Lavoro diligentemente. Imparo come funziona un ufficio, come si lavora con gli altri. I codici, le convenzioni e i comportamenti di quella cosa che tutti chiamano professionalità"
(Un karma pesante, Irene Bignardi)

E già. Già. Codici e convenzioni baati, spesso, sulla falsità, sull'opportunismo, sulla strategia delle acrobazie lecca-deretano per ottenere il famoso potere dell'anello.
Che poi questo anello in realtà non sia tenpestato di brillanti ma sia di latta, è un'altra storia. Tanto non se ne accorge nessuno, nel valzer delle illusioni che governa questo mondo.
"Lavorare stanca", oggi. Ma non stanca tanto per il lavoro in sé (personalmente, non mi spaventano mai nemmeno le dosi massicce che comprendono pure i weekend) quanto per le dinamiche aziendali.
Che, a tutti gli effetti, compongono il 90% dei nostri malumori e delle nostre fatiche.
Nel mondo del lavoro a volte  brilla tutta quella superificialità che i messaggi pubblicitari, sociali, mondani ci fanno sciroppare da mattina a sera. Insieme alla competizione che ti farebbe vendere tua madre, per compiacere il famoso "capo". La stessa competizione  che ti fa andare avanti sulla pelle (e le palle) degli altri, ti rende meschino, maligno, invidioso dell'altrui creatività. E poi ci sono "gli altri", quelli che stanno nella sala macchine mentre i furbi si godono il passeggio sul ponte della nave, in prima classe. Gli altri, i "non visibili", quelli che fanno il lavoro duro, sporco, ma necessario.
Quelli che devono tamponare gli errori dei loro superiori troppo impegnati a farsi notare per lavorare davvero, quelli che FANNO, sul serio, mentre altri ne raccolgono i frutti. Quelli che il capo non vede mai, perchè sono un esercito taciturno e va bene così, guai se parlassero. Quelli che non osano ribellarsi (e sbagliano). Quelli che non hanno la camicia da fighetto e il capello vaporoso e quindi non funzionano, in una società che premia solo l'immagine.
E che quindi fa avanzare chi si veste all'ultima moda, chi è sempre tirato e lucidato e curato, chi vizia e fa le moine di turno chi non è mai scomodo e non dice mai come la pensa per non turbare la sua posizione. Chi se la prende con i più deboli per strisciare davanti ai forti.
E sono loro, gli "uomini – immagine", che in virtù della loro assenza di qualità fanno carriera. Buffo, no?
Io sono fortunata, perchè non faccio parte degli invisibili in quanto nella vita ho sempre urlato e puntato i piedi e fatto notare le cose, sfidando anche chi stava sopra di me. Sono fortunata perchè ho sempre avuto ruoli di responsabilità, di lustro. Ma sono sfortunata perchè non faccio parte della schiera di uomini immagine, di yesman che pianificano ogni loro respiro. Sono sfortunata perchè sono sempre stata, empaticamente, dalla parte dei più deboli e ho sofferto per le ingiustizie e i soprusi. E perchè quando succede qualcosa che secondo me non va, non so tacere, e mi caccio da sola nei guai in un mondo che di solito "non vuol vedere".
Però mi piace essere come sono, stare in questa "terra di mezzo" in cui fra il dipendente e il sommo capo puoi avere una visione totale, e fare qualcosa, anche se poco. Di certo, non sono una che sa fare strategie. E oggi le strategie sono vincenti.
Questa nostra bella, amata società moderna ha fatto del lavoro un luogo di massacri, dinamiche orripilanti, soprusi. L'unica cosa che conta è "avanzare", anche se significa, dal punto di vista della coscienza, arretrare. Ridurla alle dimensioni di quella di un radicchio, a volte certamente più sensibile come in fondo lo sono tutti i vegetali.
Io non ci sto. E non ci starò mai. Ma soffro nel vedere, nel non saper tacere, nel considerare come il vizio mostruoso del potere e dell'apparire generino quotidiane arroganze, malignità, prepotenze.
Ma oggi spesso si premia il "fico", non il "valido".
Vogliamo tutti godere delle belle verandine coi fiori che tendono verso il cielo, ignorando la necessità delle fondamenta, sempre sottoterra, là dove il sole dell'orgoglio non arriva, dove è tutto buio, umido, invisibile.
E invece sono importanti, quelle fondamenta. Nel lavoro come nelle nostre abitazioni, dentro di noi come nella società in cui viviamo.
Stiamo tutti lì, a conquistare il nostro pezzo di gloria senza guardare cosa succede "sotto". E, sotto, prima o poi le crepe delle nostre ingiustizie si faranno sentire. A guardare troppo per aria…non si fa attenzione a dove si mettono i piedi.
Certo è che il lavor  a volte è un mestiere per furbi. Almeno, lo è per avere un certo tipo di successo, quello che poi nella pubblicità ti mette davanti a una tizia tutta tette e rossetto che ti dice "Martini (o era Campari?)  passion", ti mette alla guida di un auto che sembra un'astronave con la quale giri il mondo in un secondo, vrooom vrooom, e ti trova in mezzo alla gente, la sera, nella festa in casa dell'uomo più glamour del mondo: tu.
Ma io mi domando solo questo: perchè tanti uomini immagine fanno i manager e non i cubisti?