che prende l’aspetto di un incidente stradale.
È un fatto che i rapporti tra i progressi dell’automatismo e quelli della paura sono molto stretti: pur di ottenre le agevolazioni tecniche, l’uomo è infatti disposto a limitare il proprio potere di decisione. Conquisterà ogni sorta di vantaggi che sarà costretto a pagare con una perdita di libertà sempre maggiore.
Il singolo non occupa più nella società il posto che l’albero occupa nel bosco: egli ricorda invece il passeggero di una veloce imbarcazione che potrebbe chiamarsi Titanic o anche Leviatano.
Fintanto che il tempo si mantiene sereno e piacevole, il passeggero quasi non si accorge di trovarsi in una situazione di minore libertà: manifesta anzi una sorta di ottimismo, un senso di potenza dovuto alla velocità. 
Ma non appena si profilano all’orizzonte iceberg e isole dalle bocche di fuoco, le cose cambiano radicalmente. 
(…). Dove l’automatismo guadagna terreno e si avvicina alla perfezione, il panico si fa ancora più tangibile: in America, ad esempio, esso trova il terreno che gli è più propizio, e si diffonde lungo reti più veloci del fulmine. Già è un indice di angoscia il bisogno di sentire le notizie più volte al giorno; la fantasia si dilata e, girando sempre più vorticosamente su se stessa, finisce per paralizzarsi. 
Tutte quelle antenne su città gigantesche fanno pensare a capelli che si rizzano sul capo, sembrano evocare contatti demoniaci. 

Ernst Jünger, Trattato del ribelle, Adelphi

 

Alla metafora della nave Jünger contrappone quella del bosco, inteso come luogo immutato e immutabile, sovratemporale. Un luogo inviolabile, un recinto sacro in l’uomo ritrova la radice più profonda che si sottrae alle leggi del divenire.  È l’incontro con l’essenza di cui si ciba il fenomeno individuale, temporale.

La nave è estensione orizzontale, il bosco profondità.

Difficile, oggi, resistere alle navi per trovare il bosco (che si trova ovunque, in realtà, perché si tratta di uno  stato dell’essere).

Bisogna continuare a cercare, però.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Siamo figli dell’epoca,

l’epoca è politica.

 

Tutte le tue, nostre, vostre

faccende diurne, notturne

sono faccende politiche.

 

Che ti piaccia o no,

i tuoi geni hanno un passato politico,

la tua pelle ha una sfumatura politica,

i tuoi occhi un aspetto politico.

 

Ciò di cui parli ha una risonanza,

ciò di cui taci ha una valenza

in un modo o nell’altro politica.

 

Perfino per campi, per boschi

fai passi politici

su uno sfondo politico.

 

Anche le poesie apolitiche sono politiche,

e in alto brilla la luna,

cosa non più lunare.

Essere o non essere, questo è il problema.

Quale problema, rispondi sul tema.

Problema politico.

 

Non devi neppure essere una creatura umana

per acquistare un significato politico.

Basta che tu sia petrolio,

mangime arricchito o materiale riciclabile.

O anche il tavolo delle trattative, sulla cui forma si è disputato per mesi:

se negoziare sulla vita e la morte

intorno a uno rotondo o quadrato.

 

Intanto la gente moriva,

gli animali crepavano,

le case bruciavano

e i campi inselvatichivano

come nelle epoche remote

e meno politiche.

 

(Szymborska, Gente sul ponte)

 

 

 

 

 

 

 

Non c’è niente da fare. Non si può sfuggire al fatto che ogni cosa sia anche politica. Si può non votare, evitare di scegliere un partito, schivare giornali e trasmissioni televisive, rintanarsi nella grotta della Sibilla, ma la politica è sempre lì.

In ogni gesto, ogni pensiero, ogni parola. Illudersi di esserne immuni significa cadere in un tranello magnifico.

D’accordo, non ci piace, questa politica. Non assomiglia neanche un po’ agli ideali luminosi della Repubblica sognata da Platone e da altri filosofi che nelle epoche hanno provato a tracciare una strada, un’etica, un percorso in cui gli esseri umani potessero, accidenti, diventare meno lupi e più uomini.

Diciamo, anzi, che forse mai come in questo vagito del nuovo millennio, e nell’estrema unzione di quello appena defunto, la politica ha scoraggiato chi crede nella possibilità di un mondo governato dalla giustizia e dalla libertà, al di là della cortina prodotta da una democrazia molte volte illusoria (ma questa è un’altra storia, complicata, ci torneremo un’altra volta).

