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La mia Istanbul

Viaggio di una donna occidentale attraverso la Porta d'Oriente

 

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L’altra sera ho visto un documentario sulla storia dei musher, gli uomini che guidano le slitte trainate dai cani. Il termine risale, secondo la tradizione, all’epoca dei primi cacciatori di pellicce francesi nelle foreste del Canada settentrionale, i famosi trappeurs, che incitavano i cani alla partenza gridando: “March!”. Gli inglesi, dopo aver imposto la loro dominazione sul Canada nel 1763, storpiarono questo comando in “mush”, da cui deriva musher.

Un musher raccontava la storia del suo rapporto con i cani, del legame speciale, arcaico, magico, sottile, che collega insieme questi destini fatti di neve e di sguardi.

L’uomo e l’animale collaborano, si scambiano informazioni, suggerimenti, preoccupazioni, entusiasmi.

I cani non vanno lasciati soli, mai. Non appena il musher smette di partecipare attivamente al traino della slitta (deve sempre aiutare spingendo avanti la slitta con una gamba) o si ferma senza ragione ecco che loro, preoccupati, girano indietro la testa e formano un punto interrogativo muto, inquieto, sollecito. "Dai, allora! Che fai? Che succede?" sembrano dire con i loro occhioni di ghiaccio e di muschio.

L’uomo e il cane, insieme nella solitudine di una natura straordinaria ma anche aspra, indomita, pericolosa. 

Ripenso alle storie meravigliose di Jack London, a quelle pagine indimeticate sul rapporto tra l’uomo e quella Natura a volte ostile a volte amica, compagna di sentieri selvaggi e solitari in cui l’anima si distende sulla neve mentre l’Ego resta imprigionato  sul perimetro di un’orma fragile, sottoposta a una piccola, rapidissima esistenza cancellata dai primi fiocchi di neve.

I cani. I cani compagni, i cani amici, fratelli, confidenti.

Quel rapporto antico, poggiato sulle albe remote di una storia d’amicizia e di solidarietà, qui vive la sfida di traversate scandite da albe e tramonti, da notti fredde in cui il battito di un cuore di cane cade dolcemente, come una foglia in autunno, sul respiro dell’uomo, così come il battito di un cuore d’uomo soffia calore sui sensi festosi del cane che lo accoglie. 

E insieme, in silenzio, si sta nudi davanti a una natura fatta di stelle e di nevi.

Quando la slitta sta per partire i cani si lanciano in ululati gioiosi, frementi per l’imminente partenza. Andare, andare. Per loro si tratta di andare, avanti, sempre avanti, in un tragitto che è meta.

Dovremmo imparare da questo andare in cui viaggio e meta coincidono.

Senza attaccamenti, godendosi il paesaggio che man mano si incrocia.

Mi ha ricordato, il documentario, il mio smisurato amore per Zanna Bianca e per quei richiami della foresta, richiami selvaggi, potenti, che nella mia infanzia spostavano la soglia della mia immaginazione portandomi in quelle terre lontane, fra quegli uomini capaci di empietà ma anche di compassione, così bestie e così angeli, così divisi tra l’inferno e il cielo.

E loro, gli animali. Sfruttati o amati.

E lui, il cane. Il cane delle nevi, dei ghiacci, delle lande deserte.

Il cane che aspetta l’uomo, aspetta sempre che torni anche quando se ne va lasciando da parte ogni speranza.

C’è da fare, in quei posti.

C’è da essere insieme  per vivere la solidarietà che schiude le porte della dolcezza sciogliendo la neve interiore.

Solo una fiamma d’amore squaglia la neve e dissolve ogni freddo.

