Spiaggia Adriatica. Un giorno qualunque di un agosto qualunque. A un certo punto mi imbatto, sulla riva, in un capannello di gente che oscura la fonte di una musica suggestiva, bellissima. Faccio capolino fra le teste e vedo due indiani d’America che suonano il tipico flauto di legno sul quale la bocca soffia appena sul margine del tubo ed esplode note antiche e struggenti.

Sono vestiti di tutto punto: copricapo di piume, collana di osso e turchese, mocassini di daino, completo frangiato e faccia dipinta di rosso. Bellissimi, davvero. E bellissima la musica. Evoca un tempo remoto in una terra distante, al di là dell’oceano. Penso a come doveva essere bello radunarsi la sera intorno al fuoco, a fumare e parlare, o raccontare ai bambini le storie nel ventre del tepee, cacciare il bisonte e ringraziarlo per il suo sacrificio, osservare i gesti d’aria e di nuvole dello sciamano che danza, vivere la confidenza con  Madre Terra che ospista l’uomo e lo nutre (gli indiani infatti rifiutavano di coltivare la Terra che doveva rimanere vergine, inviolata). Ho sempre fatto parte di quelli che tifavano per gli indiani, io. Ho amato il Dustin Hoffmann di Piccolo grande Uomo, mi sono invaghita del bellissimo Daniel Day Lewis nel più commerciale, ma epico e  romantico, L’ultimo dei Mohicani.

Mi sento a casa mentre i turisti che mi circondano all’improvviso mi sembrano un branco di deficienti. Una signora immortala la scena con il cellulare, un’altra addirittura registra la musica con il suo telefonino che tiene sospeso nell’aria come un microfono (ciao da dove vieni? ci parli di te?), un uomo ciccione riprende tutta loa scena con il suo multifunzione.

Tutti uguali. La faccia bollita dal sole, i parei copri-crateri-di-cellulite delle signore, il borsellino appeso alla vita, i solari  spalmati come nutella che riempiono l’aria e la rendono omogenea (e coprono anche, per fortuna, qualche ascella fetente), le macchine fotografe al collo. Ci sono anche i soliti coglioni con la radiolina, che si aggirano sulla riva come fossero poliziotti che si comunicano la postazione.

Poi arrivano delle note che mi pare di conoscere bene. Infatti, è proprio il tema dell’Ultimo dei Mohicani! E un dubbio antipatico come una zanzara tigre comincia a ronzarmi in testa: è L’ultimo dei Mohicani ad aver ripreso la musica indiana o sono loro, gli indiani, a cantare il mtoivo dell’Ultimo dei Mohicani??

Fine dell’atmosfera selvaggia e remota. Un terzo indiano fruga in un borsone nero, tira fuori un cellulare e lo rimette dentro (un cellulare? ma non erano meglio i segnali di fumo? appoggiare l’orecchio al terreno? non cedete ai vizi della globalizzazione, dài! non voi! resistete!) poi tira fuori dei cd che mette in vendita. Chiedo alla signora accanto a me di mostrarmi il cd che ha appena comprato. Alma nativa, il titolo. Scorro i titoli e il dubbio diventa certezza: eccolo lì, The last of Mohicans. Perfino in inglese, la lingua della coca cola e di tutte le globalizzazioni. Ha vinto Hollywood.

Possibile che una tradizione antica e profonda come la loro abbia bisogno di attingere al film di Michael Mann per attrarre il turista? Una tradizione di canti e musiche bellissime, particolari, segno di una cultura che ancora oggi mostra la sua straordinaria saggezza…Eppure è così, siamo nell’era del turismo globale e loro si sono attrezzati. Mi mette addosso una malinconia appiccicosa come un vizio che non se ne va.

Del resto che pretendiamo, noi che per primi abbiamo esportato ovunque  il nostro "progresso" omologando popoli e tradizioni? Che facciamo i turisti da spot cercando di mangiare gli spaghetti in Irlanda, o girando il mondo sulla piscina delle Crociere Costa (quando si dice tutto il mondo è paese, anzi nave), radunandoci nei mac donald di tutto il pianeta…Basta avere il telefonino, come nello spot della Tim (o Vodafone, non ricordo e non voglio), e perfino in mezzo alle rocce deserte puoi mandare in vacca un matrimonio e scipparti la fidanzata. Così ce l’ha anche l’indiano, il suo telefonino uguale ai telefonini di tutto il mondo, e per vendere meglio i cd utilizza bene il successo del film con Daniel Day Lewis. Che mi era piaciuto, appunto, ma era un film…questi qua sono indiani veri.

Insomma mi congedo con un po’ di tristezza addosso. Del resto anche loro devono sbarcare il lunario, e oggi si fa prima se si usano i codici di un mondo riconoscibile ovunque, perché alla fine, ancora oggi, dopo millenni, ciò che ci atterrisce di più è lo sconosciuto…le note di The last of Mohicans le conosciamo, ci piacciono, ci fanno pensare alle magiche atmosfere del film. Non possiamo sbagliarci. Noi siamo il progresso, il multifunzione, il cinema e lo spettatore. Meglio che il particolare diventi l’universale in cui il segno familiare crea riconoscibilità. I visi pallidi non sono cambiati. Oggi come allora.