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La mia Istanbul

Viaggio di una donna occidentale attraverso la Porta d'Oriente

 

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La morte è forse l’unica vera democrazia possibileDavanti a lei, nel momento del passaggio, siamo davvero tutti uguali. Tutti.

Peccato che oggi venga vista come un affronto al delirio onnipotente dell’uomo. Vero, l’eternità ha da sempre rappresentato una suggestione, però fino a qualche tempo fa la morte veniva accettata come evento ineluttabile. Passaggio verso un’altra dimensione, possibilità per la Vita stessa di essere, di accadere, di precipitare nello spazio e nel tempo.

Oggi invece viene combattuta, osteggiata, rinchiusa come un segreto indicibile dove nessuno lo  può ascoltare.

Poveri vecchi, costretti a campare a ogni costo fino all’ultimo estremo possibile. Tirati indietro per i capelli, infilati nei tubi, imbottiti di medicine, di anestetici, defibrillati.  Operati con quell"accanimento terapeutico" spacciato per amore di vita.

Se la vita la si ama davvero, la si lascia andare.

Non è disdicevole, morire.

Non è un peccato.

Né qualcosa di cui vergognarsi.

Soprattutto, dovremmo piantarla di cercare di prolungare all’infinito la nostra esistenza. Mai secolo fu più ostile alla morte dell’alba di questo millennio.

Pur di vincerla si lasciano in vita cadaveri, si prolunga il calvario dei vecchi che devono vivere, devono farlo per noi, per il conforto del nostro egoismo.

Ci vuole coraggio, certo. Ma come è bella – e naturale – l’immagine del vecchio indiano a capo di una tribù, seduto sotto un albero in attesa. Perché quello "è un buon giorno per morire".

E nessuno viene a imporgli una flebo. O gli mette il defibrillatore sul cuore.

 

 

Se gli Argonauti cercavano il Vello D’Oro, gli psiconauti, alla ricerca del Vello Ebbro, oggi affollano gli smart shops. Si chiamano così i negozi "furbetti", letteralmente, che dall’America stanno arrivando anche in Europa.

Finita l’era dei pusher, delle squallide perlustrazioni notturne in "piazza", alla ricerca del pezzo di hascisch o delle pasticche, oggi si fa la spesa  negli smart shops, dall’aria ecologica,  che forniscono una serie di droghe naturali ai limiti della legalità.

Ecco allora che si può fare un trip fumando la salvia divinorum (peccato che il basilico non funzioni altrettanto bene, quello lo abbiamo tutti, in casa) o masticando foglie di betel. Oppure, ancora, estrarre la mescalina dai funghi di San Pedro.

Il bello è che si sono ispirati allo Stato, che mentre ci vende le sigarette ci avverte anche, in pratica, che ci sta ammazzando: i negozietti in questione propongono il fai da te per la coltivazione della marjiuana, mentre un cartellino recita di fianco ai semi: "ricordatevi che coltivare marjiuana è un reato".

Ora, non sarà certo una canna a fare di noi dei drogati. In fondo chi di noi non si è fatto qualche spipazzata almeno una volta? Magari colpito da Baudelaire, Kerouac o Castaneda? Magari in qualche amena serata giovanilistica, passata fra brufoli e alcol?

Certamente un "sano" ritorno alla natura è meglio delle droghe chimiche che continuano a infestare discoteche e locali.

 

 

 

Il problema, però, sono le dosi. Perché se il negozio è smart, magari chi acquista queste erbette magiche non lo è altrettanto. Magari è un deficiente.

Tra l’altro, diciamocelo, viviamo nell’era dei consumi in eccesso. Facile, quindi, abusare di qualche innocua fogliolina e farsi un sacco di male.

Il problema è che una volta, almeno, alcuni popoli usavano le droghe con una funzione rituale, sacrale. Come gli indiani d’America. Loro fumavano il calumet e prendevano funghi, ma occasionalmente e con un intento particolare, spirituale. E infatti con l’alcool fornito abilmente dagli "yankees" si rincoglionirono.

I poeti maledetti bevevano l’assenzio, la "fata verde", come lo chiamavano, per trarre ispirazione nell’arte. E già qui scivoliamo però già nell’abuso, nell’eccesso.

Quelli di Woodstock se non altro vivevano, nella loro illusione, il romanticismo di una ribellione, una rivoluzione verso un mondo che volevano cambiare.

Oggi, gli ex hippies che non lavorano in banca sono migrati verso qualche remoto paesino asiatico, o vivono come disadattati nella società che non hanno potuto cambiare.
Oggi, invece, persa ogni funzione sacrale, smarrito ogni addobbo romantico, ogni idealizzazione, rimangono i ragazzini che si "calano" allegramente le pasticche chimiche nel frastuono di una discoteca o in mezzo a un rave campestre.