 

Però non possiamo fuggire, ficcare la testa sotto il cemento delle nostre metropoli per non vedere che là fuori, e intorno a noi, muore il sogno, la possibilità di un futuro per i nostri figli, l’adesione a una realtà finalmente emancipata da quel maledetto anello di potere che corrompe ogni pezzettino d’oro sparso qua e là.

Anche non votare è un gesto politico. Come politico è ignorare ogni fatto politico.

Pia illusione, quella di non volersi "sporcare le mani" con gli intrighi di Palazzacci, i naufragi nei Translatlatici, i triangoli tra politica, economia e informazione.

Molti si rivolgono all’arte, ai libri, alle meditazioni, coltivando nobili virtù mentre però altrove, nel mondo, prosegue l’olocausto dell’etica, avanzano gli stermini del diritto (e del dovere, ricordiamocelo bene) e della solidarietà fra esseri umani.

Non partecipare è una resistenza assai blanda. Sembra un po’ quella degli ignavi di Dante.

E tuttavia va bene anche questa, a patto che si dica la verità. E cioè che ce ne stiamo lavando le mani. Certo, "turarsi il naso" per tuffarsi nelle puzze della politica non è uno sport lusinghiero. Ma è necessario. Perché di fatto ogni atto è comunque, ripeto, un gesto politico.

Non si scappa dal mondo. Solo gli eremiti reali, non quelli immaginari, in fuga da sé e dalle proprie nevrosi, sono forse capaci di una "politica" superiore, quella di un regno celeste.

 

Ma per gli altri (Chiesa inclusa) la vita è politica. Dunque occorre schierarsi. "Estensione del dominio e della lotta" oppure tentativo di virare prima che il Titanic raggiunga l’ iceberg?

Nel "meno peggio" dobbiamo trovare la forza di fare una resistenza. Così come ogni giorno, la nostra polica personalissima, quella che si sovrappone e si mescola alle macro-politiche dei nostri sistemi, influenza e condiziona chi ci sta accanto.

Ma non basta, questa nostra politica,  se la disinneschiamo da una partecipazione più ampia e, soprattutto, se crediamo così di evitare quella cosa schifosa (sì, in gran parte lo è ) che è la politica dei governi, delle istituzioni, dei popoli.

Qualcuno mi parlava, recentemente, del fatto che ci sono solo due modi di affrontare il potere: usarlo oppure esserne usati.

Così questa persona ha scelto di diminuire i "gradini" di potere che possono influenzarla, condizionarla, appropriandosene e cercando di usarli per ottenere più libertà.

Perfetto. Non fa una piega.

Purtroppo la vita è lotta, è scelta continua, schieramento. Anche nello scegliere, ogni giorno, fra Bene e Male, l’uomo è costretto a non abbandonare mai la sua arena.

 

Dunque ripararsi un un aureo castello al di fuori delle cose del mondo (che sono cose politiche, sempre nell’accezione offerta anche da quel genio scintillante della Szymborska), ignorando i fatti "là fuori" e i gruppi che prendono posizioni, serve piuttosto ad ammantarsi di stelle che però somigliano, guarda un po’, alle patacche che si appendono sulle divise di poliziotti e marinai.

Insomma, per quanto difficile, il balugìnio di questo mondo richiede presenza, coraggio. Consapevolezza dell’importanza di essere ma anche di essere, allo stesso modo, inseriti in una Terra vibrante in cui ogni nostra scelta, perfino la più stupida, insignificante, ha un colore politico.

Possiamo fingere che non sia così. Ma appesantiremmo di più il già spesso velo di Maya. Che a volte sembra davvero una coltre. 

 

 

Nelle persone che amiamo, c’è, immanente in loro, un qualche nostro sogno che non sempre sappiamo discernere, ma che perseguiamo. Era stato il mito di Bergotte, di Swnn, a farmi amare Gilberte; il mito di Gilberto il malo a farmi amare la duchessa di Guermantes.

E quale vasta distesa marina era stata riservata, per quanto doloroso, geloso, individuale esso potesse apparire, al mio amore per Albertine!

Del resto, proprio per queste qualità individuali su cui ci accaniamo, i nostri amori per le persone sono sono già aberrazioni.

