C’è un punto in cui il mare Mediterraneo e l’Oceano Atlantico si incontrano, in cui uno scivola fra le braccia dell’altro.

E in questo luogo due terre si scrutano. La Spagna e l'Africa si bagnano nelle acque mosse dai venti e li riposano, private del peso delle frontiere. Liberate dalla gravita’, si guardano senza invidia, senza ostilità. Colonialisti e colonizzati. Due universi distanti che il mare avvicina trasportando contaminazioni che viaggiano sui sapori del cibo, sulla geometria delle architetture, sulla musica che dall’Andalusia allAfrica distende le note arabe sui suoni della terra africana.

 

Ed è’ magia. Non più mare, non più oceano. Non più Africa, non più Spagna. Cosa resta? Resta il mistero del luogo di mezzo. Lo stesso che abita gli spazi bianchi fra le parole.

Cercavo, sempre, di capire chi fossero i “disuguali”. Quelli che non si adattano, che non riescono mai, nella vita, a somigliare ad altre persone, a gruppi, a società intere. Rimangono sempre così, sospesi a metà, affacciati su qualcosa che riescono a capire, a penetrare, ad accogliere come un fuoco in una notte ghiacciata che però, a un certo punto, diventa fiammella sottile, con quel rosso guizzante  che diventa blu e poi diventa nulla, sfuma nella notte del tempo e dell’anima. E quando la fiamma scompare, se ne vanno anche loro. Se ne vanno perché sentono che appartengono a un altrove indefinito, non perimetrabile, sconosciuto alle misure di cui ci serviamo per contenere, contare, salvare l’ansia d’ignoto che ci attanaglia.

Loro, i “disuguali”, sono animati da un nomadismo che galoppa su geografie interiori, appoggiate solo casualmente su quelle esterne, di cui sono matrice e allo stesso tempo estensione.

Queste anime sparse, distanti fra loro, così distanti che sembra quasi che un dio crudele le abbia gettate a caso nella vita, sparpagliandole nelle latitudini più impossibili, assurde, fino alla curva convessa del mondo, si cercano senza trovarsi, inquiete, curiose, bruciate dalla conoscenza precoce che solleva il velo dei giorni innocenti fatti di stelle e di luna e mostra, nella luce spietata del  mezzogiorno, l’aspra verità delle cose.

Sono le persone che sanno, quelle che non si nascondono nelle certezze facili, etichettate, servite a dovere come una quotidiana pietanza. Come tutti i ribelli, conoscono la loro sorte, che non ha il soave profumo del lieto fine, di quella speranza che rende mobili le acque stagnanti dei dolori accennando, mentre si  piange e si soffre, a una modifica in corso, non ancora visibile eppure possibile. E allora la lacrima tace mentre si guarda a un futuro diverso. Invece  Non ci sono possibilità, per loro, al di fuori dell’unica sicurezza: il movimento continuo, dentro e fuori, in un esilio fisiologico, che tesse le trame di sangue e di carne, che orna i capelli, che respira lo stesso respiro.

E nella solitudine ritrovano moltitudini di essenze, giochi e leggerezze senza nessuna appartenenza, profondità invitanti in cui tuffarsi dondolandosi nelle anse del tempo.

Mentre gli altri si affannano, saltando e scendendo giù rapidissimi, agilissimi, come un capretto in cima a una roccia, loro guardano, e a volte rincorrono morsi di vita interrogando la margherita dei giorni sulla loro sorte: felice o infelice, arrivato o partito, prendere o lasciare…

Perché la vita, in fondo, è sempre un bilico tra il lasciare e il prendere. E se prendi troppo ti ingolfi, diventi ridicolo come certe costruzioni barocche, come i lussi di pochi imbecilli che credono che il mondo sia grande quanto il diamante che portano al dito, mentre un’altra massa di imbecilli invidia loro la circonferenza di quel diamante in cui si pensa nasca e finisca tutto. Ma se lasci, se lasci sul serio, ti accorgi che non avere più nulla ti rende invulnerabile e allo stesso così fragile, così esposto alle stagioni che passando lasciano segni più aspri, ragnatele sulla faccia ma anche nell’anima. Lasciare è difficile.

Così anche loro, i “disuguali”, a volte preferiscono prendere, pur sapendo che un momentaneo, illusorio conforto è debole come il petalo della margherita che per quella risposta hanno staccato.

