Quando  la morte si avvicina qualcuno riesce a captarla.

Accade a Oscar, un gatto che vive nella Steere House di Providence, negli Stati Uniti. Nella clinica, medici e infermieri vivono questa straordinaria avventura.

Oscar  è un micio tranquillo, discreto. Ma ha un talento particolare: sente l’arrivo della morte. Così salta sul letto di un malato, si accuccia accanto e comincia a fare le fusa. Dopo poco, il malato cessa di vivere.  

Il caso ha ovviamente destato clamore ed è  finito sul New England journal of medicine.

Ma perché stupirsi tanto? In fondo, i gatti sono sempre stati usati dai maghi e dalle streghe per le loro capacità percettive raffinatissime. Sembrerebbero capaci di vedere e sentire cose che a noi non sono concesse (avete mai visto un gatto fissare insistentemente il muro, a vuoto, per ore e con l’aria allerta? a me è capitato, e ho avuto la netta sensazione che…non fossimo soli).

Di sicuro Oscar è un sensitivo, al di là della folla di ipotesi e spiegazioni scientifiche (c’è chi sostiene che percepisca la variazione sottile del respiro che diventa diverso man mano che la morte si avvicina).

Il dato rimane: questo gatto sente in anticipo quando una vita sta per spegnersi, e diventa una sorta di bizzarro psicopompo che traghetta l’anima nell’aldilà, festeggiandone la dipartita. Sarebbe piaciuta, questa storia, agli Egizi, che seppellivano i loro gatti e ornavano le tombe con statue feline.

Comunque sia, Oscar è un gatto speciale. Certo, c’è da temere per il malato nel cui letto lui salta, ma in fondo non è poi male morire accompagnati da due occhi silenziosi e un delizioso ronfare.

Chissà che Oscar non veda il distacco dal corpo e, sornione, non visto, faccia "ciao ciao" con la sua zampetta.

Con buona pace di chi pensa che gli animali non abbiano un’anima…

 

 

Diciamolo subito: la vacanza ci vuole. Eppure sulla spiaggia, a volte, ti senti a disagio. C’è tutto…tranne ciò che vorresti. Mercatini che si mangiano ettari di spiaggia, reti da beach volley che si alternano alle cabine, attrezzi da palestra dati in dotazione con trainer in costume e casse che sparano musica a palla.

Sarà che per la sottoscritta il mare è, appunto, mare. Cioè acqua salata per fare i bagni, sabbia su cui distendersi o passeggiare. E magari un pizzico di vento e tanto, tanto silenzio per la quiete dei sensi. Ma non si può. I nostri mari, aggrediti dalle frensie del consumismo, somigliano sempre di più alle estensioni delle città.

Le spiaggie a volte, se ci pensi bene, sono ridicole. Piene di gente spogliata che si spalma cremuzze che si mescolano ai pestilenziali sudori (un mix terrificante per le narici), e che tutta felice si agita in mutande e reggiseno.

Già, perchè di mutande e reggiseni si tratta (possiamo chiamarli "costumi", farli in lycra, colorarli, ma sempre mutande e reggiseni rimangono). Invece in città hanno addirittura vietato, in qualche posto della Versilia, di gironzolare in ciabatte.   

A volte è buffo, vedi questi grappoli di gente intorno a te (sì, tutto intorno a te, come la Vodafone) con le sue belle mutande colorate, tutta contenta. Ma se pensi che sono mutande, ti viene da ridere.

 

E’ divertente, nelle cittadine di mare, osservare la scissione schizofrenica a seconda del clima. Nei giorni di sole, il centro diventa come il deserto della Namibia. Tutti al mare, ingolfati, pigiati in una sabbia sempre più rara, pressata dall’arrembaggio di lettini, ombrelloni, asciugamani.