Molto prosaico, senza nessuna funzione sacrale, nè nessuna voglia di espandere la propria coscienza (con buona pace di Timothy Leary e di Aldous Huxley) e neppure cambiare un mondo che offre troppe comodità. Insomma, lo sballo per lo sballo. Nessuno scopo artistico o tardo romantico.

 

La via di fuga dal mondo smette travestimenti o intenti diversi e diventa ciò che è. Stavolta, peraltro, vanno per la maggiore le pilloline che provocano solo balzi adrenalici per ballare più gasati e, probabilmente, scopare con più verve. Ma, anche qui, nessun aspetto sociale contro cui ribellarsi. Com’è demodè, oggi, Baudelaire, in quel fumoso caffè parigino, a versarsi l’assenzio per navigare nei suoi fiori del male insieme al lettore, "mon semblable, mon frère"…

 

 

AVVISO AI NAVIGANTI

AGGIORNAMENTO DI GIOVEDI’ 26 OTTOBRE:

NON SI SA COME, MA DA VERONESI SI E’ ARRIVATI ALLA MELA DI EVA.

LA PADRONA DEL BLOG, INCURIOSITA, ATTENDE UN ALTRO GIORNO PRIMA DI INSERIRE UN ALTRO POST. VUOLE VEDERE DOVE I SUOI OSPITI VANNO A PARARE.

E IN OGNI CASO VERONESI VAL BENE UNA MELA…

Oppure sono in preda al panico senza neanche essermene accorto, e questo consegnarmi al mio peggiore presentimento ha a che fare con quel genere di letali assurdità che si compiono nell’incombere di un pericolo, quando il terrore si impossessa del nostro cervello e risolve il problema facendoci sentire protetti da quel pericolo, invulnerabili, al sicuro, con una sensazione intensissima e naturalmente del tutto fallace che ci spinge a fare l’esatto contrario di ciò che andrebbe fatto (i fagiani terroirzzati dall’incendio del bosco che invece di fuggire dal fuoco ci si tuffano dentro; Stanlio che, inseguito dall’assassino, si infila un secchio in testa perché non sa dove nascondersi) o anche a non fare proprio niente, a restare immobili ad attendere l’arrivo dell’irreparabile con l’assurda speranza che quando arriverà non sarà così irreparabile.

(Sandro Veronesi, La forza del passato)

 

 

 

Sul fatto che  Veronesi sia uno degli scrittori migliori che abbiamo non c’è alcun dubbio. L’ultimo premio Strega, quello di Caos Calmo, conferma qualcosa che già sapevamo da tempo: scrive dannatamente bene. E narra come pochi sanno fare.

Soprattutto, la sua penna sempre agile, acrobatica, sospesa fra ironia e malinconia, sentimento e cronaca asciutta, traccia nelle architetture dei suoi romanzi dettagli ricchi di umanità, che mettono a fuoco la corruzione, la fragilità  e i dilemmi del nostro vivere.

Come in questo passaggio letterario, estratto dal bellissimo La forza del passato.

Quante volte ci siamo consegnati ai nostri errori fatali? Quante volte, giunti sul limitare del nostro destino, abbiamo chiuso gli occhi davanti a un pericolo fingendo che non fosse tale?

Come ipnotizzati, guidati dall’incantesimo della nostra Morgana interiore, abbiamo percorso le strade dei nostri errori con la convinzione di scansarne le conseguenze. O, peggio, non abbiamo voluto vederli, li abbiamo abitati con le illusioni, ricamati con vane speranze, illuminati con il fuoco fatuo dei nostri desideri. Altre volte abbiamo semplicemente seguito la traccia del nostro disco rotto, quello che si arresta sempre sullo stesso punto e ne ripete la strofa. Non importa quanto dolore provochi, quanto la strofa sia urticante. Lo facciamo e basta. E mentre ripercorriamo la stessa strada ci raccontiamo un altro percorso perché, come per lo Stanlio di Veronesi, il secchio infilato in testa ci mette al riparo dalla paura impedendoci di guardare cosa succede davvero. Vogliamo sbagliare, e per farlo dobbiamo convincerci che un pericolo non è tale, che un errore è invece il baluginare di un nostro successo.

Chissà cosa attira l’uomo nel vuoto, cosa lo fa arrancare verso i suoi errori, magnete inseparabile dalla calamita fatta della sua stessa carne, dei suoi stessi pensieri.

Invece di fuggire andiamo incontro alla sorte. E quando ci sfiliamo  il secchiello dalla testa è troppo tardi. Troppo tardi.