 

(Marcel Proust, Alla ricerca del Tempo perduto, vol. XVI, Il tempo ritrovato, Einaudi)

 

Oggi pomeriggio, mentre stavo trafficando sulla mia biblioteca alla ricerca di un libro (sono disordinatissima, purtroppo), mi sono imbattuta in Proust.

Una vecchia, straordinaria conoscenza. Anni fa, approfittando della sosta forzata dovuta a una malattia che i medici non riuscivano a diagnosticare, ho avuto il privilegio di leggere tutta la Recherche.

Ricordo di avere passato notti e giornate intere con gli occhi incollati sui libri.

Semplicemente, Proust aveva sovrapposto il suo tempo al mio.

Mi aveva trascinato in una zona remota, priva di confini materiali, sospesa tra cielo e terra.

E mi sono innamorata. Della sua scrittura, della sua sensibilità, del suo pensiero. Mi sono innamorata di quelle descrizioni pittoriche in cui sembra di muoversi all’interno di un quadro impressionista.

Malgrado siano passati vent’anni, ricordo ancora con impressionante nitore la minuziosa descrizione del sole che gioca sul vestito bianco di Odette, mentre lei tiene in mano il suo grazioso ombrellino, e sorride, mentre sull sfondo il parco la trattiene in una cornice. 

 

Cercavo proprio quel passaggio (grazie all’abitudine, poi smarrita nel tempo, di segnare con un lapis blu le frasi più belle dei libri che leggevo) e invece mi sono ritrovata fra le mani l’ultimo volume della Recherche.

Aprendo le pagine a caso, ecco che sosto su questo passaggio che allora, come oggi, mi aveva colpito.

Quella di Proust è un’opera immensa in cui i percorsi individuali si fondono ai ritratti sociali (come quelli che avvenivano nel salotto dei Verdurin), in cui la riflessione filosofica incrocia una sensibilità estrema tesa fino alla curva del cielo.

Eppure l’amore, in ogni sua variante, rimane il tema di fondo da cui parte ogni sinfonia.

Pochi hanno saputo osservare il caleidoscopio dei sentimenti con la sua stessa sensibilità.

Tutto pelle, Proust. E cervello, tanto cervello.

Gli amori narrati nel suo libro sono dolorosi, estatici, a volte clandestini (l’omosessualità del barone di Charlus). 

Ma tutti sono dotati di un’anima, quella che la penna di Proust ha plasmato dalla creta del suo pensiero.

E svicolano dalle maglie del tempo perché vivono in un altro tempo, quello stesso tempo analogico che rappresenta il filo di tutta la Ricerca.

Aprire il libro, dopo tanti anni, per ripercorrerne alcuni passaggi, è stato un po’ come dare un morso alla mia madeleine.

Ho sentito affacciarsi una malinconia profumata che però è rimasta sospesa sulla finestra della memoria, allontanandosi senza fare rumore.

Non si può tenere fra le mani in un libro di Proust senza ritrovare il nostro tempo perduto.

 

 

 

 

Il lusso di leggere. Com’era bello quando ero ragazzina, e avevo tutti i pomeriggi della mia vita per leggere.

Ficcavo mente e pancia in ogni libro.

Pazza per la letteratura francese, ubriaca dei russi, sospesa nelle atmosfere inglesi, quelle in cui ciondola il tempo, si dilata e poi scoppia, esplode in una bolla che si porta via le ore.

Mi ricordo di  quella domenica mattina in cui lessi, senza interruzioni, lo giuro, M.me Bovary. Tutto d’un fiato. Cinque ore. A pranzo avevo finito di sbirciare nella sua vita clandestina, e lei di guardare dalle pagine del libro i poster della mia stanza.

Il tempo della mia adolescenza, della nostra adolescenza, è cadenzato dai libri in cui anneghiamo. E’ allora che prende forma quella tentazione di esistere nelle pagine che fissano i moti dell’animo, rovistano nel sottosuolo, cercano di trafiggere il cielo.

Un’"età lirica", per dirla con Kundera, in cui i nostri amori carnali convivono con le passioni della mente che fiorisce, man mano, e dona i suoi frutti maturi, riscaldata dal sole dei gusti letterari che andiamo scoprendo.

Alcuni di noi hanno avuto la fortuna di sentire il "brivido alla colonna spinale" di cui parla Nabokov,  quel tremore che coglie chi varca la terra dei buoni lettori.