 

 

 

Qualche tempo fa, una sera, guardavo una mia amica mentre mi raccontava le sue faccende seduta sul divano del mio salotto, sorseggiando una birra.
All’improvviso mi sono trovata a fissare la sua ombra, proiettata dalla luce artificiale sul muro.
Lei, la mia amica, parlava, parlava e io invece guardavo la sua ombra. Parlava anche lei, l’ombra. Stava lì, il suo doppio, a disegnare il profilo della mia amica nella sera, accompagnandola nei gesti, nella sigaretta sulle labbra, nelle risate.
Non riuscivo a schivarla con lo sguardo. La fissavo, affascinata.
Eccola lì, l’ombra di cui parliamo sempre. Vivente. Me la trovavo davanti e mi sembrava, a tratti, che si facesse beffe della mia amica. Ironica, pungente, sapeva di essere viva, anche a insaputa della sua “proprietaria”. Del resto, ombra è tutto ciò che non vogliamo vedere, che prolifica nel buio della nostra coscienza. E se nel mondo tutto è segno e simbolo di qualcosa di più ampio, ecco che mi trovavo a fare l’esperienza visiva di questo doppio di cui percepivo la potenza. Era reale, concreta, palpitava. Aveva un cuore nero che batteva – bum bum – come quello di cui era l’emanazione. E un profilo identico. Stessi gesti, stesse sembianze. Si muoveva in modo sincrono e tuttavia allo stesso tempo sembrava autonoma, come un Golem sconcertante, improvviso e imprevisto.
Mi pareva addirittura che si fosse accorta del fatto che mi ero accorta di lei. Io, non la sua proprietaria. Lei non la guardava neanche, continuava a parlare con quella confidenza tutta femminile, fatta di riti intimi, di pelle, di sintonie lontane dal cameratismo maschile.
Sono rimasta impressionata, quella sera. Più tardi, da sola, mi sono resa conto della concretezza dell’ombra. Ci segue sempre, come una vecchia abitudine. Ostacola la nostra luce ma allo stesso tempo la definisce, ne diventa il controcanto necessario e pregnante. Non c’è luce senza ombra, qui sulla terra. Maggiore è la luce, maggiore è l’ombra. Forse è per questo che – si racconta – i maestri spirituali e i santi sono circondati da schiere di demoni. Certo è che ombra diventa, in termini psichici, tutto ciò che non vogliamo vedere. Ed è tanto, di solito.
Finisce nei sotterranei della nostra psiche, alimenta i nostri fantasmi, incenerisce le nostre speranze, proietta cadaveri viventi sul nostro cammino.
Ma è anche carburante, fuoco, motore. “Se i miei demoni se ne andranno, temo che anche i miei angeli mi lasceranno”, scriveva Rainer Maria Rilke.
Va usata, non subìta. Dobbiamo sapere che c’è, e discendere “negli inferi” per fare la sua conoscenza. Esattamente come fa Persefone quando viene rapita da Ade. I miti da sempre ci raccontano la storia dell’ombra e della sua funzione. Utile per la nostra conoscenza, diventa un inciampo solo quando non la guardiamo.
L’esperienza di quella sera è stata molto particolare. Quell’ombra cucita addosso ma autonoma (l’ombra di Peter Pan fugge addirittura da lui) mi parlava un linguaggio privo di parole.

Senza colori né sonorità, era viva, vivissima. Pareva quasi staccarsi dal muro. Sapeva di esistere a prescindere dalle nostre intenzioni, dagli sguardi che le avremmo elargito, dall’attenzione consentita. Era lì, semplicemente. E stava raccontando qualcosa.

 