 

 

 

 

 Malinconia, Dürer

 

Nella sapienza antica in cui microcosmo e macrocosmo si specchiano nelle corrispondenze tra psicologia e astrologia, tra umori, temperamenti, pianeti, costellazioni, lo statuto di Mercurio è indefinito e oscillante.

Ma secondo l’opinione più diffusa, il temperamento influenzato da Mercurio, portato agli scambi e ai commerci e alla destrezza, si contrappone al temperamento influenzato da Saturno, melanconico, contemplativo, solitario.

Dall’antichità si ritiene che il temperamento saturnino sia proprio degli artisti, dei poeti, dei cogitatori, e mi pare che questa caratterizzazione risponda al vero.

Certo la letteratura non sarebbe mai esistita se una parte degli esseri umani non fosse stata incline a una forte introversione, a una scontentezza per il mondo com’è, a un dimenticarsi delle ore e dei giorni fissando lo sguardo sull’immobilità delle parole mute.

 

(Italo Calvino, Lezioni americane)

 

 

 

 

 

 

L’incisione di Dürer evoca – in modo assai suggestivo – la  malinconia. Ma cosa rappresenta nella nostra esistenza?

Uno stato dell’essere, certamente. Poi?

Cosa si fa di questa inquietudine che ci scava dentro?

Lo sanno bene poeti, pittori, narratori. 

Dalla malinconia nasce la misura della profondità. Non a caso l’incisione allude anche, nei suoi molteplici significati ermetico-alchemici, al dio Saturno.

E a Saturno gli Antichi facevano corrispondere, fra i metalli, il piombo. Il metallo più pesante.  

Dunque la malinconia è piombo sull’anima che vorrebbe invece, per sua natura, essere aerea.

Eppure è dallo scavo in profondità che poi si sale verso l’alto, verso le dimensioni rarefatte in cui dispiega il nostro battito d’ali.

 

Senza malinconia non c’è profondità, dicevamo. E senza profondità non esiste creatività.

Ogni genio, ogni artista vive insieme alla malinconia che si rintana in un cantuccio, come un’ombra furtiva ma costante. A volre esplode, altre sonnecchia. Ma è sempre lì.

Passa le sue giornate insieme a questa compagna ingombrante che assedia il  vivere costringendo alla riflessione, all’introversione, al ripiegamento in sé stessi da cui si ricavano i tesori nascosti.

E se l’amletico dubbio dell’ essere o non essere perseguita l’esistenza del malinconico, quello stesso dubbio diventa un quesito insistente che si trasforma in un bivio: rifiutare di essere oppure trovare strade alternative, possibilità nuove di esistenza, ponti gettati verso  il battesimo di diverse modalità.

Sottile è il limite tra malinconia e masochismo, tra introspezione e resa. In realtà la malinconia  è una spada, un’arma affilata con cui tagliamo le ostruzioni della superficialità. Viverla senza farsene fagocitare è la sfida di ogni scintilla del genio.

E dietro ogni umorismo brillante, ogni magnifico scatto dell’ironia, si nasconde un  pensiero uggioso.

Come fu per Chaplin. E per Gassman. E per tutti coloro che fecero della malinconia un moto creativo.

Per alcuni divenne arte.  Per altri, sublime ricerca spirituale.

 

 

 


 

Le grandi angosce dell’animo sono sempre dei cataclismi.

Quando si verificano il sole s’inganna e le stelle si turbano.

Per ogni anima sensibile arriva sempre il giorno in cui il Destino dipinge un’apocalisse di angoscia: come se i cieli e l’universo si rovesciassero sul nostro sconforto.

(Fernando Pessoa, Il Libro dell’inquietudine)

 

 

 

 

 

E che cosa succede quando il cielo e l’universo piovono sul nostro sconforto?

Succede che siamo obbligati a misurare i nostri limiti. Non c’è anima sensibile che non conosca l’angoscia, che non verifichi l’assenza di quelle certezze sulle quali costruiamo la nostra vita pericolante.

Eppure è nell’assenza che si procede. Si avanti per vuoti. Quasi mai per pieni.

Non si tratta di un inno al masochismo, come sarebbe facile pensare, nè di scansare la gioia come se si trattasse di un acciacco stagionale (e chi mai lo farebbe?).

Si può però sapere che nell’inverno del nostro scontento (bellissimo titolo di un libro di Steinbeck) germogliano i frutti della maturazione.

Se sappiamo curarli, ovviamente. Riconoscerli, amarli. Altrimenti rimarremo sospesi nel limbo infinito di un vano lamento, di un tedioso rimuginare sulle nostre ansie che non diventeranno mai carburante per il percorso da compiere.

Dall’attrito nasce la scintilla. Solo da lì.