Ma la vita scorre, si cresce. Le passioni a un certo punto devono convivere con la necessità di misurarsi con il mondo, quello stesso mondo che, letto, fa un altro effetto, più rarefatto, meno "cattivo". Sì, meno cattivo. Malgrado Dostoewskj e i suoi demoni, i suoi incredibili, magmatici sotterranei.

Il mondo "vero", là fuori, lui sì, conosce la spietatezza del boia.

E ricordi con nostalgia com’era bello quando avevi i pomeriggi interi da sgranocchiare leggendo i tuoi autori. Quando sei grande, anche se fai un mestiere culturale, anche se hai la dannazione e il privilegio di farlo, non è più come prima.

Le fanciulle in fiore sono cresciute, non ti salutano più con la manina dal molo.

E così, quando ti ritrovi con un libro in mano, il gatto rannicchiato nella piega del gomito mentre fuori piove (è banale, lo so, ma dannatamente bello, bello e basta), ti ritrovi a pensare ai giorni del tuo tempo perduto.

Com’è facile, a dire il vero, leggere e filosofare. Esercitare la sensibilità mentre senti che l’anima preme sul petto quasi cercando, là fuori, quel soffio divino di cui, dicono, è respiro. Respiro del suo respiro. Come sangue del sangue, come un figlio.

Leggere nobilita, fa sentire migliori.

Come sarebbe bello non lavorare. Trascorrere le giornate osservando gli scatti cromatici del cielo in cui si disegnano gli umori del tempo, passare in rassegna con il dito il filare di libri esitando sui titoli comprati e magari mai letti, per poi distendersi annusando la pagina come fosse un feticcio, con il suo odore di stampa che copre le puzze del mondo.

Però il mondo, là fuori, c’è lo stesso. E se la lettura è un momento fondamentale, è solo  là fuori che veniamo temprati.  Non con il liuto e con l’armonica, ma con il ferro e il fuoco.

Certo, camminare sui carboni ardenti del quotidiano sembra far tutto tranne mangificare la nostra anima, svegliarne la sensibilità.

Il mondo è duro, rozzo, impietoso. Ogni giorno provano a farti male, e devi lottare, lottare fino alla radice della tua esasperazione, misurarne il limite e superarlo. Egoismi, arrivismi, nepotismi, qualunquismi, banditismi, menefreghismi…Una galassia di ismi in cui ti perdi, inghiottito da un buco nero.  

Lì però, esattamente lì, e non altrove, le tue belle letture vengono messe alla prova.

Non la prova effimera della sofisticata, aurea conversazione intellettuale in cui qualunque animo sensibile, educato alla lettura, si cimenta con eleganza, imbellettando pause e parole.

E vengono fuori i tuoi limiti, "là fuori", nella parola vissuta e non letta, non scritta.

Si affacciano i mostri, le resistenze, le piccole vigliaccherie di ogni giorno. E accanto a queste, la fiaccola della coscienza cerca di non perdere mai quel sentiero che sta seguendo, sentiero di elevazione dall’umana miseria.

Ma è lì, nell’orribile, meraviglioso e difficile mondo, che tu sai chi sei veramente. Lì non "leggi" i demoni dostoewskjani, lì incarni.  E sempre lì subisci la tentazione di Anna Karenina, e puoi decidere se inclinarti verso l’istante fatale oppure incamminarti  sulle orme di un più saggio pensiero.

E come i Malavoglia conti ogni giorno quanti lupini hai nel sacchettino.

Lupini, stupidi lupini. Ma ne abbiamo bisogno per vivere.

La nostra bella biblioteca deve fare i conti con la fatica di essere scagliati ogni mattina in un mondo che a volte pare il risultato non di un sogno divino ma dell’incubo di un fauno che ha appena ucciso le ninfe e le ha fatte a pezzi con il coltello.

Quel mondo, quel mondo che ti ruba le ore, declina le giornate programmando il quotidiano furto della tua libertà, è anche l’arena in cui scopri te stesso.

Il viaggio, qualunque viaggio, non lo si legge. Lo si fa.

E allora se da un lato hai perduto la cuccia ovattata in cui l’anima si rannicchia sognando di fare il grande salto in cerca del suo respiro latteo, stellato, come i sentieri delle stelle notturne, dall’altro lato senti anche che la tua crescita si misura attraverso la sfida dell’impatto del mondo sulla tua pelle. Oltre la tua pelle.

Il libro è un fedele, taciturno compagno. Non usiamolo per schivare la vita che per sua stessa natura è fatta di relazione con l’altro. A volte è più  facile amare un albero, o un gatto, piuttosto dell’uomo.