Se invece piove, ecco allora che le viuzze del centro si popolano mentre il mare ritrova un po’ del suo selvaggio splendore. Vuoto, popolato solo dai bagnini ingrugniti che ciondolano le mani pensando agli euro mancati (eh sì, niente lettini aggiuntivi o lattine di Coca tirate fuori dai furbi dispenser che se la giocano con i baretti). 

E si sgomita, in centro, per fare shopping. Tutti dentro i negozi. I turisti con l’aria incazzata di chi sta sprecando il gruzzolo della vacanza, gli abitanti del posto un po’ più sereni perchè comunque si fanno un’intera stagione.

I turisti  con i loro sandali allagati zampettano sotto la pioggia cercando di evitare la minaccia delle pozzanghere, i bambini li seguono raggomitolati nei maglioncini troppo leggeri, specie negli ultimi anni in cui le tentazioni monsoniche della terra violata piegano in due le nostre estati alternando stagioni impazzite.

E ti viene voglia di qualche posto selvatico, senza ombrelloni e asciugamani e personal trainer, senza bagnini e turisti, senza invasioni di gente che salta dalla sabbia al cemento districandosi fra i giorni uggiosi e quelli di sole.

Anche la terrazza, a volte, è un toccasana. Ti fa sentire in una cittadella inespugnabile. Peccato, però, che da qualche, sulla strada, qualche bar appicca l’incendio della sua orribile musica, quella dei tormentoni estivi.

E tu bruci di scoraggiamento.

 

 

Oggi è il trentesimo compleanno di Starwars. Come tanti, l’ho seguito, amato, custodito nel cuore. Mi sono appassionata nel cercare le chiavi simboliche usate da Lucas, che nella saga ha cosparso  tante briciole di Pollicino che ci riportano indietro, a casa, là dove regna il tempo immobile del mito e della leggenda.

Non è un caso che Lucas dichiari il suo debito verso Joseph Campbell, insigne mitologo, luminoso autore di libri magnifici, pieni di vis narrativa e intensità.

Nei protagonisti echeggiano – volutamente – le gesta di eroi e di dèi, nell’eterna lotta del Bene e del Male universali e, allo stesso tempo, presenti e vigili nel nostro cosmo interiore.

La tensione spirituale dei Jedi, metafora e richiamo di quei Cavalieri arturiani che custodiscono i segreti del Graal, ha sempre esercitato per me un fascino antico, un richiamo verso suggestioni profonde, talmente radicate nel mio inconscio da non aver bisogno di nessuna migrazione verbale per essere spiegate e riconosciute.

Eppure, eppure il personaggio che amo e che ho amato di più è Anakin Skywalker.

Anakin, con il suo groviglio di forza e passione, con la sua drammatica umanità.  Anakin che scivola giù, verso la tenebra del suo cuore, perché se "grande è la Forza che scorre in lui", anche la passione, controcanto insidioso, pulsa, altrettanto potente, in ogni suo gesto, precipitandolo nell’ombra dell’odio e della vendetta.

Irruento, impulsivo, fatto di vulcano e di fuoco, Anakin è tuttavia anche colui che metterà fine all’Impero salvando suo padre.

Anakin, più vicino a Lucifero che a Dio. Servitore dell’Ombra perché tradito da una Luce che non ha saputo accogliere con accettazione e compassione. Come lui, come Lucifero, è un angelo caduto per un egoistico eccesso d’amore, per un moto superbo dal quale non si è saputo trattenere. Il "troppo amore" dell’Io ci toglie le ali. Anakin cade a terra perché impara a odiare dopo la morte ingiusta destinata a sua madre, e questo odio si cementa nella ribellione verso il distaccato amore dei Jedi, quasi marmoreo, impermeabile a ogni emozione, a cui lui oppone il disperato, clandestino amore per Padme (qui penso alla bellissima figura dei Tarocchi che rappresenta Ercole al bivio fra vizio e virtù). Un po’ come Lancillotto diviso tra la fedeltà al Re Artù e la tempesta emotiva provocata dall’amore per la bella Ginevra. Se Lancillotto non potrà per questo vedere il Graal, così Anakin si allontana dalla "retta Via" per incamminarsi nell’ombra. Ma la sua ombra è la nostra. E’ la tentazione stessa dell’esistenza.

