The man  who cried è una storia sulla sopravvivenza. Il racconto in parte avviene attraverso la musica: dalle lievi arie tenorili delle opere italiane alle ossessionanti musiche zingare, cariche di ritmo. La musica è un’espressione dell’anima dei popoli, un modo per ricordare chi si è, da dove si proviene. Spero che questo film possa servire come voce per coloro che erano (e sono) costretti al silenzio; per piangere coloro che si sono persi, e per celebrare, gioiosamente, la sopravvivenza di chi è rimasto.

(Sally Potter)

 

 

The man who cried (L’uomo che pianse)  è un film malinconico, suggestivo. Ha il tocco della eccentrica Sally Potter, regista di Orlando (coraggioso tentativo di trasporre cinematograficamente il magnifico libro della Woolf) e di Lezioni di Tango.

Poco apprezzato dalla critica che certamente non lo ha sostenuto, il film  ha avuto un frugale successo al botteghino. Eppure, eppure ci sono in giro vari estimatori, come ho potuto verificare navigando un po’ in giro. Bene, io sono fra questi.

Pur con alcuni limiti (come quello di qualche enfasi melodrammatica, qua e là, che urta con i toni prudenti ancorati alla suggestione delle atmosfere che suggeriscono i fatti ma mai li definiscono), The man who cried è un’opera singolare, impregnata di una struggente quanto delicata tensione.

 

Racconta del riconoscimento di una ferita, la ferita di chi sente diverso, straniero al mondo. E su questa ferita canta la musica, canta come fa la vecchia curandera con le ossa sparse dei lupi, canta per sussurrare all’anima di cercare l’alba ancora una volta.

 

Nella Parigi minacciata dal vento nero del nazismo Susan-Fegerle, la giovane ebrea (interpretata da Cristina Ricci) strappata alle sue radici russe, si specchierà davvero solo nello sguardo intensissimo e  umbratile  di Cesar (Jonnny Depp), lo zingaro che lavora insieme a lei nella compagnia teatrale in cui un arrogante tenore italiano (John Turturro)amico dei salotti e dei poteri, canta le arie di Verdi.

 

Incantevoli le scene notturne di questa Parigi surreale in cui lo zingaro passeggia nel lungo Senna in groppa al suo cavallo bianco, quasi a segnare i fragili confini della materia troppo greve per chi ha grandi ferite.

Due solitudini che si riconoscono finiscono per proteggersi e per difendersi, a ogni costo.

 

Ma non mi va di raccontarvi la storia, vi invito a vederla (e ascoltarla, se avrete l’occasione. la musica è straordinaria):

>>qui trovate il trailer

 

 Le scene del villaggio zingaro inquisito dai nazisti di Hitler ci ricordano come ogni omologazione sia pericolosa, come le etichette facili con cui cataloghiamo popoli e persone sfuggano alla complessità della vita.

 

Le vicende del film sono sempre accompagnate dalla musica: dall’Opera per il pubblico del teatro al falò del villaggio zingaro, dalla lirica intrisa di forza e passione ai canti  gitani tessuti di lune e di notti, il legame fra anima e canto, destino e vita, racconta di come in fondo alla materia ci sia uno spazio in cui la densità lascia spazio alle nuvole, al galleggiare sottile negli interstizi del tempo.

 

Ho sempre amato le musiche dei popoli diversi dal mio. Mi aiutano a spostare i confini più in là, mi aiutano a soffocare di meno quando l’identità nazionale si fa prevaricazione.

L’incontro folgorante, quasi venti anni fa, con l’allora sconosciuto Emir Kusturika e il suo Il tempo dei gitani, ha lasciato una traccia profonda sintetizzata da Ederlezi, di Goran Bregovic.

Intensa, vivida, appuntita come una lama e liquida come un oceano. Ogni volta che mi capita di ascoltarla l’anima mia sconfina verso le geografie delle emozioni più belle, più vicine a una malinconia foriera di un creativo sentire.

 

>>Se volete ascoltarla…

 Sia The man who cried che Il tempo dei gitani godono di una musica intensa che evoca malinconie dolcissime, narra di echi di gente perduta nel tempo e nella storia, di amanti mai ritrovati, di storie appese alla memoria della voce e del canto.

 

 

Forse abbiamo bisogno di meno parole e più canti.