Mi sono svegliata nella casa di mia sorella, come tutte le mattine, qui in vacanza. Ci abito solo io, per un mese, insieme ai miei gatti.

Quando mi sono diretta verso la cucina, guardando distrattamente il pavimento l’ho vista.

 

Era lì. Un piccolo geco, trofeo delle battute di caccia notturne di Anakin e Leila. Se me stava rovesciato per terra, pancia all’aria, con il corpo tranciato a metà, con la parte posteriore già irrigidita nella morte. Ma respirava ancora. L’ho girato, pietosamente. Lui ha tentato una fuga impossibile, i suoi occhietti spalancati e terrorizzati mi hanno fissato mentre agitava invano le zampette anteriori. Piccola, innocente creatura destinata a una morte che arrivava tardi, troppo tardi. Non so infatti da quante ore fosse lì. Forse da tutta la notte. L’ho sollevato delicatamente e poggiato su un pezzo di Scottex, gli ho accarezzato la testolina mentre i goccioloni mi scendevano sulle guance. Sì, lo so: è la natura. Sì, lo so: fa parte della vita. Sì, lo so: si vive e si muore. So tutto. Lo so con la testa. Ma con le emozioni non sono mai stata brava a reggere la sofferenza delle creature di questo mondo. E non sono mai stata brava ad accettare le leggi della natura. Forse le comprendo, ma non le accetto. C’è tanta ombra, e tanto dolore. E in più ogni volta che vedo un esserino predato non riesco a contenere la diga emotiva: si apre, e mi allaga.

Capita quando guardo un documentario, quando incrocio animali sofferenti o abbandonati, quando leggo di abusi e maltrattamenti. Non importa se sono animali. Sono creature. Sono anima-li, appunto. Sono importanti, anche loro.

La mia reazione diventa esplosiva, a volte, se devo assistere all’agonia. Come stamattina, come quando mi sono trovata davanti il geco a metà. Quella metà voleva vivere, a tutti i costi. Mi sorprendo spesso della forza della vita malgrado la morte, sembra quasi che tenti un’ultima sfida. Contro ogni ragione, ogni evidenza.

Ho preso il geco e l’ho appoggiato su una pianta, chiudendo la porta finestra perché i gatti lo lasciassero morire in pace. E ho aspettato, trepidante. Ogni tanto tornavo da lui ma stava lì, vivo. Si muoveva ancora. Finalmente, dopo un paio d’ore, era morto. Anche la parte superiore si era irrigidita, fissa per sempre in quella posizione strana, in quella rigidità che comincia sempre all’estremità di un ultimo sussulto, quel sussulto che fa fare al corpo un movimento radicale, quasi come venisse davvero artigliato dalla morte, alla fine.

Ero triste. Non ho mai accettato il gioco dei gatti, anche se non posso far nulla. Il fatto che nessuna bestiolina diventi poi cibo ma rimanga solo divertimento mi fa male. Come, certo, mi fanno male mille altre cose. Ma stamattina era questo che mi dispiaceva. C’era quel geco sulla mia strada. Un piccolo, insignificante geco che però mi faceva riflettere sulla mia incapacità di penetrare a fondo il mistero della natura, e dei suoi cicli. La mia sensibilità si ribella per quanto la logica ne afferri bene la necessità.

 

Tristissima, sono uscita di casa e sotto il sole cocente mi sono imbattuta nel mio vecchio professore di francese. Un uomo che adoro, che ho sempre adorato. Uno dei pochi insegnanti veri che abbia mai incontrato. Da vent’anni continuiamo a volerci bene, a stimarci. Non più insegnante lui, non più allieva io. Solo un uomo e una donna, finalmente.

Ci siamo raccontati. Come facciamo sempre. Parlando di piante e di campagne, ha deciso di invitarmi nel suo giardinetto per ammirare la bouganville di venti metri che copre tre piani della palazzina. Ne è orgoglioso come di una figlia. E in effetti era un tripudio, una festa per gli occhi, una magica  sosta di viola e di verde nel percorso sempre troppo uguale delle nostre case. Abbiamo apprezzato insieme i plumbago, con le loro nuvolette azzurre rubate al cielo, e il gelsomino, e tutte le piante e i fiori che lui coltiva in disordine (grazie a Dio) creando una macchia selvaggia dove la natura ritrova se stessa. Guardavamo le nuove gemme della bouganville, e io sentivo, forte, la vita. Mi ha perfino regalato una piccola pianta dai fiori blu, bellissimi, penetranti, due laghi di notte. Così sono tornata a casa con un vaso e una pianta. E un piccolo sorriso disegnato in faccia.

Riflettevo, più tardi, su questa mattina intensa, imprevista. Prima avevo assistito all’agonia di una lucertola, poi all’alchimia di una pianta meravigliosa che vuole toccare il cielo per ornarlo di viola.

Morte. Vita.

Questa è l’esistenza. A volte terribile, difficile da comprendere nei meccanismi di luci e di ombre, di gioia e di sofferenza. In ogni istante, qualcosa muore e qualcosa vive. Provo ad accettare.

Se solo riuscissi a osservare questa danza senza farmi travolgere…

Ma è la mia natura. E ho deciso di accettare anche questa.