Questa terrass di 10 metri quadrati mi ha insegnato tanto.

Mi ha insegnato che anche un piccolo spazio può diventare un giardino segreto. Mi ha insegnato anche a scegliere: le piante non possono essere tante, come a Roma. E mi ha insegnato che quello che conta è’ un rifugio di piante, di gatti, di libri e tazze di tè’.

Guardare una pianta mi fa sorridere, mi restituisce il senso della bellezza di questo pianeta che abbiamo sfinito. Guardare un gatto mi insegna la pace e e il distacco, quello che fatico a trovare quando affondo nelle emozioni. Basta poco, a volte, per fare un bel viaggio. E capisco che il lusso, oggi, è’ l’armonia.

 

 

 

La bellezza del mondo ha due tagli, uno di gioia, l'altro d'angoscia, e taglia in due il cuore

Virginia Woolf

Riflettevo, questi giorni, su come la nostra vita sia ormai disperatamente  ”mediata”, filtrata: è tutto un medium, un mezzo che ci avvicina ma che paradossalmente ci separa  dalla realtà: televisioni, telefonini, radioline varie, I mac pod I pad I am? I am. Ne siamo sicuri? Nella ressa scribacchina e condivisoria di facebook,  non siamo più certi di esistere se non siamo in Rete: se stiamo vivendo qualcosa, pensiamo subito: “devo metterlo su facebook!” e quindi filmiamo, fotografiamo, postiamo…L’idea di catturare la realtà dell’esperienza  che stiamo vivendo alla fine ci distoglie dall’esperienza stessa. Terzani diceva che alcuni popoli tribali detestano essere fotografati perchè dicono che “la fotografia ruba l’anima”. E oggi è tutto un fotografare tutto, dai piedi alle salsicce cucinate per cena al cartello visto per strada fino al neo che abbiamo sulla pelle. Tutto diventa una sorta  turismo collettivo, quasi come fossimo replicanti dei giapponesi con la loro eterna passione per lo scatto imbecille, quello che non serve a nulla. E penso al poeta turco Hikmet, che diceva, in una poesia, a suo figlio Mehmet: “Non vivere su questa terra come fossi un turista”.  E poi si condivide, certo, e si contano i “mi piace” e i commenti e allora se ci sono, ecco, ecco, esistiamo, quasi come se ciò avvalorasse l’esperienza, come se servisse la certificazione di un facebook o di un twitter per confermare la vita. E mi chiedo, mi chiedo sul serio: stiamo davvero amplificando le nostre esperienze o le stiamo perdendo? Il presente,  quel meraviglioso “attimo fuggente” che non si ripeterà mai più, unico e irripetibile, vuole un contatto profondo, totalizzante, non vuole essere registrato, filmato, fotografato, schiaffato su youtube. Specie se questo comporta il mediare, appunto, il contatto tra noi e lui, servendoci  selvaggiamente di mezzi e tecnologie. Recentemente ero a Notre Dame, ed ero capitata lì nell’orario della funzione serale: non c’era bisogno di appartenere a nessuna religione specifica per sentire la magia di quelle architetture verticali in cui rimbalzava, con magici echi, la voce scortata dall’organo, che si diffondeva fra gli archi che univano la terra al cielo. E tutti i turisti, invece, a preoccuparsi solo di riprendere tutto con i telefonini, di invadere con i flash (peraltro vietati) trasformando il momento in un Circo tecnologico, un “pigia pigia” “scatta scatta” frenetico .  Ma cosa sarebbe rimasto al di là della memoria catturata? Catturata, appunto. Imprigionata in una rete di flash e di videocamere.

La smania di usare le tecnologie per confermare noi stessi al mondo rischia di renderci orfani di quello stesso mondo che pensiamo di “penetrare”.

Così, viviamo distraendoci continuamente perché ogni cosa diventa un mezzo  per mostrare a noi stessi e agli altri che ci siamo davvero. E no, invece non ci siamo. Non ci siamo per niente. I “momenti di essere” non sono, e non saranno mai, fotografati. Saranno semplicemente vissuti e resteranno nel cuore. Lì, in quel posto, non c’è nessun “Mi piace”, “Non mi piace”. Semplicemente, è.

