Come sono graziosi, i bambini, quando giocano insieme. Li vediamo anche d’estate, al mare, tutti presi a scrutarsi per poi darsi immediatamente la manina e tuffarsi negli schizzi allegri del mare.

Mia nipote ha due anni e bacia tutti. Abbraccia famelicamente ogni bambina, distribuisce golosi bacini sulla sua guancia, allarga il sorriso mostrando i dentini, lucidi come piccole perle bianche.

Come sono graziosi, i bambini, quando giocano insieme.

Anche se sanno essere impietosi e sadici come solo nel tempo dell’infanzia è concesso. E crudeli e tiranni.

Come quando arriva il bambino sfigato e nessuno vuole giocare con lui. Come quando tanti anni fa, ero una ragazzina, l’amichetto di mio fratello, Samuele, compì sei anni davanti a una torta troppo grande per quella festa vuota, senza invitati. Nessuno della sua classe era andato. Mi ha inseguito, negli anni, quel ricordo. Più volte. Avrei voluto andare da Samuele, bussare alla sua porta con una cesta piena d’affetto e di regali.  

Ma i bambini sono così. Mutevoli come la luna. Irruenti come un uragano. E, quando vogliono, soavi e dolci come la carezza di un angelo.

Peccato che debbano imparare subito la competizione. Peccato che già alle elementari siano spinti a fare il primo della classe (quello che tutti abbiamo odiato, quello che spesso aveva la evve moscia come Bertinotti e gli occhialetti tondi da piccolo Einstein).

Se nel bambino iroso, nella peste in preda alle rivendicazioni che segnano subito la proprietà nei liberi territori del gioco, i singulti durano quanto una nuvola in cielo (e infatti "cattiveria" e "bontà", egoismo e generosità si alternano con moto fulmineo), con l’inizio della competizione reale, quella che condurrà al successo sociale, entra in gioco la strategia.

Inizia così il declino di quella spontaneità che dovrà cedere il posto alla educata ipocrisia del compromesso, cioè a quella maschera che vestiamo da adulti, quella che ci permette di vivere e di difenderci (ma è necessaria davvero?). 

Come sono graziosi, i bambini, quando giocano insieme.

Anche perché sono veri. Nel loro bene e nel loro male. Quando danno i bacini e quando tagliano la coda della lucertola. Quando mollano l’amichetto tutto solo a festeggiare le assenze e quando ti regalano all’improvviso i loro giochi, salvo poi piangere perché li rivogliono indietro.

Ma l’essere primi, nel tempo acerbo dell’infanzia, significa solo avere il palcoscenico tutto per sé, in modo che la mamma possa guardare i protagonismi e magnificare "his majesty, the child", come diceva una mia amica psicologa. E’ un vizio dell’affetto, una fame d’amore.

Il mondo magico e distante dei grandi deve sempre guardare e approvare, è lo specchio che misura il senso e il confine di ogni bambino.

Più tardi, invece, si viene educati alla supremazia in una cultura individualista, "democraticamente" votata all’importanza dell’essere primi. Bisogna allora schiacciare il compagno, battere il concorrente (con ogni mezzo, e lo vediamo ogni giorno, nei mediocri adulti che furono i magnifici bimbi di ieri).

Ecco, inizia l’era della strategia. Dalla scuola in poi, bisogna correre scansando tutti gli avversari, come in una partita di rugby.

I moti infantili dell’animo si fissano in una struttura, quella del vincitore. Perché non è vero che gli ultimi saranno i primi. Un motto popolare, americano, recita: "Il secondo arrivato è solo il primo degli sconfitti".

Ma che bel castello, marcondirondirondello…

 

 

Diciamolo subito: in Rete si incrocia di tutto. È un po’ come muoversi in un mercato cinese, con il pigia-pigia delle persone, i sorrisi di alcuni, gli sputi di altri, il caos del caso (caos e caso, toh, non ci avevo mai riflettuto).

Però cambiamo metafora, i cinesi mi fanno pensare a qui cagnolini sbattuti nelle gabbiette. Da sentirsi male (a tal proposito, la mia amica giapponese mi recita spesso il loro detto: "Il tavolo è l’unica cosa a quattro zampe che i cinesi non mangiano).

Pensiamo magari a New York. O, se vogliamo restare in ambiente esotico, a Calcutta e Bombay (sì, sì, proprio loro, leggetevi Shantaram, che racconta della incredibile marea umana capace di stiparsi e sorridersi).