Come Lucifero, Anakin inciampa per un eccesso di fuoco sulfureo. Pur di salvare la sua amata dalla morte baratta la salvezza della sua anima con le forze infere. Si ribella al destino. Ma il destino non tollera ribellioni e fa sempre a modo suo. Si compie, prima o poi. Ma in quello stesso destino che iscrive la sua caduta è contenuto il germe stesso della redenzione.

Lucifero è portatore di luce. E’ Luci-fer. Allo stesso modo, Anakin alla fine salverà sé stesso e il futuro dei Jedi nel suo riscatto finale. Farà ciò che Joda, con tutto il suo oceano di saggezza e potenza, non è mai riuscito a fare. 

 La sua ombra, conosciuta, vissuta e utilizzata, lo ha reso ancora più potente. Non c’è mai una grande luce senza un’ombra altrettanto importante.

La redenzione estrema, radicale, che avviene sul confine tra vita e morte, è anche un monito, un invito alla riflessione.

Possiamo vivere una vita impeccabile e cascare negli ultimi istanti (senza possibilità di riparo), ma possiamo anche vivere da "peccatori" e raddrizzarci nell’ultimo istante. Interessante.  Non possiamo mai stare tranquilli. Le luci e le ombre si agitano dentro e verso di noi, in movimento perenne. E se l’ultimo singhiozzo di vita è quello che riassume il senso del nostro destino, allora la figura di Anakin condensa una speranza e un avviso: basta un solo atto d’amore, uno solo, ma che sia realmente sentito, per allontanare la tenebra del nostro cuore. Ne dissolveremo le nebbie e allora Avalon si mostrerà alla coscienza.  Sollevando la tenda del disamore scopriremo le distese imperiture del nostro cuore. L’ultimo atto di vita può valere più di mille, eroiche esistenze passate nell’illusione del bene.

Nel guizzo breve di un istante può giocarsi tutta una vita intera.

Una tale consapevolezza è rassicurazione e tormento. Un po’ come il "memento mori" che accompagnava la gloria degli imperatori (quanta immensa saggezza in quell’atto, peccato che oggi viviamo solo tanti pusillanimi, subdoli e fuorvianti memento godi).

Non possiamo far finta di non sapere.

La figura di Anakin è la vera figura chiave dell’intera storia. Ci ricorda dell’importanza dell’ombra. Ci racconta della nostra forza e della nostra fragilità. Siamo vulnerabili, esposti ai venti sibilanti delle emozioni. Siamo tormentati dai nostri amori e divisi tra il moto espansivo dei nostri ideali e la contrazione atroce del nostro limite.

Ma dal caos si genera l’ordine, così come Anakin restituisce l’universo alla Luce.

Siamo tanti piccoli Anakin, in fondo. Inciampiamo sulle nostre passioni. Ma basta un solo soffio d’amore per compensare le infinite cadute.

Purchè sia sincero.

Sincero e allo stesso tempo sottile. Come brezza mattutina custodita nell’annuncio segreto del cuore.

 

Online il nuovo numero di Silmarillon. Il dossier è tutto sui blog.


 

 

 

 

 

 

 

 

Diciamolo subito: parlare di blog può essere molto stimolante o molto banale. Come accade per ogni fenomeno della rete basato sul contributo partecipativo, privo di filtri, possiamo avere una qualità pessima o "un’alta risoluzione". Un po’ come succede con le pagine di Wikipedia, a volte ben fatte, utili, altre volte, invece, gravide di errori e imprecisioni. Dipende da noi imparare a discriminare. E non è poco. (…)

Già, il blog. Un fenomeno che in pochi anni è cresciuto in modo vertiginoso, coinvolgendo perfino gli ultrasessantenni che al gioco della briscola ora preferiscono chiacchierare in rete con gli altri. Se all’inizio il web-log era un’espressione diaristica, nata dall’urgenza di raccontare (quella stessa urgenza che affligge le case editrici, invase da memorie private che aspirano a diventare letteratura), in seguito è diventato un insieme di cluster comunicanti che hanno fatto della comunità dei blogger una sorta di super-Google, come scrive Granieri nel suo bellissimo Blog generation, che si modifica continuamente grazie alle opinioni che esprime e all’efficacia con cui le trasmette.