Quando ero piccola, con il naso infilato nei libri, pensavo che la letteratura fosse il migliore dei mondi possibili. Ci sono cresciuta, fra i libri. I libri di mio nonno, della sua bella libreria che si chiamava “Sapere”. Una libreria d’altri tempi, in cui quando entravi non ti chiedevano di recitare lo spelling di Borges, e non ti guardavano con le facce da tonti se per caso chiedevi qualche consiglio. Lui, mio nonno, sempre curvo, sempre a leggere, sempre a studiare e consigliare, era il mio piccolo faro che accendeva un mondo che imparai presto, prestissimo, a conoscere.
Entravo nelle storie che leggevo, mi accucciavo in mezzo alle righe, facendomi spazio talvolta fra le vocali e le consonanti, appoggiata col fiato sospeso a quelle parole di carta che mi incantavano. La magia delle parole non si impara. La magia delle parole si ascolta. Vibra dentro di noi, percorre la pelle come un sussurro leggero, ci accarezza i capelli e gli occhi stanchi. Man mano sono diventata amica di tutti gli scrittori che ho letto, li ho frequentati con una confidenza costante, come una ripetuta, quotidiana, ora del tè con le amiche. Da grande, pensavo, voglio vivere in questi mondi profumati di storie.
A volte accade di realizzare quello che sogniamo da piccoli. Accade così, per ventura, per un gioco bizzarro della vita che ti getta, un giorno, in un posto, e in quel posto ritrovi un sapore che ti è familiare.
Ci ho lavorato, con quelle parole e quei libri che inseguivo da piccola. E tuttavia, tuttavia ero ancora infarcita di un romanticismo lievemente imbecille, col senno di poi. Un idealismo ingenuo, in cui editori e scrittori brillavano alla magnifica luce della Letteratura.
Non sempre, però, leggere tanti libri ci fa essere persone più meritevoli di altri. La cultura non significa, di per sé, allargamento della coscienza, perché l’Ego, in queste geografie, cresce a dismisura e alla fine trionfa.
E così mi sono resa conto che editori e scrittori non galoppavano sul bianco cavallo dell’Intelletto ma vomitavano ansie, pretese, ambizioni. E spocchia. Tanta spocchia.
C’erano (e ci sono ancora, qui a Roma) editori che magnificavano le librerie con le loro belle collane sui diritti civili, e nel frattempo tenevano in nero il loro ufficio stampa e facevano lavorare gratis un esercito di ragazzini, c’erano scrittori i cui confini terminavano nel perimetro neuronale che li definiva; c’erano persone che usavano il libro e le storie degli altri per non guardare sé stessi. E, soprattutto, c’era quell’amaro mare di spocchia. Sono stata fortunata, ho lavorato bene e guadagnato bene, ma intorno a me continuavo a vedere il massacro di editor e redattori costretti ai lavori forzati per un pugno di euro. In nome della cultura si lavora, e si guadagna, come in ogni altro mestiere. Invece, in Italia, è previsto un nobile sacrificio del portafoglio al servizio della Conoscenza. Un masochismo imperante che assolda nugoli di persone pronte a farsi straccione in nome del Libro. A me non è capitato, non lo avrei accettato, ma assistere, spesso e malvolentieri, allo sfracellarsi degli altrui sogni (parlo di amici e colleghi) è stato duro, a volte durissimo.
E ancora oggi mi domando per quale strano motivo, nella testa di molti, chi fa libri debba essere migliore di altri.
Non lo è. Ciò che ci rende migliori non è ciò che abbiamo letto, ma cosa, di quelle letture è rimasto.
Soprattutto, non è con la presunzione intellettuale che si cresce, si va avanti. La vita è strana però perché non sempre ciò che appare “fuori” corrisponde a ciò che appare “dentro” e capita che chi scende invece sale, e chi sale scende. Toh, com’è buffa la vita.
Dipende da ciò che stiamo guardando.
Di quel periodo, non molto lontano, ricordo le gioie ma anche i malumori dovuti alla pretesa, nell’ambiente, di essere continuamente i più belli, i più bravi, i più intelligenti “perché facciamo libri”.
No, fare libri non ci rende superiori a nessuno. E se te ne accorgi sei fortunato. Altrimenti, continui a girare con nasino all’insù senza guardare le ombre che ti trascini dietro.
Mi capita ancora di insegnare scrittura e redazione, o di fare qualche editing. Ma da quel mondo sono comunque uscita. Ho conservato (pochi) amici veri, persone umili, ironiche, che non hanno mai perso il senso e la misura del mondo intorno. Sì, il mondo intorno al libro, quello fatto di redattori sottopagati, di corsi fatti perché insegni agli altri un mestiere con cui tu stesso non riesci a vivere (e come li guardi in faccia, quei ragazzi?), di sette editoriali da cui non devi mai uscire pena la scomunica intellettuale. Di una cerchia chiusa che non vuole contaminarsi con le puzze degli altri, di quelli “che non fanno cultura”.
Loro, questi amici, questi colleghi, hanno saputo guardare oltre l’icona di ciò che facevano, e l’hanno tirata giù, l’hanno pestata e le hanno donato un senso più reale.
E hanno capito che c’era anche un altro mondo, là fuori, fuori dalle alchimie espressive, dalle dorate pagine delle storie più belle, dai messaggi profondi che si incidevano sulla carta stampata. C’era un mondo vero, un mondo vero fatto di sfruttamenti e incoerenze, piagato dall’arroganza e da un falso senso di superiorità.
E, come me, hanno sentito poi che il libro non è né l’origine né la fine della vita, di ogni vita, della mia, della tua, della nostra; ma è solo un mezzo. Un mezzo sublime, eccellente, profumato di cielo. Ma un mezzo.
Uno strumento. Perché la vita “vera” non è quella che leggiamo, è quella che viviamo. Vivere e agire, questo dimostra chi siamo.
E’ nella nostra carne, nei nostri errori, nei nostri atteggiamenti. Se ne frega se conosciamo a memoria il pensiero di Kant e le poesie della Dickinson, o le tecniche espressive di Proust.