Insomma, immaginiamo un luogo pieno di gente. Sì, a volte basta la linea A della metro di Roma, non c’è bisogno di volare così lontano…

Insomma, dicevo, viaggiare in Rete è una vera e propria navigazione. Ognuno con i suoi strumenti, la sua bussola, la sua mappa.

All’interno di questo oceano, ci sono tante casette sull’acqua, che si chiamano blog.

Il proprietario apre le porte, invita gli ospiti, li fa sedere sul divanetto. Alcuni entrano nella conversazione, altri se ne vanno.

Bene. Ma ci sono un paio di regolette da rispettare.

Il blog NON SI USA per scopi promozionali. Farlo è da cretini.

Promozione del neofita:

Succede così: chi apre un blog va a caccia (dico davvero, a caccia) dei suoi futuri lettori, comincia a smanettare (o a spippolare, come dice Lorenzo in redazione) in giro e che fa? (il cretino, intendo).

Comincia a farsi pubblicità usando frasi tipo: "Ciao, sono passato sul tuo blog. Passi da me?".

Ma neanche Mara Venier con il suo "Ciao, da dove chiami?" suona così posticcia.

Sì, passo da te. In un’altra vita.

Capita, nei blog, di imbattersi in questa fauna batterica che infesta le sane conversazioni.

Passa da me, passo da te, passo non posso, sono ripassato in padella…

La Rete può essere usata in modo intelligente, e se uno vuol farsi notare, può dire…cose intelligenti, appunto.

 

Promozione sfacciata:

Caso numero due. Frasi del tipo: Passate tutti sul mio blog.

Un po’ alla Internazionale bloggerista. Blogger di tutto il mondo, unitevi e marciate da me.

Anche se l’invito non usasse l’imperativo categorico, sarebbe comunque fuori luogo.

In Rete passa chi passa. Si naviga così, ci si riunisce e ci si lascia un po’ per caso. per affinità, per combinazioni…

Mica bisogna fare gli Apostoli e andare a pescare tutte le anime che ci stanno in giro. Le cose in Rete accadono da sé, secondo forme di aggregazione spontanea. Ed è bello così.

Qualcuno addirittura scrive privatamente ai blogger (be’, almeno un po’ di pudore) invitandoli direttamente a vedere il suo nuovo post. Uno per uno, li invita. Mah…

Promozione professionale

La peggiore. Il contrario dell’anima della Rete. I commenti in questo caso vengono usati per promuovere l’afflusso a ricevimenti, mostre, conferenze, ecc.

Lunedì alle 18.00 lettura del mio libro presso il circolo De Amicis

Venghino signori venghino.

Però, questo il bello, la Rete a volte è davvero…magica. Cioè si auto-regola e, guarda caso, questi episodi non hanno successo, non  ottengono il riscontro auspicato.

E per fortuna.

Imparare l’educazione è la prima cosa quando si entra a casa di qualcun altro.

 

 

 

 

 

Dovremmo ricordarcelo sempre.

 

Sto male, sai?

Sto male da quando ho saputo.

Ti hanno ammazzato. E adesso stanno lì, a dire che si trattava di “aborto terapeutico”, a sdoganarsi l’anima e salvare il deretano.

Intanto un aborto non è mai “terapeutico”. Terapeutico per chi? Per cosa? Andiamo, ma fatemi il piacere. Al Careggi non hanno di meglio da dire?

 

Avevi venti settimane. Cinque mesi. C’erano già le manine, i piedini, la testa.

Ti dondolavi felice, cullato da quel mare di vita in cui galleggiava  il tepore del ventre che ti custodiva.

 

E invece all’improvviso ti hanno strappato via, hanno aperto il tuo nido e come predatori si sono avventati su di te, povero uccellino innocente precipitato dall’albero della vita.

 

Ma tu non volevi morire. E per sei giorni sei stato in agonia, mentre la tua mamma, distrutta, scopriva che la malformazione che i medici ti avevano diagnosticato non esisteva.

 

Già. Eri sano. Eri un bambino sano. Ma due ecografie ti avevano condannato a morte. La tua mamma e il tuo papà si erano convinti che non avresti potuto vivere dopo le informazioni terribili che avevano ricevuto. Informazioni sbagliate.