Sono nati così diversi tipi di blog: letterari, erotici, giornalistici, politici, ecc. Insomma, ogni forma di pensiero sembra trovare nella rete la possibilità di un’espressione libera, spontanea, capace di creare aggregazioni. 

Forse perché oggi il web rappresenta la forma più vicina all’abbattimento delle asfittiche verticalità che hanno sempre fatto sentire il cittadino come un ospite cronico, vittima dei ghota della politica, dell’economia e dell’informazione (sì, esatto, anche il gotha dell’informazione) da cui dipendono le scelte di un mondo che lui può solo commentare, ma non agire. 
In fondo, la rivoluzione digitale assomiglia un po’ alla presa della Bastiglia, in cui il “popolo” diventa autore delle sue azioni facendo cadere le teste coronate. E di teste “coronate” i blogger ne hanno fatte cadere parecchie. Basta pensare a quel Lott repubblicano ignorato dai media americani e poi messo all’indice grazie ai blogger, che ne hanno diffuso i pensieri razzisti scandalizzando l’opinione pubblica fino a ottenere le sue dimissioni.  Ma gli esempi sono davvero tanti. L’informazione dal basso incide così sull’alto, in una democrazia orizzontale in cui ognuno esprime il proprio pensiero. Si crea così una circolazione di idee senza precedenti. 

Ci si sente un po’ come nella Tavola Rotonda di Artù, il “primo fra uguali”. Si procede per virtù conquistata, e non conferita dal fuligginoso potere dell’anello di qualche Signore. Anche la rete, alla fine, ha le sue gerarchie, ma sono di tipo diverso. Sono quelle che nascono dal plauso dei suoi cittadini. Lo ius deriva dall’attendibilità e dal riscontro libero di ciò che divulghiamo. Forse è la prima elezione…davvero “diretta”. Ovvio, ogni democrazia ha i suoi difetti. Perché richiede una mostruosa maturità. E tuttavia, tuttavia la rete sta dimostrando di saper usare bene la democrazia di cui gode. Con tanti inciampi, ovviamente. Ma se non caschi non impari mai a camminare. 

Interessante, poi, notare come sul web chiunque se la tira un po’ viene immediatamente messo alla gogna. Come quei re ridicoli di alcune fiabe, quelli che arrivavano pieni di oro zecchino che nascondeva la ruggine del ferro che pulsava nel loro cuore.
C’è una cosa che non smette mai di colpirmi: la differenza di stile tra chi sta anche in rete e chi invece la usa solo per le sue ricerche. (…)

I giornalisti e i comunicatori che si muovono in rete ti rispondono subito. Ti danno del tu, sono cordiali, disponibili. Sanno che questo spazio digitale usa il principio del dono, dell’offerta. E sanno che quello che tu regali ti torna indietro. Non sono gelosi dei loro orticelli, anzi ti ci fanno entrare e condividono i profumi del loro basilico, ti regalano i fiori freschi appena innaffiati.
Mi è successo con Pino Scaccia, con Cristopher Allbritton, con Roy Peter Clark e tanti altri. Più generosi dei colleghi della carta stampata, sono privi delle nevrastenie da divetto. Semplici, diretti, immediati. Come il web. 