Esiste una fisiognomica delle azioni, e non sbaglia mai. Ciò che leggiamo, invece, se non si traduce, se resta sospeso nella riga di un libro, non serve a nulla, proprio a nulla. E quante vite, in quel mondo, non coincidevano affatto con quei nasi all’insù e la beata (e autoproclamata) assunzione celeste.
Amo i libri, li amerò sempre. E sempre scriverò, e continuerà a essere anche un mestiere.
Ma quando ripenso alla ragazzina che ero, alla sua visione ideale di un mondo di carta migliore, penso che ho lasciato pezzi di me ma che, alla fine, sono più ricca.

Socrate: Io so di non sapere

Non sopporto più la gente che sa. Che sa tutto. Di ogni cosa. Dalla cosmetica alla politica, dall’arte all’entomologia, dal feng shui al Kazakistan.
Basta. Basta, per carità.
Oggi si parla di tutto, con tutti. Ovunque. Certo le nuove tecnologie non ci aiutano, con le chat gli sms gli ogm.
Tante parole, fatte di cosa in realtà? Per conoscere bene qualcosa, qualunque cosa, ci vuole tempo. Ci vuole l’esperienza che si fa sulla pelle, la rende consapevole, insieme alla testa, di qualcosa.
Parlare può essere un’esperienza vuota come uno stomaco dopo il pasto saltato.
ma noi insistiamo. A dire, ovunque.
Ma tutto questo “sapere” fa male. Perché non è sapere. Non è conoscere. E’ intuire vagamente qualcosa, sommersi da informazioni che incrostano i nostri cervelli.
E’ così bello, a volte, non sapere. Solo tacere. E ascoltare. E, magari, sentire davvero qualcosa.