Io non guido spesso la macchina. Anzi, non lo faccio mai. Preferisco, a Roma, il motorino. Certo, un po’ adolescenziale, un po’ centauro urbano, ma tanto, tanto comodo.
Quando d’estate vivo nelle Marche, invece, uso la bicicletta, cioè il motorino al quale è stato sottratto il soffio “vitale” del carburante a favore delll’energia muscolare. E tuttavia a volte mi capita di usare l’auto di mia madre, deliziosa e soprattutto facile da guidare: una Citroen automatica, con tanto di tettuccio decappottabile (non ricordo il nome del modello, per me le auto possiedono una cifra segreta, sono sconosciute quanto il più remoto dei sogni).
Bene, con questa Citroen decido di andare sulla riviera del Conero. Chi conosce le Marche sa che si tratta di un posto speciale, con la montagna che cola a picco su un mare terso, trasparente, pieno di scogliere magnifiche e spiagge popolate da sassi bianchi. Ricorda la Sardegna, anche se è meno aspra, selvaggia. Qui la terra incontra il mare disegnando un’architettura perfetta di boschi, vallate, baie e promontori. Non ci andavo da moltissimi anni, dunque mi decido per l’avventura.
E mi trovo a fare i conti con stradine piene di tornanti, di salite immediate e altrettante immediate, impreviste discese. Ogni volta che arrivo a una rotatoria il tempo di scelta della direzione diventa interdentale, un pugno di secondi per giocare una destinazione altrimenti, dietro, le auto degli altri turisti ti strillano nei timpani facendone poltiglia.
E comincio a scocciarmi. Non sono pratica dell’auto, non la guido ogni giorno. E qui nessuno è calmo, nessuno è disposto al tempo marginale di una breve attesa, rapida come un respiro.
In più è difficile guidare con quest’andatura da serpente ubriaco che si sposta continuamente a destra e sinistra rasentando alcuni strapiombi che, sebbene protetti, sono sempre abissi sul vuoto. E io soffro di vertigini, perdio. Così, tra il caldo, le curve, le salite e le discese comincio a inquietarmi. Anche perché nei pressi di Portonovo parcheggiare la macchina diventa cimento da Olimpiadi. Tra pendenze e piccoli piazzali sul fianco del monte, le macchine si infilano una dietro l’altra a mo’ di sardina mentre i placidi parcheggiatori ti chiedono “solo” 5 euro per giocare al massacro sul bilico delle rocce che portano giù, verso il mare.
A un certo punto, in salita, circondata da una schiera di auto che mi fissano accaldate mentre cerco di infilare la mia in uno spazio lillipuziano ai margini di un piccolo strapiombo boscoso, mi viene una crisi di nervi. Mi sento in trappola, in trappola ai piedi di una montagna che sputa turisti come noccioline. Ma ci riesco, alla fine, a conquistarmi un bagnetto in una baia. E certo che l’acqua è meravigliosa, con i fondali che mostrano la sabbia modellata dall’acqua. Poi riparto, cercando di arrivare nel paesino di Sirolo. Ma di nuovo curve, dossi, tornanti, salite, discese…
Non so mai cosa mi trovo davanti, mi agito, mi innervosisco. E penso, in quel momento, a quanto la paura dell’ignoto sia una cosa concreta, vicina.