Ho ricevuto le risposte alle interviste nel giorno stesso in cui ho inviato le domande. Neanche il fuso orario ha fermato il flusso rapido di questa comunicazione… 

Capisco che per chi ha sempre scritto sulla carta stampata il mondo digitale all’inizio non è così immediato. Venivo dal quel mondo anche io. Avevo sempre lavorato nelle riviste culturali. Ricordo che la prima cosa che facevo, quando arrivava il numero nuovo dalla tipografia, era quel gesto antico, che mi porto dietro fin da bambina, fin da quando rubavo i libretti di fiabe nella libreria di mio nonno: aprivo le pagine e ci infilavo dentro il naso, aspirando con godimento quell’odore inconfondibile, afrodisiaco prezioso dell’intelletto. 

Il video non ha odore (per ora) né inchiostro. Non gode dell’esperienza tattile provocata dal dito che sfiora la carta. Ma è altrettanto efficace. Ci sono, in quel mondo, altre esperienze da percepire. Ma, si sa, le pantofole mentali sono difficili da mettere via. E ogni novità richiede di camminare scalzi. Figuriamoci quelle di un mezzo digitale che arriva a sconvolgere le abitudini di chi ha superato i quaranta e quindi non è cresciuto, come i ragazzini, cpn la facilità dello smanettamento (o “spippolamento”, come dice il mio amico Lorenzo) in rete. Ci vuole un po’, in questi casi, per imparare a muoversi in un contesto così impalpabile rispetto alla fisicità della carta. Somiglia a una sorta di attraversamento del Mar Morto, un passaggio nelle Acque simboliche che genera un cambiamento. Ed è radicale. Perché una volta che si usa il web, non si è più quelli di prima. 

Pensiamo solamente alla scrittura, al blog in cui ogni giorno (o due-tre volte alla settimana) usiamo la scrittura per comunicare. Il pensiero vive una dimensione sua, che muta quando invece si incarna nella parola che ne fissa, per così dire, la qualità. Non a caso non sempre chi è un bravo oratore è anche un bravo scrittore. Dipende. 
Ma l’uso del blog genera confidenza con quella contrazione-espansione del pensiero che è la parola. Ci rende più sensibili all’articolazione di ciò che pensiamo. Perché scriviamo. Perché fissiamo.
Non importa quale tipo di blog stiamo usando. Possiamo scrivere dei punti neri sullla pelle grassa del nostro viso o commentare il Live Earth di Al Gore. Stiamo comunque scrivendo. 

Con una differenza notevole rispetto al diario classico, quello che nascondevamo e che la mamma puntualmente trovava (almeno la mia, accidenti). Quel diario rimaneva un fatto isolato. La scrittura del blog, invece, finisce in rete. Questa condizione comporta una distinzione netta, che sta proprio nel pubblico. Anche se ce ne freghiamo del giudizio altrui, comunque manteniamo la consapevolezza di un orizzonte allargato. Il post è come un messaggio in una bottiglia, affidato all’oceano di Internet. Forse nessuno lo leggerà, forse galleggerà alla deriva. Oppure qualcuno aprirà la bottiglia e condividerà il nostro pensiero, aggiungendo, togliendo, criticando. Non importa. Ma si crea così un reticolato, un’interazione continua, come un gioco di specchi e rimandi. 

I famosi “sei gradi di separazione” nel web intensificano la loro attività, riducendo l’estensione dell’attimo in cui si abbatte la distanza fra noi e un altro essere umano. Da pari a pari, dicevo prima.
E questa è la scommessa più bella…

 

 

 

Le immagini su questo blog saranno assenti fino alla prossima settimana.

 

Mentre la padrona del blog attendeva il suo turno per la visita dal medico  (a causa di una bronchite che le ha devastato le vacanze natalizie), sfogliando un numero della rivista Geo si è imbattuta in un dossier sulle popolazioni antiche. Benissimo, molto interessante. Il numero è quello del 6 giugno 2006.

A un certo punto, uno spazio radunava notizie sugli usi e i costumi dei maya.