 

 

Sei stato per giorni appeso al filo di una vita che hai appena mozzicato, attaccandotici stretto stretto, con quei dentini che ancora non avevi, con quelle braccia ancora troppo fragili, interrotte nella loro crescita da una sentenza sbagliata.

 

Invece del seno di tua madre hai trovato tante mani estranee che ti hanno frugato, infilato nell’incubatrice, attaccato ai tubi. Se avessi potuto parlare, oh sì, se avessi potuto parlare avresti potuto dire a quegli stronzi cosa pensavi.

 

 

Cosa pensavi? Cosa sentivi? Ti immagino lì, nudo, condannato a morire. Come quelle aragoste che si muovono fra il ghiaccio delle vetrine-frigorifero, quelle che stanno all’ingresso dei ristoranti, esposte al viavai dei clienti. C’era tanto traffico, immagino, intorno a te.

Sperano di farcela, le aragoste,  ma sono già morte, andate. E in qualche modo ho sempre pensato che loro lo sanno. Ho sempre pensato che esiste qualcosa, nelle creature viventi (e intendo ogni creatura, anche un animale), che sfugge ai nostri studi e alle nostre supposizioni. Sì, chiamala pure l’anima.

E la tua anima? Deve avere sofferto per la mancanza di quell’amore che tua mamma non ha potuto darti perché i medici le avevano detto che eri “da buttare”.

 

Sai, è strano, oggi parliamo di progresso, di civiltà.  Lodiamo la nostra evoluzione che ha scongiurato la violenza dei tempi antichi, così grezzi, cruenti.  Ci scandalizziamo perché a Sparta si buttavano giù i bambini da una rupe.

E adesso? Adesso possiamo intervenire prima, grazie alle nostre tecnologie. Se i bimbi sono difettosi lo sappiamo da subito. Non c’ è mica bisogno di buttarli giù da una rupe.

 

Possiamo farli ruzzolare giù dal ventre della madre prima ancora che nascano. Bella civiltà, bella sorte “magnifica e progressiva”.

 

Sai una cosa? Mi fa schifo. Tutto questo mi fa schifo. Mi annichilisce.

 

 

Chissà, forse sei stato fortunato…Perché questo mondo, così, non è bello per niente. Ma quando si ammazza un bambino dicendo che si tratta di “aborto terapeutico” mi viene voglia di urlare, di vomitare. Supero quel limite di tolleranza che mi porto dietro ogni giorno.

 

Forse sei stato fortunato. Non vedrai un mondo in cui i medici si sono sostituiti a Dio. Non vedrai la società dei perfetti che spinge le ragazze all’anoressia, che si accanisce "terapeuticamente" su vecchietti che devono per forza essere strappati alla morte (perché non si deve invecchiare e morire, nella nostra progredita, bella, amata, moderna civiltà).  Non vedrai, beato te, le mamme e i papà scegliere i loro figli su un catalogo, non li vedrai decidere il colore dei capelli e degli occhi, l’altezza, il quoziente di intelligenza…

Sì, perché fra qualche anno ognuno potrà finalmente avere il suo “bambino perfetto”, confezionato su misura, come una camicia.

 

Be’, ti racconto una cosa.

Una mia amica, che ha un figlio con la sindrome di Down, una sera d’estate, con le lacrime agli occhi, mi ha detto che il suo bambino era un messaggero del Cielo, che le faceva vedere cose che altrimenti non avrebbe mai visto.

 

Ecco, mi viene da piangere. Di nuovo. Come ieri sera, quando ho saputo della tua morte, quando i medici invece di vergognarsi si sono giustificati.

 

 

Certo che gli hai fatto un bello scherzetto. Bravo. Sei diventato un aborto vivente. Se fossi morto, sarebbe stato tutto più semplice. Magari non si sarebbero neanche accorti che eri sanissimo, ti avrebbero estratto, infilato distrattamente in un barattolino pieno di liquido puzzolente che avrebbe coperto il tuo odore di cielo. E invece il tuo odore di cielo si è sentito per bene, si è diffuso nelle stanze degli ospedali, ha varcato la  porta del Careggi e si è spinto più in là, e poi più in là ancora. È arrivato perfino a me.

 

 

Non morivi come previsto. E questo ha complicato le cose. E te ne stavi lì, abbastanza formato per respirare, lottare e soffrire. Ma non abbastanza per farcela.

