On line il nuovo numero di Silmarillon.

Il dossier si intitola Racconti in tempo di guerra. Un grazie di cuore ai blogger che come sempre hanno dato un apprezzatissimo contributo, nel reale significato del dono e della condivisione tipico di chi lavora in Rete. 

“L’ira canta, o dea, l’ira di Achille figlio di Peleo, l’ira funesta che ha inflitto agli Achei infiniti dolori, che tante anime forti ha gettato nell’Ade, tanti corpi di eroi ha dato in pasto agli uccelli”.

Già Omero disegnava, nella sua Iliade, il profilo epico dei romanzi di guerra che avrebbero accompagnato l’uomo nei secoli. E tuttavia, tuttavia a quel tempo, il tempo mitico degli eroi al cui fianco bisbigliavano gli dèi, inserendosi nelle sorti delle battaglie, il codice etico riassunto nel valore, nell’onore, nella gloria  (quello stesso codice che si sarebbe sfilacciato fino a spezzarsi per sempre) faceva della guerra una necessità spirituale, in cui la morte diventata la misura della tempra di un’anima. Difficile, a questo punto, frantumare il pensiero che già sorge e, tutto intero, si reca nei luoghi del Medio-Oriente in cui ogni giorno, imbottiti di tritolo, alcuni uomini si guadagnano il paradiso di Allah.

 Ma i tempi sono cambiati. Da sempre fucina di guerre, le religioni  si sono progressivamente accorte del potere di una manipolazione “sottile” in cui ancora oggi si usa il potere spirituale come terreno di applicazione per quello temporale, specie nei paesi integralisti, ma nel “tempo dell’uomo” oggi si fanno i conti un modelli di guerra e di morte in cui all’onore, al valore e alla gloria resta un pallido lembo di spazio. Gli “onori” e i “valori”, oggi, sono solo quelli economici, quelli delle convenienze.

 Ci stiamo però incamminando in un sentiero che porta lontano dal tema delle narrazioni.

Facciamo un passo indietro, e voltiamoci ancora per un attimo verso le mura di Troia, davanti alle quali Ettore e Achille si stanno affrontando in uno degli scontri più avvincenti  mai raccontati.

Già Achille gli era vicino, simile ad Ares, l’audace dio della guerra: alta sulla spalla destra brandiva la lancia terribile; tutto intorno il bronzo splendeva, di un bagliore simile a quello del fuoco che brucia o al sole che sorge”. Eccolo, il racconto di una battaglia. Battaglia personale e allo stesso tempo corale (non c’è nulla senza coro, in Grecia), inaugurata dall’ingresso di Elena nella città in cui un cavallo, che farà entrare l’esercito nemico, abbatterà il regno di Priamo.

 

Achille è “simile ad Ares”. E Ares si sveglia ogni volta che una battaglia divampa nel mondo. Non importa se ieri oppure oggi, il suo archetipo giace nelle profondità di ogni uomo, si insinua nella Storia, perfino quella laica, atea, progressista, da dove fa riecheggiare le urla e la polvere dei secoli che si affacciarono sull’alba del mondo. Tutti gli eserciti hanno il fiato di Ares sul collo, avanzano sulla punta della sua lancia, lasciano a terra il sangue e la carne di cui si ciba, insaziabile.

 

L’Iliade è il primo grande, vero, romanzo di guerra. La guerra va raccontata. Da Omero in poi, la letteratura ne farà il soggetto di molte scritture. Basta pensare alla magnifica architettura di Guerra e pace. Oppure alla prosa più secca, rapida, di Addio alle armi. Se Hemingway è uno scrittore, non molla mai le origini  della sua penna, intinta nell’inchiostro del giornalismo. Ed è il giornalismo che negli ultimi due secoli ha cercato di raccontare le guerre. Il “senso della notizia” si è fatto carne, molte volte, avvicinandosi agli uomini, scavando nelle loro storie ordinarie, quelle stesse storie che rischiano di soffocare  in mezzo ai  bollettini, ai resoconti dei morti, alla conta degli eserciti e degli armamenti. Non a caso oggi fioriscono i blog dei giornalisti. Perché in questo modo si è più vicini ai lettori, perché il racconto si libera dai bavagli dei “poteri” editoriali e, più leggero, è in grado si sostenere meglio il carico di morte e dolore che pesa su ogni paese incendiato dalle battaglie.