Bambini – Strabico è bello

Se pensate che i vostri genitori siano "crudeli", non sapete cosa succedeva ai bambini maya: appena nati fasciavano loro la testa fra due assi per schiacciare il cranio fino a fargli assumere la forma di una pannocchia. Poi appendevano una pallina davanti agli occhi per farli diventare strabici. Così secondo loro sarebbero diventati più belli, simili agli dèi. E se disubbidivano, c’era la frusta con le ortiche.

Bellezza – Un sorriso speciale

Una bella ragazza maya doveva avere il cranio allungato, il naso aquilino, gli occhi storti e il labbro inferiore cascante. E per essere ancora più bella doveva limarsi i denti e impiantarvi vezzosi pezzi di conchiglia. Se eri nato nano, invece, venivi ricevuto a corte con tutti gli onori: infatti i maya erano convinti che dentro il suo piccolo corpo si nascondesse un dio.

Beh, si sa, de gustibus. I canoni greci non sono universali.

Le notizie sopra riportate rimangono  buffe, folkloristiche, ma hanno lo stesso sapore di una sagra del vino fatta con l’acqua.

I contesti rimangono fondamentali; non basta estrapolare qualche "mistero buffo", come direbbe Fo (che oggi ha perso parecchio smalto, sarà colpa del Nobel…) per fare notizia.

E dire che Geo ha pretese scientifiche, seriosissime. Mica è come quei birbanti di Focus, smaliziati, sempre pronti a una confezione per pronto uso, sempre aperti alle "fast news"commerciali.

E tuttavia  non si può affrontare un popolo arcaico senza accennare ai suoi miti della creazione, da cui derivano una serie di abitudini e costumi sociali (del resto, anche noi giriamo con una foglia di fico perché figli di Eva…).

Per questo la padrona del blog, pur apprezzando l’incursione piacevole (ma tanto superficiale), invita chi apprezza i maya o è curioso di conoscere meglio questa straordinaria popolazione a leggere il Popol Vuh.

E’ la leggenda delle origini, in cui l’alba degli dèi intersecò il tempo degli uomini. Tempo circolare, in quel mondo lontano. Tempo mitico, in cui ancora non si era scritta la Storia.

Comunque, per tornare alle "bellezze" maya o allo strabismo infantile, è sempre interessante osservare il relativismo di ciò che consideriamo assoluto. In fondo, la bellezza vera, autentica, è nella diversità, non nell’omologazione (infatti siamo un popolo di pecore truccate, tirate e botulinizzate, convinte di essere… volpi).  Una bellezza che deriva anche dai codici che ispirano – in ogni popolo – un senso estetico particolare.

La bellezza globale, oggi, è solo frutto di una comunicazione massiccia che ha imposto alcuni canoni che alla fine hanno prevalso su altri, e così finiamo per vedere quelle povere, ridicole  giapponesi con i capelli color carota ammuffita, o le donne africane coi ricci piallati da un ferro da stiro, "colpiti" dal sole ossigenato dei parrucchieri.

Per non parlare delle nonne ragazzine (ricordate l’immagine orripilante quanto profetica di Brazil, con la vegliarda tutta strizzata?) o dei vitelloni imbracati nelle pancere cancella-ciccia.

Il Centro Estetico dell’Era Globale prevede per tutte gli ombelichini di Britney Spears o le eleganze di Sofia Loren (o meglio, la sindone plastica di ciò che fu la Loren), i capelli griffati L’Oreal o le lozioni per rinfoltire la pista della Malpensa targati Testanera for Man.

E resistono invece, altrove, le donne con i colli alla Modigliani su cui stanno infilate, come perle su un filo, le loro collane d’argento, o quelle con gli orecchini intubati alle labbra.

Perché, per fortuna, la bellezza non è sempre uguale. E in alcuni luoghi nasce da tradizioni diverse.

Comunque, tornando ai gusti maya, c’è da dire che se ne sarebbero giovati alcuni personaggi nostrani, almeno per quanto riguarda i privilegi delle strabiche e dei nani.

Chi sono, questi personaggi?

La Annunziata e  Berlusconi…