Percorrere strade diverse da quelle che solitamente battiamo significa aprirci alle possibilità di incontri sconosciuti, profumati di inedito. Ma possiamo incontrare mostri o madonne, in quei tragitti. E ne abbiamo paura. Quando la nostra guida è consolidata, quando sappiamo esattamente fra quanto semafori dovremo infilare la destra per arrivare alla meta, ecco che allora siamo tranquilli, coraggiosi, tesi a invocare lo sconosciuto. Ma quando arriva sul serio, lo sconosciuto, ci viene il panico. Insomma, questa metafora stradale mi ha aiutato a capire come, di fatto, siamo legati alle nostre abitudini, a ciò che ci aspettiamo di trovare, a ciò di cui conosciamo confini, odori e sapori. In certi momenti mi sentivo davvero a disagio seguendo quella rotta nuova, difficoltosa, a bordo di un mezzo diverso da quello che uso solitamente.
Molto più facile fare le vecchie vie. Per questo la mente, quando sbagliamo un tragitto la prima volta, solitamente lo sbaglia per sempre: non è mica scema, lei. Ama le cose comode, prevedibili, per questo indossa le sue belle pantofole collaudate. Cambiare quell’”errore” è difficilissimo, lei tende comunque a girare, mettiamo, a sinistra anche se ormai sappiamo che è necessario proseguire invece dritti. La prima volta è quella che determina ogni percorso futuro, per lei, su quel tracciato che ormai “legge” in un certo modo.
Spesso annunciamo di voler cambiare, di voler sfidare l’ignoto (sentimentale, professionale, geografico, spirituale…). In realtà pochi di noi ci riescono. Abbiamo paura. I sentieri diversi dai nostri ci incutono timore, sono un po’ come i viaggi nelle grotte dell’inconscio, dove si muove, nell’ombra, tutto ciò che non conosciamo. Vorremmo essere capitani coraggiosi, come Ulisse, e ci troviamo a battere i denti per la paura, come un coniglietto braccato dai cani.
Ma non importa. Ciò che conta è prenderne atto. Conoscere l’estensione e la profondità di quel mare che separa il “dire” dal “fare”.
L’ignoto ci trasforma in cacasotto. Bene, si parte da qua. Poi, piano piano, possiamo iniziare timide avventure, mescolando stupore e spavento.
La mia piccola gita impervia mi è stata utilissima per toccare i miei limiti, per provare il tremore dell’agnello che batte sotto il petto di leonessa che avanza spigliata nei traguardi consolidati.
Cambiando la guida, la prospettiva e il percorso, ci si misura – anche filosoficamente – con parti profonde, poco frequentate.
Avventurarsi con mezzi sconosciuti (l’auto lo è, per me) in terre difficili è un’avventura. Una piccola sfida che prelude però a conquiste diverse, tutte misurate dall’ansia di “non sapere”.
E la mente, lenta-mente, si adegua. Si fa più audace, anche se controvoglia. Perché poi, durante il percorso, può capitarle di mettersi in un cantuccio e ascoltare lo stupore di un “Oooooh!” nell’attimo in cui l’ignoto smette di farci paura e si fa accoglienza, carezza, calore.
Ogni cosa remota, allora, si fa più confidente.