La tua mamma sta malissimo, lo sai. Non so se la sua ferita si cucirà mai. Lo strappo è troppo forte. Si sente in colpa. Ma, vedi, lei ha scelto in base alle pressioni dei medici, pensando di evitarti una vita di sofferenza. Poteva anche decidere di portare avanti la gravidanza, salvandoti.

 

E questa scelta mancata sarà la croce che ogni giorno innalzerà sul suo Golgotha. E lì, con le mani e i piedi infilzati dai chiodi,  il costato trafitto dalla lancia della memoria, cercherà di non pensare più per sopravvivere.

 

In fondo lei ha contribuito al tuo omicidio. Non ha fermato quei sacerdoti in camice bianco che decidevano della tua morte. Ma ti voleva bene, la tua mamma. E avrà bisogno di un pezzettino di cielo, da lassù, per trovare la forza di andare avanti. Ti ha visto passare dalla sua culla al tavolo dell’ospedale. Mezzo vivo. Mezzo morto. Una creatura mostruosa che  ricordava a tutti che non si può decidere con tanta disinvoltura del destino degli innocenti.

 

Non ce l’ho con lei (si odia già tanto da sola, è stata complice del tuo omicidio) ma forse bisognava insistere di più, sentire altri pareri…Certo, è difficile esprimere giudizi: oggi siamo tutti convinti che i medici siano dei “sapienti” perché ci hanno convinto che sono loro a conoscere il mistero della vita e della morte.

 

Malgrado gli episodi orrendi che ogni giorno accadono negli ospedali, continuiamo a credere che abbiano in mano “la verità”. La nostra cultura moderna ci ha convinto di questo.

Così la tua mamma, forse, si è fidata troppo. Lo pagherà per tutta la vita.  Sai che se penso a lei mi viene la pelle d’oca?

 

Ma non riesco a non pensare a te, prima di tutto.

 

Perché sei un bambino nato. Un bambino che ci ha fatto un grande regalo. Ci ha ricordato la nostra infinita miseria. Ci ha sbattuto in faccia la fallibilità. La presunzione.

Sai, piccolino, quaggiù le cose si mettono sempre peggio. Davvero, non lo dico per consolarti, ma ti è stato risparmiato un futuro che noi purtroppo vedremo. Il mondo va a rotoli e lasciamo fare. Si inseguono sogni stupidi, patinati, luccicanti come una Porsche appena comprata. Ma la sai una cosa? Avevi il diritto di vederlo, questo schifo di mondo.

Perché accanto c’è anche tanta bellezza.

Ci sono i prati e i tramonti e i mari. C’è il vento sui capelli. Il gattino che ti si accuccia accanto.  Una carezza imprevista. La mamma che ti tira su la coperta la sera. La gioia di imparare e cascare, e cascare e imparare. La tazza di caffè con un’amica. Le lacrime per i  perduti amori. E la ricerca di un senso. Vivere è difficile ma è tanto bello. E te lo hanno negato.

 

Per questo non volevi morire, vero? Perché anche se ci sono le guerre, la fame e  le malattie non volevi rinunciare al colore dell’acqua d’estate, verso le otto, nel momento magico in cui la luna e il sole si salutano per fare il cambio di guardia davanti ai cancelli del cielo.

 

Quel cielo che ti trafigge perché all’improvviso è uguale al mare, è tessuto di un azzurro così trasparente che non puoi neanche più nominarlo perché è un non colore che trattiene tutte le tavolozze del mondo (deve essere così, il colore del Paradiso). Non lo vedrai, quel meraviglioso passaggio dal giorno alla sera.

 

Il tuo crepuscolo è stato diverso, pieno di angoscia e dolore. Però, te lo dico ancora una volta, il tuo scherzetto ci ha messo in ginocchio. Spero lo farà anche con quelle persone che pensano di stabilire i confini tra malattia e sanità, tra feto e bambino, tra vita e morte.

 

 

Il tuo destino di scricciolo condannato non passerà liscio nelle nostre coscienze.

Mi dispiace solo che a volte abbiamo bisogno di lezioni tremende per imparare.

La tua vita evanescente, sfumata, in realtà pesa come un macigno.

 

 

 

Ciao, scricciolo. Abbi misericordia di noi.

 

Francesca

 

In questo periodo assolato, in cui la primavera sembra già torrida estate, difficile non fare il punto sulla situazione.

Abitiamo una Terra che sta morendo.