Poi ricominciano, ricominciano con i loro eterni dubbi, le mai sopite domande, e partono. Partono ancora, in cerca di un nessun dove.

L’amicizia è una cosa seria. Non ama essere messa accanto ai nostri vestiti nell’armadio, per essere tirata fuori quando serve, all’occorrenza. Non le piacciono le situazioni di circostanza, come i complimenti o le condoglianze dovute ma non sentite. Ama mettersi comoda, in pantofole o anche senza, che è pure meglio.
Niente convenevoli, belletti, lusinghe. Quelli vanno bene per il bridge delle anziane signore perbene.
Non è perbene, l’amicizia. Smonta un’idea per farti vedere la realtà che ti stai negando, ti acciuffa per i capelli con violenza prima che tu ti butti nel burrone che tu pensi candito, o magari ti segue passo passo, non interviene ma di sicuro non tace neanche. Può essere perfino  aggressiva. Di certo è scomoda.
E poi è  spettinata, non si fa la messa in piega.
Non guarda neanche l’ora: quando chi ama ha bisogno, ha bisogno. Si alza e corre.
Non trattarla mai come una stupida damina di compagnia: vuol dire che non hai capito niente.
Se vuoi compagnia, prenditi un cane. Oppure iscriviti a un gruppo sociale su Facebook.
Uscire insieme è facile. Meno facile, invece, stare a casa, malgrado ogni impegno, e rimanere due ore al telefono con la voce come un phon, ad alitare un vento  caldo sulle lacrime dell’amico che sta soffrendo.
Un po’ come hanno fatto il bue e l’asinello con Gesù quando era piccino.
In fondo sì, l’amicizia è un termosifone, anche se sa gelarti con la sua franchezza.
Il tradimento si perdona a una passione, ma non a un’amicizia.
L’etica, l’onestà, la libertà sono virtù che lei apprezza molto. Anche la libertà di non esserci, quando è necessario. Ma non sopporta l’egoismo. Come non ama sentirsi usata.
Lei è fatta per amare ed essere amata. Non viene dopo mariti, mogli e famiglie. Gli sta accanto, e a volte li guarda passare nella corrente del tempo. Lei resta.
Sempre che non decida, delusa,  di fuggire via, e buttare anche te in quella corrente.

russiaCerte città da subito ti si intrufolano nel cuore, diventano il tuo stesso cuore. Ti battono nel petto, tum tum tum, come un tamburo familiare fatto della tua stessa carne. Tum tum tum. Della tua stessa anima. Tum tum tum. San Pietroburgo, era ciò che cercavo. Finalmente la mia anima, li, era in pace., distesa tra gli azzurri e i bianchi, allungata sulla neve, come un pensiero soffice che si addormenta su un sogno. A San Pietroburgo, si. Me lo aveva detto, un amico, che avevo l’anima russa. Ma quante stupidaggini avevo sentito, quanti pregiudizi. E pensavo che fra il comunismo e il consumismo i miei amori non fossero sopravvissuti. Pensavo che la letteratura dei grandi romanzieri ottocenteschi fosse finita fra le memorie di un sottosuolo dimenticato, come quello raccontati da Dostoesvkij, così come la musica fatta di esaltazioni, drammi, passioni estreme. E invece, invece ho ritrovato tutte le stagioni dei miei antichi amori.

