Nella sua marcia trionfale verso il capitalismo la Cina spezza un altro tabù, e copia dall’America la reality-tv studiata per educare imprenditori e manager alla dura legge della giungla-mercato: "Homo homini lupus".

La censura cinese, sempre rigida contro ogni dissenso politico, ha dato il via libera a uno show copiato da The Apprentice (l’apprendista): è il crudele concorso in diretta ideato e diretto negli Stati Uniti dal miliardario Donadl Trump, il più celebre e controverso palazzinaro di New York.

Si chiama Ying Zhai Zhonnguo, ovvero "Vincere in Cina", il principio è lo stesso del fortunato programma americano.

Una lunga serie di eliminatorie per selezionare i candidati che hanno più stoffa nel business, più vocazione per far soldi nell’economia reale, più talento nella concorrenza. Guai ai deboli, guai agli incerti, per vincere bisogna avere grinta, aggressività, determinazione, spirito d’iniziativa, voglia d’innovare, gusto per la competizione. E naturalmente avidità di guadagno.

(Federico Rampini, La Repubblica del 24 marzo 2007)

 

Insomma, con buona pace di Mao, ecco che i cinesi,  tra inciampi e contraddizioni, proseguono la marcia  verso il capitalismo. Addio libretti rossi, comunismi, omologazioni.

Se una cosa Mao era riuscito a fare, era stata quella di inculcare una testardaggine nel lavoro a oltranza, nella resistenza a quella fatica del lavoro che sgretola invece molti connazionali (specie nel pubblico impiego, diciamola tutta).

Così, mentre i cinesini nostrani scalzano man mano l’industria e l’artigianato italiano sopravvivendo in scantinati a schiera, multifamiglia, in cui giorno e notte si lavora e si produce (e la si mette nel deretano al marketing internazionale), quelli rimasti in patria si danno da fare per occidentalizzare il loro Oriente.

Vincere in Cina è prodotto dalla quarantenne Wang Lifen (una donna, toh), ex giornalista televisiva, è stato un successone.

Il format diventa perfino più cinico rispetto a quello americano: il vincitore non guadagna un’assunzione nel gotha dell’imprenditoria, ma riceve un milione di euro da investire nel suo business plan. Come a dire: introduciamo il radicalismo cinese e, se Occidente deve essere, Occidente sia, ma fino in fondo. Il rischio di impresa non chiede assunzioni, ma esposizioni. Ecco così che il neomanager cinese deve misurarsi da subito con la giungla dei mercati a mandorla. Troppo comoda, l’assunzione.

Il reality di Trump sbanca dunque in Cina, che si affretta a copiare il format televisivo (e come sempre, in questo, i cinesi sono maestri) importando, oltre agli input per i liberi mercati, le tecnologie, la Coca Cola, anche la feccia dei nostri sistemi.

Già il reality di per sé rappresenta un pezzo rigurgitante di televisione, come sappiamo bene con i nostri Grandi Fratelli, Le Fattorie, Le isole di Famosi, Gli Amici e i Circhi vari. E tuttavia la De Filippi e la Barbara D’Urso al confronto sembrano le cuginette di Biancaneve.

Sì, perché il cinico slogan di The Apprentice, felicemente traslocato in Cina, è: "Non si fanno prigionieri".

Eh no, calma. Un libero mercato fondato sulla competizione non comporta automaticamente la spietatezza verso i più deboli. La meritocrazia si basa anche su un’etica di comportamento in cui non necessariamente si schiaccia come una pulce il vicino.

Comunque, tornando in Cina, è buffo vedere questo paese così combattutto tra passato e presente, così condito da ansie occidentali e da resistenze "cromosomiche" che la trasformano in un crocevia fra omologazioni comuniste, tradizioni, corsa selvaggia verso il capitalismo.

La Cina è il paese delle biciclette e delle famiglie-città, è il paese delle fabbriche in cui si dorme e delle massime di Confucio. E’ il paese delle non libertà, quello degli esodi capillari in tutto il pianeta, quello delle mafie mondiali, delle moltitudini e dei partiti unici. 

Un coacervo di paradossi che rendono eterogeno il paese che Mao aveva "pettinato"  e messo in divisa ma che, sfuggito dalle sue grinfie, mantiene il peggio a onore della memoria.

Ora, prima di agitarsi per la seconda, attesa edizione di Vincere in Cina, sarebbe bene ricordare, davanti all’importazione dei modelli di business americano, che la Cina è anche il paese in cui un uomo si trova in carcere da due anni,  consegnato da Yahoo alla polizia perché su Internet inneggiava alla democrazia e alla libertà (per scagionarsi Yahoo scarica la colpa sulla sede di Hong Kong, ma Hong Kong, appunto, è una zona franca dalle leggi cinesi, lì non si è tenuti ad avvisare la polizia, vigono leggi proprie).

In Cina Internet è ancora il demonio. In Cina la censura impedisce ogni forma di personale discriminazione.

In Cina le esecuzioni capitali hanno il primato mondiale, da otto a diecimila esecuzioni ogni anno (solo nel 1997 il furto fu depennato dai crimini punibili con la pena di morte)

 In Cina si portano le scolaresche (medie e licei) ad assistere allo stadio alle fucilazioni di massa.

In Cina i cadaveri dei giustiziati sono prelevati direttamente con un furgoncino e venduti a pezzi al mercato degli organi.

Però ecco che la Cina spinge sul "libero" mercato con il suo format americano. Bravi. Ma non si può importare solo ciò che fa comodo.

Pare che uno degli eliminati abbia minacciatoil suicidio e che ora sia scomparso.

Ha ragione forse Zhao Yao, l’eliminato dalla finalissima, che lamenta l’assenza di realtà nel reality, denunciando le orchestrazioni e le manipolazioni.

"Forse è questo il vero insegnamento da trarre, la realtà non è mai quello che pare".

Esatto. Lo dice anche il Tao…