Visita anche: Editoria e Scrittura | La stanza di Virginia | Silmarillon | Stylos | La mia Istanbul
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Il piacere che lo scrittore prova
è il piacere dei saggi.
Dal non silenzio nasce l’essere;
dal silenzio,
lo scrittore genera una canzone.
In un metro di seta vi è lo spazio infinito;
le parole sono un diluvio
da un piccolo angolo del cuore.
La rete dele immagini, lanciata, si allarga
sempre di più; il pensiero perlustra
sempre più a fondo.
Lo scrittore offre
la fragranza di fiori freschi,
un’abbondanza di germogli che sboccia.
Venti vivaci sollevano le metafore;
nuvole si alzano da una foresta di pennelli.
(Lu Ji, Soddisfazione)
Il poeta-soldato Lu-Ji, condottiero di eserciti ma amante delle parole, allievo di Confucio, regala versi bellissimi nel suo "L’arte della scrittura".
Un ponte verso la saggezza orientale, una strada piena di lumini accesi a segnalare il cammino di un’anima vibrante.
L’enigma dell’universo, la multiforme scoperta delle sensazioni più sottili, la soglia fra parola e respiro diventano ricerca viva, fonte di continua indagine.
Stamani mi sono svegliata con la voglia di attingere a uno di questi versi.
In questo ultimo giorno del 2009 ascolto Gaber. Magnifico, pungente, estremo Gaber.
Ecco il link di una canzone che amo tantissimo, Le cose:
http://www.youtube.com/watch?v=Df6QPPkmaQ0
Mi piace salutare l’anno insieme a lui (mai come quest’anno avremmo avuto bisogno di voci e mente lucide come la sua, ahimé) mentre penso alle cose che devo accettare, a quelle che posso lasciare e a quelle che vorrei cambiare. Una lista di intenzioni che scriverò su carta e in silenzio brucerò stasera, nel saluto della notte.
Niente feste, grazie. A Capodanno amo i silenzi.
O, magari, un po’ di buona musica. Ma quella sussurrata, non quella urlata.
Quella che si percepisce appena, come certe malinconie.
Tutto triste, il camaleonte si rese conto che, per conoscere il suo vero colore, doveva posarsi sul vuoto» (A. Jodorowsky)
Dovremmo tutti posarci sul vuoto, per conoscerci davvero. Invece, come camaleonti, indossiamo i colori adatti alle situazioni; colori spesso sintetici, tessuti artificiali, hig-tec…Lontani, lontanissimi dalla nostra essenza.
E viviamo così, come arlecchini. Come tanti Zelig pronti a modificarsi in base al contesto, come un blob gigantesco che assume ogni forma che incontra.
Giocolieri dell’artificio, maestri della recitazione, artisti del colore edulcorato (un po’ come quegli EC245blabla che troviamo negli edulcoranti), avanziamo senza mai conoscerci veramente.
Forse un giorno, come accade al camaleonte, ci accorgeremo che per vedere davvero chi siamo dobbiamo…saltare nel vuoto. Perdere ogni colore, ogni piuma di pavone e ogni belletto. E’ solo nel vuoto che misureremo la nostra impalpabile essenza. Quella che farà svanire – come in un gioco di magia invertito - tutte le illusioni create. Rimarrà solo una coraggiosa nudità. Senza colori, forse. Ma piena di meravigliose – e terribili – scoperte.
Intanto viviamo, e mangiamo, e facciamo l’amore, e lavoriamo, e alleviamo figli, e diventiamo nonni, e dormiamo, e passeggiamo, e…
Tutti addobbati con i nostri colori di circostanza, come tanti alberelli di natale accesi nelle città.
Alcuni di noi sono più monocromatici, altri amano una moltitudine di colori. Ma la sostanza dell’artificio non cambia.
Come pittori, usiamo i cromatismi che più ci piacciono, o più ci servono. Lo facciamo per difenderci, come il camaleonte, o per piacere, per dominare, per fuggire…
Intanto il vuoto ci aspetta. Ma ci vuole troppo coraggio per fare quel salto.
Prendo spunto dagli ultimi commenti sul post precedente per parlare di un argomento a me carissimo: il cioccolato.
Tentazione, delizia, croce e godimento. Sono una cioccolatara convinta, almeno quanto Nanni Moretti (lo ricordate con la sua immensa Sacher?).
E, come tutti i cioccolatari convinti, ne adoro le declinazioni più classiche (Sacher, Tiramisu, Salame al cioccolato) ma ammicco anche agli esotismi (pasta al cioccolato).