L’abbiamo violentata, sfruttata, devastata. Ne abbiamo scavato e percorso ogni solco, trasformando la sua  carne, la sua umida terra, in catrame. Delle foreste abbiamo fatto carta per le nostre grafìe e legno per le nostre eco-abitazioni. I mari, i mari belli e avventurosi, ospitano oggi le scorie di fiumi sfiancati dalle immissioni di pesticidi e altre schifezze.

Quegli stessi mari in cui l’uomo si è più volte perduto,  cantando lo sguardo annegato nella vastità dei suoi specchi d’acqua.

E in quegli stessi mari i ghiacciai, oggi, si stanno sciogliendo.

Orsi polari, foche e balene non avranno più i loro banchi ghiacciati. La superficie solida si scioglierà costringendoli a stare a galla o a contendersi  a morsi  le superfici superstiti. Su quelle zattere improvvisate vedranno la deriva delle loro abitazioni inghiottite dal mare.

 

Sulla terra le cose non saranno migliori.

Alluvioni si alterneranno alla siccità, i tornadi saranno sempre più potenti, il Sole malato  incendierà la Terra con i suoi bagliori di fuoco, non più protetti dalla coperta  di ozono.

Apocalisse?

Purtroppo no.

Realtà.

Perché il futuro è qui. E’ adesso.

 

Ma le notizie sull’agonia del nostro pianeta non bastano, con la loro evidenza, a far virare la coscienza dell’uomo.

L’ultima riunione scientifica mondiale, pochi mesi fa,  ha sfornato dati allarmanti, per due giorni televisioni e giornali hanno diffuso le notizie sui disastri imminenti (non ultimo quello relativo all’oro blu, alla carenza di acqua la cui minaccia avanza irrimediabilmente).

Ma il giornale si butta via, la televisione si spegne, l’inerzia del  quotidiano fatto di allegri consumi ci riporta al nostro beato menefreghismo.

In più, questi giorni ho visto persone aggirarsi contente e abbronzate. Tutte scosciate, con l’ombelichino di fuori,  esibivano i loro infradito nuovi di zecca.

 

Ah, finalmente, non sopportavo  il freddo (ma quale?)

Che bello, è già estate!

Magari domani vado al mare.

Ma che giornata stupenda!

 

Giornata stupenda?

Sarò una Cassandra fuori dal coro, ma ho paura.

Sono inquieta, come i miei gatti che di notte si lamentano senza trovare riposo, fiutando incerti questa strana atmosfera.

Sento che la Terra sta morendo.

Ne avverto gli spasmi, le ultime richieste febbrili.

Le  margherite sbocciate a febbraio mi stringevano il cuore. Stavano lì, poveri fiorellini in cerca dell’abbraccio del sole, ignari della loro temeraria presenza, del loro fragile aprirsi a un inverno capace, con una gelata improvvisa, di spezzarne il profumo.

Soffro per ogni uccello che perde il senso della sua migrazione.

Per ogni rondine scomparsa.
Per ogni pianta ingannata dagli scherzi di una stagione impazzita.

Assisto alle mutazioni di un tempo senza più bussola e direzione.

Non basta un protocollo a Kyoto.

Non bastano le buone intenzioni.

La boa è stata doppiata, il punto di non ritorno raggiunto.

Possiamo solo attenuare i danni, se ne siamo ancora capaci.

Il futuro è già qui. Adesso.

Sta nelle nostre mani.

Gli indiani d’America non aravano la terra che doveva rimanere vergine, inviolata.

Solo noi ne abbiamo fatto un luogo di abusi.

C’è un libro uscito una decina d’anni fa, Ishmael, di Daniel Quinn, che nella sua struttura fiabesca racconta di un gorilla-guru che istruisce un allievo sul destino di un’umanità destinata a precipitare. Perché Caino non smette di uccidere Abele, perché l’uomo pensa che la Terra sia stata creata da lui. Il libro ha ispirato Instinct, film bellissimo, dolente, in cui si narra dei “lascia” – le antiche civiltà agricole e dei “prendi” – gli uomini moderni che tutto saccheggiano, procedendo come cavallette.

Ecco, il “prendi” che è i  noi non ha ancora imparato a mollare. Mollare la presa su una terra agonizzante, assetata, derubata dei suoi frutti.

È nostra madre, la Terra. Lo è non solo simbolicamente.

Se non iniziamo ora, non sarà più possibile cucire le sue ferite.

Dobbiamo imparare a difenderla.

Meglio pensarci sopra, piuttosto che correre spensierati verso una precoce giornata di mare.