Erano lì, fra le facce della gente, nel battito d’ ala di uccelli in volo accanto a una vecchia babuschka che nel viale gelato offriva la mano al cielo, coi suoi grani di pane insieme a qualche chicco di solitudine. Nelle guglie delle chiese, negli angoli delle strade meno battute, accanto ai canali di acqua immobile, congelata come un dolore vecchio che non fa piu’ male. Nelle facce delle donne anziane, con i loro occhi di perla e i foulard in testa, che camminano sobrie, fiere ma allo stesso tempo delicate, misteriose come misteriosa e’ questa magica terra. Qui, a nord, nei bagliori di un congedo invernale, la mia anima si e’ orientata, ha trovato la sua stella polare. Nel silenzio luminoso, nella solitudine piu’ curativa che c’e. E di fatto il nord, il ero nord, e’ silenzio e solitudine. Ma e’ una solitudine bella, un invito a passeggiare nell’anima mentre il vento che soffia si porta via tutto e lascia spazio a un vuoto che riempie. Si’, mi sono sentita piena di nulla. Meravigliosamente piena di nulla. Libera come le nuvole in corsa nel cielo. Russia. Un nome che evoca suggestioni lontane ma anche paure. Il suo passato tragico ma sempre orgoglioso, dignitoso, le sue ferite che a colte somigliano alle miei, i suoi tragici drammi, la forza di resurrezione dopo ogni sbaglio, ogni cambiamento veloce, pagato con il prezzo di brandelli di carne strappata via. Sembra quasi, a volte, che certi popoli proprio davanti alle assenze coltivino, in segreto, le loro presenze. E l’anima russa c’è. Esiste al di la’ delle nuove frenesie capitaliste, delle passioni per i marchi e il lusso sfrenato. E penso a come ci facciamo certe idee plasmandole con gli stupidi racconti di altri. Di questa gente, di questa terra, ho sentito di tutto. E invece ecco che mi ha sorpreso con la ritrovata solidarietà di noi anime perse, sempre in bilico su un mondo rumoroso che vuole costringerci a nascondere, come un oltraggio, come un segno scarlatto, la nostra poesia. I silenzi dell’anima, al freddo, diventano piu’ ampi, sono giardini in cui sbocciano primavere diverse. Come sembrava lontana e caciarona l’Italia, queste sere, mentre dalla finestra del mio hotel sul canale sentivo passare, con una cadenza quasi costante, perfetta, gli zoccoli dei cavalli. La prima volta ho pensato a un’allucinazione, a una fantasia delle orecchie, alla memoria di un dottor Zivago sempre presente nella collezione degli amori miei. Invece erano li, cavalli e cavalieri. Gente qualunque che, di notte, trottava lungo il canale, nel silenzio interrotto solo dagli zoccoli in movimento. Ho pensato alla scena surreale, meravigliosa, in cui Johnny Depp percorre una Parigi notturna col suo cavallo bianco nel film the man Who cryed, troppo malinconico, forse, per essere amato da una massa che vuole sempre speranza e lieto fine, anche nei film. Ora che ci penso, anche lei, la protagonista, e’ una ebrea russa che, nella Parigi minacciata dai nazisti, incrocia la sua diversità con quella di lui, lo zingaro. Entrambi diversi, diversi da tutti. Un film per anime poetiche. Delicatissimo. Un film che mi ha fatto piangere. Come ho pianto nella camera studio di Dostoevskij, l’altro giorno, nella sua casa museo. Fra quelle mura sentivo quasi il so fantasma, la sua presenza forte, eterna, fuori da ogni spazio e ogni tempo, circolare come l’eternità che ci aspetta mentre ci lasciamo ingannare dalla linea retta. La sua scrivania, i suoi libri, il letto in cui, il giorno della sua morte, ha saputo rendere l’anima a quel dio comunque sentito, quasi sfidato nella sua ricognizione letteraria nelle terre dei rimorsi e delle colpe. Per lui indagare l’uomo bastava a dare un senso alla vita. Aveva ragione, perché nel mistero di ognuno si trova il mistero di tutto.

E diceva una cosa, diceva che non basta guardare la faccia di un uomo, ne’ ascoltarne le parole, per sentire la sua essenza. Bisogna guardare il suo sorriso. In quel luogo, si nasconde ogni arcano. Lo faccio sempre, io. Osservo i sorrisi che a volte sono come tagli sulla faccia, che quasi la costringono a disegna quello spazio inutile in cui non ira nessun cuore, nessuna gioia, nessuna apertura reale. E ci sono sorrisi che divampano dentro come un fuoco, e accendono e scaldano e cuociono ogni falsità, come una fiamma purificatrice. Li ho guardati, i sorrisi del russi. Sono sorrisi belli. Leali. Arcani. E umili. Il cuore non ha sempre bisogno di emozioni sguaiate, specie il cuore collegato direttamente con l’anima. A San Pietroburgo, nelle sue atmosfere fiabesche sono uscita fuori dal mio tempo che corre, e ho incontrato la casa dell’anima. E sembrerà pazzo, sembrerà strano, ma io qui ci ho già vissuto, in un tempo antico, come antico e’ il cuore dell’anima russa. Come antica e’ l’anima mia. La luce bianca, qui, veglia su tutto, questa luce particolare che mescola tutti gli azzurri del mondo e li rende quasi invisibili. Un biancore quasi irreale, che domina sui grigi del cielo. E quando il sole, raro, brilla accende tutti i colori mantenendo la sua luce particolare, come se Caravaggio avesse dipinto questo Nord con la sua tavolozza. Sono appena partita e già voglio tornare.