Così come è più facile consegnarsi all’icona di un "io lettore" che cercare di verificare con la bilancia della giustizia quanto ciò che leggiamo fa parte di noi o rimane un coltissimo, delizioso corredo mentale.

Ci vuole una spada, nel mondo. I tuoi compagni di carta e parole sono lì, ma l’esercito sei tu stesso, così come sei, in fondo, anche il nemico.

Troppo spesso i buoni lettori usano il libro non come spada ma come scudo, come difesa, una pelle per coprire ferite tremanti che vengono avvolte nella carta, suturate dall’inchiostro delle parole.

In quei momenti, la sera, quando spegni la luce sul mondo senza aver letto una sola pagina del libro che hai accanto al divano, pensi che si tratta semplicemente di un altro tempo che non coincide più con gli amori sfrenati della tua adolescenza, neanche quelli rilegati o cuciti a filo refe.

Ora è il tempo di fare i conti con le asperità di un mondo fracassone e selvaggio, d’accordo. Ma che importa?

Solo così capisci che ci sono un solo libro, un solo lettore. E nessun libro, nessun lettore.

 

 

 

La padrona di questo blog non scrive ogni giorno.

C’è però un motivo preciso, oltre al suo tempo…interdentale in cui riesce a stento a cucinarsi un piatto di pasta, almeno in questo periodo.

Il motivo è che il post quotidiano, se da un lato risponde al criterio con cui, nel 1999, sono nati in America i primi blog (web log), esplosi da noi nel 2001, dall’altro rischia di sottrarre spessore alle riflessioni, di sfiancarle senza dare il tempo di "metabolizzare".

Perlomeno in un blog come questo, soggetto a  una cronica tentazione giornalistica ma soprattutto  al desiderio di riflettere su alcuni argomenti, socio-culturali e non (ne ho parlato nel post precedente).

Non è, insomma, il classico blog monotematico, nè tantomeno un diario personale (dignitosissimo, intendiamoci. Ma non è questo il caso).

La blogosfera è un mondo complesso, affascinante, ricco di scoperte (ma anche di tanta mondezza, sia chiaro).

Oltre all’egosurfing, che rappresenta il vero demone del blogger (e che come tale va tenuto a bada… o al guinzaglio, come facevano le damigelle di Paolo Uccello con i loro draghi), ci sono anche alcuni casi in cui "l’ansia da prestazione di post" rischia di generare effetti spiacevoli.

L’altro giorno, con la mia amica Luisa Carrada, di cui certamente conoscete il  bellissimo sito, discutevamo di blog e derivati. 

E abbiamo coniato due espressioni piuttosto eloquenti a proposito di alcune varianti sul tema.

Una riguardava i blog collage, ovvero quei blog pieni di pezzettini sparsi, come parmigiano spruzzato su un’amatriciana,  senza nessun filo rosso che faccia da guida (come un patchwrok cucito da un ubriacone), l’altra quei blog striminziti pieni solo di frasi un po’ stitiche ma "ad effetto", ovvero i blog bonsai, come li abbiamo ribattezzati.

Fare un blog in realtà è tutt’altro che semplice, specie se ci si affranca dal diario personale e si cercano altre strade, altri contesti, altre scritture.

I post solitamente si scrivono ogni giorno? In teoria sì, anche se in pratica le persone impegnate non postano più di due, tre cose a settimana.

Poi ci sono i blogger di razza, che postano cose interessanti ogni giorno. Ne conosco diversi. 

Per gli altri, si rischia di inciampare nella postmania (con danni sulla qualità, per i blogger meno brillanti) mentre dovremmo pensare, forse, di scrivere solo quando abbiamo davvero qualcosa da dire.

Che faccio io con il mio blog? mi sono chiesta.

Al di là del tempo (solite scuse, a volte) perché non scrivo ogni giorno?

E mi sono trovata una risposta: credo sia importante, in un mondo che corre, fermarsi un po’ su un tema, creando, se possibile, un dialogo intorno all’argomento, che possa arricchire me e i vari avventori della locanda.

Un modo per coniugare le risorse del web, e dei blog in particolare, con l’amore per l’approfondimento e per quella conversazione intelligente che una minuscola community, fatta anche solo di due o tre persone, riesce magari a far fiorire.

Anche solo nello spazio acerbo di un paio di giorni.

Alcuni blogger, qui, ne hanno dato una fulgida prova.