Chiaro: il cioccolato fa bene all’animo. Lo tira su, lo solleva dalle quotidiane tristezze depositandolo su un Olimpo fatto di celestiali sapori.
E chissenefrega dei famosi "brufoli&ciccia": ne vale la pena. Ne vale davvero la pena.
Quell’istante di estasi, di beatitudine è il nostro riscatto.
Libera endorfine, combatte depressione e ansia.
Del resto, quando si pecca, bisogna peccare bene. Lo sa bene chi pranza o cena con me: quando si arriva al dolce, inutile ogni appello a tortine di mele o pere, mousse di crema, crostatine o gelati. Io finisco sempre per scegliere il dolce al cioccolato. Meglio ancora se accompagnato da un mare di panna.
Lo so, sono come quei bambini golosi che pasticciano con le loro manine e si infilano pezzi di cioccolata nel naso.
Ma non me ne vergogno.
E, come dicevo, se bisogna peccare, bisogna peccare "bene". Non vorremmo fare la fine degli ignavi di dantesca memoria? Se si prende il dolce, che dolce sia. E non c’è tentazione più…dolce, appunto, di quelle oasi di cioccolato.
Non aspetto il Natale, per questo.
Pecco spesso, pecco in continuazione.
Finirò nel girone dei cioccolati-dannati.
Sento già le fiamme dell’inferno, che tuttavia squagliano i pezzi di cioccolato rendendolo ancora più cremoso…
E chi è Questo pupo in vestina?
Ma è Adolfino, il figlio dei signori Hitler!
Diventerà forse un dottore in legge
o un tenore dell’opera di Vienna?
Di chi è questa manina, di chi, e gli occhietti, il nasino?
Di chi è il pancino pieno di latte, ancora non si sa:
d’un tipografo, d’un mercante, di un prete?
Dove andranno queste buffe gambette, dove?
Al giardinetto, a scuola, in uffcio, alle nozze
magari con la figlia del sindaco?
bebè, angeluccio, tesoruccio, piccolo raggio,
quando un anno fa veniva al mondo
non mancavano segni nel cielo e sulla terra:
un sole primaverile, gerani alle finestre,
musica d’organetto nel cortile,
un fausto presagio nella carta velina rosa,
prima del parto un sogno profetico della madre:
se sogni un colombo, è una lieta novella
se lo acchiappi, giungerà chi hai a lungo atteso.
Toc toc, chi è, è il cuoricino di Adolfino.
Ciucciotto, pannolino, bavaglio, sonaglio,
il bimbetto, lodando Iddio e toccando ferro, è sano,
somiglia ai genitori, al gattino nel cesto,
ai bambini di tutti gli album di famiglia.
Bè, adesso non piangeremo mica,
il fotografo farà clic sotto la tela nera.
Atelier Klinger, Grabenstrasse Braunau,
e Braunau è una cittadina piccola, ma digniotosa,
ditte solide, vicini dabbene,
profumo di torta e di sapone da bucato.
Non si sentono cani ululare né i passi del destino.
L’insegnante di storia allenta il colletto
e sbadiglia sui quaderni.
(Wislawa Szymborska)
Di sicuro Hitler è stato bambino. Difficile, però, immaginarlo. La Szymborska, come sempre, ci regala parole guizzanti, che pulsano di ironia. Chissà che è successo, a Hitler, da piccolo. Forse gli hanno portato via il giocattolo preferito (doveva essere un bambino scuro scuro, scommetto). O, forse, un ebreo lo ha morso mentre andava sull’altalena.
Qualcosa a un certo punto sio è "inceppato". Ma non ho mai voluto approfondire la sua piscologia. So solo che l’intelligenza può essere luciferina.
E comunque non riesco a immaginarlo, Hitler in erba.
Però è stato un bambino, anche lui. Avrà pianto e strillato e gridato e sorriso. Chissà quando la scintilla nei suoi occhi si è accesa di follia. Ma è accaduto.
A volte sento dire" Ma tutto sommato non era così male, amava i cani". Che idiozia. Come se amare gli animali ci sollevasse dal peso di ogni colpa e di ogni rimorso. Conosco persone stupide, egoiste, arroganti che amano moltissimo i loro compagni a quattro zampe. E anche Hitler, sì, li amava. Molto. Lui, di cani, ne ha avuti tanti intorno. E non erano tutti così pelosi, e nemmeno abbaiavano. Parlavano.