Ci racconta di piccoli salti nel vuoto, spazi aperti fra le chiusure delle nostre abitudini.

 

Quest’estate ho finalmente messo la distanza necessaria tra me e il bellissimo Jules e Jim di Truffaut per permettermi di leggere il libro di Roché, da cui il film è tratto.
Quindici anni. Ci sono voluti quindici anni per smorzare la memoria di quelle scene meravigliose, con una Jeanne Moreau che domina tutto il film, e potermi dunque dedicare al libro senza subire l’influenza dell’opera cinematografica.
Purtroppo libri e film non vanno sempre d’accordo: se si vede un film, la lettura del libro ne risulterà condizionata, compromessa dalle definizione delle scene, dal volto dei personaggi che si impone su quello che avrebbe scelto la nostra immaginazione. Il ritmo di un film non corrisponde al tempo letterario del libro: si genera solitamente una delusione. Se si è letto il libro, vedere il film solitamente comporta insoddisfazione perché “inscatola” una visione: un libro ha spazi aperti, orizzonti meno segnati dalla linea di confine che separa la finzione dall’immaginazione; se invece prima abbiamo visto il film, la nostra lettura sarà comunque obbligata a un confronto in cui domina la pellicola che pretende di orientare e governare il nostro percorso immaginativo-mentale davanti a trama e parole.
Potendo scegliere, sempre meglio leggere prima un libro e solo in seconda battuta avvicinarsi alla trasposizione cinematografica. Saremo meno delusi. Un film ha sempre un potenziale più limitato, è forzato dal perimetro di scene già predisposte, con contorni e ritmi precisi che nulla lasciano alla magia dell’immaginazione: i volti dei protagonisti sono quelli scelti dal regista, non sono i volti della nostra visione, non sono i personaggi così come li immaginiamo, come li percepiamo noi. Quindi traslochiamo a casa del regista, ci mettiamo nelle sue mani, anzi nei suoi occhi.
Spesso questo trasloco ci costa caro. Ci costa l’insoddisfazione.
Pochi registi hanno saputo infondere nella loro opera filmica l’anima dell’opera letteraria. Un libro è faccenda strana, oggetto magico che vive in un tempo senza tempo. Ci è riuscito Luchino Visconti nel suo Gattopardo, che ha sposato le atmosfere della penna di Tommasi di Lampedusa senza usare violenza ai personaggi, senza piegarli al proprio Ego. Loro sono così, così come li percepivamo durante la nostra lettura, così come li aveva sentiti e vissuti il loro autore. Sono stati vestiti, hanno ricevuto -. come tramite l’insufflazione di un dio – occhi, pelle e capelli, hanno respirato e parlato, il loro cuore ha cominciato a battere per raccontare di nuovo la storia di una Sicilia che cambia per non cambiare.
In un film i protagonisti non vivono più in una dimensione a-spaziale e a-temporale nascosta nel bianco e nero bidimensionale di un libro, da cui si staccano man mano che il lettore poggia gli occhi su quelle parole che li fanno danzare in alto, precipitandoli in vortici sopra le pagine, sopra le nostre teste, nei territori sconfinati e impalpabili dell’immaginazione che li rende viventi, autentici, irripetibili per ogni lettore; in un film i protagonisti si muovono come noi nel mondo delle tre dimensioni, malgrado la bidimensionalità dello schermo ne livelli apparentemente le prospettive: di fatto li vediamo come noi, sono uomini e donne che si muovono in un mondo già prefigurato, esistente, reale. Discorsi diretti e descrizioni letterarie si trasformano in scene di vita, scelgono il ritmo del tempo orizzontale mentre il libro conserva alcuni arcani momenti di quel tempo circolare riservato agli dèi, a un altrove non terreno.
Quindi sono sottoposti a una trasformazione che a volte li infeltrisce, come accade a un maglione lavato in acqua troppo bollente.
Non è successo al film di Visconti come non è accaduto ad altre opere. Penso a Romeo e Giulietta di Zeffirelli, Excalibur (qui potete vedere un trailer>>)  di Boorman o al recente Il signore degli anelli.
Le storie, gli ambienti, i personaggi e il loro respiro sono in questi casi molto fedeli al loro doppio letterario, vibrano della stessa sostanza.
Ma si tratta di un’alchimia difficilissima.
E non è detto che il semplice rispetto di un libro finisca per determinare la sua felice trasposizione nel film. Accade ad esempio che in Sostiene Pereira il regista, Roberto Faenza, sceglie una traccia pedissequa senza tener presente la distanza enorme tra il ritmo letterario dell’opera di Pessoa che avanza lentamente, per sensazioni interiori più che per accadimenti, e il ritmo di un film che comunque chiede la presenza di eventi ( a meno che non si possegga il genio di un Bergman, fatto rarissimo). Ne risulta un insieme pedante, noioso, soggiogato al peso di un libro al quale, per troppa fedeltà, non riesce a rendere omaggio pur volendo, nelle intenzioni, non tradirne neppure un capello. E ci troviamo davanti a un passaggio cruciale: essere fedeli o infedeli? E’ un po’ come accade per la traduzione di un libro, sempre divisa da due scuole di pensiero: quelle che difendono la traduzione capillare, sempre rispettosa delle frasi originali, e quelle che privilegiano invece una rielaborazione in grado di traslocare le suggestioni e le intenzioni in una lingua che comunque, per sua matura, richiede a volte scelte lessicali, scelte di ritmi e di pause diverse.
