"Ferme te jolis yeux, car tout n’est que mensogne"; e lì cominciarono a sfuggirmi le lacrime che a fatica cercavo di trattenere, perchè la voce gli usciva da quel recinto dell’anima che le persone abituate a fingere e a difendersi tengono ermeticamente chiuso.

(Nuvolosità variabile, Carmen Martìn Gaite)

 

La voce non è sempre uguale. Non è solo suono, parola.

La sua qualità può essere molto, molto diversa. La voce "di testa" è quella che l’uomo usa solitamente per difendersi. Stridula, alta, squillante, non apre il recinto dell’anima, il luogo segreto che accoglie con trepidante pudore suoni e silenzi diversi.

Ma se solo  ci attardiamo un istante, tutti sappiamo riconoscere le volte in cui abbiamo avuto una voce "diversa", una voce che sembrava zampillare da una grotta a noi sconosciuta. Una voce liquida e allo stesso tempo solida come roccia, e profonda, profonda come l’abisso della nostra ignoranza. Calma come il mare dorato del primo mattino.

Quella voce emerge quando smettiamo di difenderci. Difenderci da noi stessi e dal mondo. Allora quel suono vibra all’interno e si riflette all’esterno. Il recinto dell’anima si apre ed ecco che siamo lì, vulnerabili, a battere all’unisono con tutto ciò che ci circonda. E quella voce così misteriosa uscendo sfiora magari qualcuno, e quel qualcuno si accorge della nostra qualità differente. Sa che siamo privi di scudi, sa che abbiamo tolto ogni muro. E che parliamo davvero.

Quante volte parliamo davvero a qualcuno? E quante, invece, azioniamo il pilota automatico del nostro magnifico Io e andiamo avanti così, usando il diesel della nostra attenzione? Mentre in realtà stiamo pensando a noi, solo a noi. Alla nostra immagine, a come è saggio e bello e buono ciò che diciamo. O stupido, magari, e arrogante e affrettato.

Ma sempre, in questi casi, il recinto rimane chiuso.

Palare davvero a qualcuno significa mettersi nudi. Ma subito tremiamo. Abbiamo bisogno della nostra foglia di fico.

La nostra cara, vecchia, foglia di fico…