 Nel blog la cronaca fornisce dati in tempo reale e li mette in Rete nel mondo ( battendo spesso, in rapidità, perfino le agenzie di stampa internazionali), ma apre  anche spazi per altre parole, per racconti che forse non vedremo mai seduti davanti ai televisori del nostro comodo salottino occidentale, a sgranocchiare patatine mentre  il servizio sul kamikaze palestinese mostra brandelli di corpi ammassati al centro di un mercato. Racconti che forse non leggeremo mai nei giornali comunque condizionati dalle linee editoriali, malgrado gli sforzi di mantenere la libertà di dire e di scrivere. Una guerra è una guerra, e tuttavia perfino i morti, che dovrebbero essere oggettivati da una numerazione matematica al di là di ogni arbitrio,  soggiacciono ai brogli politici e alle pressioni “sindacali” dei protagonisti di turno. E sopra ogni numero, ogni morto,  è appesa una storia  trafitta dalla lancia di Ares. Ecco, il recupero di quelle storie è oggi affidato anche alle nuove tecnologie, alle fonti di informazione e narrazione rappresentate non solo dai giornalisti ma dai cittadini che vogliono “raccontare” con i blog, i video improvvisati (come quelli che mostrarono, l’11 settembre, il crollo delle due torri), le email.

La guerra è racconto, è tensione infinita, è bilico sul vuoto, sospensione fra due mondi possibili.

Ognuno la narra a modo suo. Nella letteratura, nel cinema, nell’arte.

Può essere rappresentazione cruda, diretta. Difficile dimenticare le scene di Platoon oppure della Lista di Schindler.  Oppure può virare sul simbolo, capace però  di essere altrettanto spietato. La  Guernica di Picasso turba, disarma, incanta nella sua dinamica scomposta di corpi dolenti. Trafigge gli occhi di chi guarda.

 

La guerra è il cuore di tenebra dell’umanità. Il suo racconto non è solo moto di rappresentazione, dovere “di cronaca”. E’ anche tensione misteriosa verso quel luogo in cui Ares frattura le ossa della speranza, quel luogo in cui dormono i sogni di pace, quel luogo in cui l’Ombra ci ricorda che nel grande racconto del mondo non si evade dalla battaglia, dall’odio verso un nemico, dalla conquista brutale di qualcosa e qualcuno.

 

Non c’è vita senza conflitto. Senza attrito. Accettarlo è difficilissimo. Possiamo solo provare a diradare l’Ombra trovando una radura in cui trovare riposo prima e dopo ogni battaglia.

Già, perché nei racconti di guerra non ci sono le guerre ufficiali ma anche le microguerre quotidiane, quelle che assaltano il nostro vivere di cittadini.

Un condominio è un esercito bellico in piccola scala. Nelle riunioni i trattati di pace vengono sempre violati. Invocare la fine delle guerre nel mondo sembra così assurdo, così ridicolo, davanti all’evidenza della nostra  incapacità di trovare un accordo fra  venti persone. La striscia di Gaza in queste riunioni viene sempre invasa, spostata. Così come accade al lavoro. Oppure in mezzo alla strada., nel traffico, dove il casco somiglia all’elmetto che ci protegge dalle aggressioni barbariche, dove l’auto diventa il carro armato su cui procediamo.

Anche queste guerre vanno narrate. Meno epiche di quelle “imponenti”, sono comunque la riproduzione e la copia di ciò che accade nel mondo, nelle guerre “istituzionali”.

In fondo, il  mondo è un gioco continuo  di specchi e  rimandi.

 

 

Achille sfida Ettore, gli Achei avanzano verso i Troiani.

Ogni uomo davanti a un altro, ogni esercito che si fronteggia, incarna l’eterno principio di Ares.

Sul campo si sono schierati, dall’aurora del tempo, princìpi vari che hanno visto sfilare, spesso mescolandosi, l’eroismo e la convenienza, la difesa e la sete di gloria, il coraggio e la vigliaccheria, la verità e la menzogna.

Sempre, però, a bordo campo, Ares impugna la sua lancia.

Non morirà mai. Vedrà invece eserciti farsi cadaveri.

Non si può uccidere Ares. Non ha un tallone vulnerabile come quello di Achille, la sua emanazione terrena.

Si può solo sperare che Afrodite intervenga. E che ne apra il pugno rovesciando sulla polvere l’ansia bellica, la voluttà aggressiva che non conosce battute d’arresto. Solo così Ares si placa.

E anche questo, in fondo, è un racconto.