La grammatica di un libro è la sua anima. Va trattata con attenzione e rispetto. Personalmente, faccio parte di coloro che pensano che qualche rielaborazione possa essere fatta, anzi sia necessaria, in modo da restituire nella nostra lingua la sensazione e l’intenzione (più che l’esatta sequenza di parole) dell’altra lingua, che conosce cifre diverse. Un esempio su tutti è il famosissimo incipit della Ricerca di Proust.
“Per molto tempo mi son coricato presto la sera”, recita la traduzione – bellissima – di Natalia Ginzburg, non a caso scrittrice.
Esiste anche un’altra traduzione: “Per molto tempo la sera sono andato a dormire presto”. Ora, quale suona migliore? Più convincente?
Quando sono gli scrittori a tradurre gli scrittori accade un fatto meraviglioso: entrano nel linguaggio, ne leggono l’anima e la traghettano in un’altra terra profumandola con gli stessi colori che però hanno le sfumature locali. Bisogna anche ragionare, poi, sul fatto etimologico che la traduzione, come la tradizione, rappresenta un tradimento (tradere, tradire). Ma un tradimento necessario a riconsegnare e far sopravvivere.
Ora, tornando al rapporto tra libri e film, già la scelta di una faccia per un personaggio, o l’accelerazione di un episodio del libro è già un “tradimento”, come un tradimento è di per sé stesso il passaggio da libro a film, vera trasmutazione, autentico passaggio in cui una natura cambia radicalmente.
Ma il regista in gamba conosce, come il buon traduttore, l’anima di ciò che sta trasformando, e quest’anima, nella sua essenza, non cambia né può cambiare.
Paradossalmente, il “tradimento” di un rispetto pedissequo come quello di Faenza, che ignora gli universi differenti di un libro e di un film con la pretesa di mantenere tutto uguale, senza intervento né rielaborazione filmica, è maggiore di quanto fa un regista come Truffaut che “sente” l’opera e la racconta – personalizzandola ma non violentandola – consapevole del tempo e del ritmo di una storia che procede per immagini viste e non lette.
Il modo migliore per rispettare un’opera nella sua trasposizione cinematografica è avere con lei confidenza, carpirne l’anima, penetrare la mente dell’autore e quella dei suoi personaggi. E anche così, comunque, sarà sempre stagliata, all’orizzonte, la possibilità della delusione per il lettore che si trova a dover vivere i “suoi” personaggi, le “sue” storie attraverso gli occhi di un altro. Ma se questo altro è stato vicino allo scrittore, ne è diventato amico intimo, quasi un confessore, allora ecco che la delusione sarà mitigata, favorita dall’apertura verso un’altra rappresentazione del libro, quella voluta non da noi ma da un altro lettore particolare, il regista, che come un demiurgo ha la capacità di muovere la ruota rendendo viventi le immagini proiettate nello spazio e nel tempo del film.
Sicuramente chi vede un film senza o prima di aver letto un libro lo apprezzerà maggiormente. Sarà più libero di muoversi, di esplorare, di godere di quella visione. Ma chi dopo aver letto un libro sancisce il successo del film, apprezzandolo, rende omaggio al regista che ha saputo entrare in comunione con lo scrittore, ne incorona il talento che ha saputo navigare tra rispetto e tradimento, traducendo la scrittura in un film che ne incarna l’essenza. E tuttavia, tuttavia come lettori siamo e saremo sempre condizionati dal libro che abbiamo letto e che abbiamo fatto vivere nelle stanze della nostra mente, una volta e per sempre.
Allo stesso modo, un film si imprime nella memoria impedendoci la libertà di inabissarci nel libro seguendo le inclinazioni della nostra immaginazione con il suo taglio personale, unico, irripetibile. Ecco perché ho dovuto mettere tanto tempo tra il Jules e Jim. Truffaut era troppo forte, troppo ingombrante dentro di me.
Ora, dopo tanti anni, le sue scene si sono attenuate, confuse, accavallate. E così ho potuto apprezzare la penna di Roché, quella stessa penna che anni fa incantò il regista francese ispirando uno dei film più belli della storia del cinema.
Non facile, per noi, dividerci fra libri e film. Due mondi incantevoli, magici, dotati di arcane corrispondenze ma anche di differenze radicali.
I matrimoni riescono, in questo caso, solo a patto di conoscere bene entrambi i territori.
Truffaut ce l’ha fatta. Ma era Truffaut.