 

“Forza gnocca”. Grazie, Berlusconi, a nome di tutte le donne italiane. E ti ringrazio anche per essere stato  il “Muso” ispiratore, mio e tuo malgrado, della nascita della Stanza di Virginia dopo l’ennesimo annus horribilis zeppo di Bunga Bunga che mi hai fatto passare. Sai, in Italia non ci sono solo gnocchette e tortelline, ci sono anche un sacco di donne che pensano, raccontano, cercano e – credimi – osano perfino sognare ancora. Difficile, nel Paese che hai fatto a brandelli. Per noi donne, poi, è stato particolarmente faticoso sopportare ogni giorno il tuo maschilismo sempre più gretto (scopare le donne non vuol dire amare le donne, te lo ricordo bene), il tuo fare da vitellone sempre a caccia di sederi e tette da comprare, le tue barzellettine da baretto di quartiere. Sì, certo, mi fai anche pena, costretto a un sogno prezzolato che ti costa case, denaro e… avvocati. Perché le donne le devi pagare. Mi fanno pena anche loro, un po’. E mi fanno rabbia, tanta rabbia, per l’immagine del femminile che diffondono e mantengono viva. Ma, del resto, fanno il mestiere più antico del mondo. E tuttavia, tuttavia queste moderne cortigiane sono ancora più squallide, perché in questo mondo sempre più futile  anche i motivi della “prostituzione” (chiamiamola, per favore, con il suo nome) sono spesso sempre più futili. Ci si vende per andare in tv, per fare una particina interdentale in uno di quei  filmetti stupidi che rovinano il nostro bel cinema, ci si immola a un vecchio fatiscente come te per un gioiello di Chanel e per una villa. Ma, tu, caro Presidente, hai contribuito, in questi pietosi diciassette anni, a svilirci perchè se fra le lenzuola private puoi fare come ti pare, come Premier sei chiamato a rappresentarci attraverso un’immagine rispettabile. Non mi dilungo, qui, a spiegaredi nuovo  le ragioni che altrove i miei colleghi giornalisti hanno spiegato così bene. Ti dico solo che, come donna, mi sento profondamente offesa.
Non siamo tutte come le tue Ruby. Te lo ripeto, in Italia ci sono donne che sanno cosa siano la dignità, il rispetto, il coraggio. Donne che danno ancora peso e valore a termini scippati del loro significato. Donne che tirano avanti fra casa e lavoro, che allevano figli mentre lavorano tutti i santi, santissimi giorni. Donne che leggono, scrivono, vanno al cinema (escludi, per piacere, i fratelli Vanzina, e dammi retta: guardano altro). Che cercano di dare senso e significato ai sentimenti e alle relazioni. Donne che si impegnano. Che cercano una politica più seria, meno arraffona, schifosa e puerile. Donne a cui la lobotomia del denaro facile non interessa se questo significa vendere il loro corpo al “Potere” (che si sarà mai di potente, poi, nel tuo sederino flaccido e nella tua pancetta scaduta? non è triste, pensare che il Potere sia soltanto Denaro?). Sono meno visibili, forse. Ma non per questo meno numerose e  importanti delle tue Lolitine. Non finiranno a fare le letterine, e neanche le veline. Non avranno una villa all’Olgiata e neppure una pelliccia di Fendi. Ma saranno sempre fiere, orgogliose. Potranno andare a letto solo con chi amano, pensa che bello. E stare bene anche da sole. Senza chiedere a niente e a nessuno. Queste donne, caro Presidente, sono un esercito silenzioso che invece di urlare e apparire cerca di fare, e cerca ogni giorno di essere una prova vivente del fatto che si può essere diverse da quelle macchiette femminili che da anni un certo carnaio mass mediatico ci propina ventiquattro ore su ventiquattro.
Donne umiliate ogni giorno dagli omuncoli come te, che tra una barzelletta e una palpatina si sentono “maschi”. E che invece sono solo ridicoli. Terribilmente ridicoli.