 

Rebus di limiti illimitati, l’infanzia. Di confini malcerti, magnificati dalla piccola statura (proprio come le magiche parole, compilate a rilento nel libro delle fiabe). Era il dosso, vellutato da una linea di sole e inaccessibile ai passetti minuti, oltre i quali doveva stendersi il prato incomparabile, la radura di Brocelianda. Era il cancello sempre chiuso, il boschetto solo sfiorato, il viale senza termine. Era, durante la passeggiata al crepuscolo, la rovina di un castello vertiginoso e statico che girava tramutando con i tornanti della strada. Era la grotta, appunto, il muschio indovinato, l’acqua nascosta. Era la fin du parc.

(Cristina Campo, Gli imperdonabili).

Lettura travolgente, questa. Cristina Campo ti seduce, ti fa girare la testa con la sua tensione verso l’estremo dell’universo, ti copre di stelle cadenti che, come la polverina magica di Peter Pan, alleggeriscono il peso di ogni metallo. E all’improvviso ti ritrovi nei magici regni della fiaba e dello spirito, incantata dalla danza delle metafore che suonano i loro campanellini d’argento. Tintinna anche la testa, al loro suono si apre il varco della percezione profonda, quella che viaggia sopra e sotto ogni emozione, tappeto volante tessuto di ricami arcani.
La fiaba insegna. “Il derviscio separa con le due mani un fumo d’incenso e attraverso quell’apertura il prigioniero può uscire in un giardino”.
Ritrovare quei giardini in cui, liberi dalla nostra consueta prigionia, danziamo la danza del derviscio significa tornare nei meravigliosi, aurei regni infantili, quando ognuno di noi aveva la sua fiaba speciale, il suo archetipo particolare che sempre tornava a sussurrare al cuore.
“Racconta, nonna, Raccontami ancora quella storia”.
E così la donna anziana, la saggia che nelle mani e nella bocca teneva la misura del tempo senza tempo, misteriosa conservatrice dei segreti di ogni àugure, trasferiva le indicazioni verso i sentieri di conoscenza che un giorno, da adulti, avremmo cercato ancora.
Oggi purtroppo questa sapienza e questi segreti sono destinati al declino. L’antico cantastorie non trova più spazio nel regno della materia, della linea retta, della ragione priva di cuore.
L’esile filo di Arianna che ci collega alle stelle, e del quale la fiaba è un segno e un richiamo, resiste agli urti ma diventa fragile, evanescente, cadaverico, esposto a una luce lunare non più magica ma ingannevole, come mostra la carta dei Tarocchi.

Quando eravamo bambini davanti alle fiabe avevamo occhioni ardenti, e bocche dischiuse come un bocciolo a primavera. Avidi, ascoltavamo quelle letture così particolari in cui gli eroi si perdevano, compivano percorsi circolari incontrando travagli di ogni tipo per poi tornare a casa, una casa dalla quale l’anima non si era mai allontanata, inviando l’Io alla ricerca della sua origine.
Tempo meraviglioso, tempo di dame, di draghi, di eroi e cavalieri.
Il libro della Campo mi riporta, con una vertigine, a quell’alba dorata, mistero e origine di ogni fiaba.
La tristezza si inclina senza speranza, va giù, scivola verso il basso pensando ai bambini di oggi,esposti al rapimento di quei mondi fatati legati a un filo di Arianna sempre più occulto.
Senza il recupero di quello stupore non conosceremo mai il nostro regno interiore.
E mentre guardo mio nipote negli occhi penso che oggi gli parlerò ancora delle fate (lui le adora, ne sente il richiamo sottile e penetrante) e di come, in silenziosi boschi lontani, se l’uomo tace, il vento racconta.

Il suo sguardo mi guida con mano sicura verso i segreti della mia infanzia. Luoghi che ho solo dimenticato, come tutti. Ma che tuttavia, tuttavia stanno sempre lì, pazienti. Pronti a ricordarci i nostri stupori.