Visita anche: Editoria e Scrittura | La stanza di Virginia | Silmarillon | Stylos | La mia Istanbul
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Molto tempo dopo, davanti al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendìa di sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio.
(Garcia Màrquez, Cent’anni di solitudine)
L’incipit di Cent’anni di solitudine è forse uno dei più belli di tutta la storia della letteratura.
Un attacco fortissimo, che pone il lettore – immediatamente – davanti al dramma di un uomo che sta per morire. E cosa fa quest’uomo? Si ricorda di un espisodio lontano nel tempo. Si ricorda dello stupore provocato dall’incontro con il ghiaccio.
C’è una bellissima poesia di un altro gigante della letteratura, Borges, che si apre sui pensieri di un uomo nell’ultimo istante di vita.
Se l’incipit è così forte, per tutto il resto di un testo (poesia o prosa che sia) bisogna poi riuscire a non deludere il lettore. A mantenere lo stesso tipo di pathos, la stessa forza della prima riga. Non si può scendere dalla vertigine di un livello così altro, dirompente. E per far questo occorre uno straordinario talento. Come quello che animava la loro penna.
E se torniamo per un attimo a quegli ultimi pensieri sulla soglia della morte, con la porta aperta sul vuoto, sul buio che inghiottirà ogni memoria, ci rendiamo conto che forse, per alcuni di noi, potrebbe fiorire – come il loto in uno stagno notturno – una memoria antica, mai sopita, trattenuta in qualche anfratto dove i ricordi giocano a rimpiattino.
Ognuno di noi possiede il ricordo del momento in cui scoprì il suo ghiaccio.
La filosofia moderna, instaurando la superstizione dell’Io, ne ha fatto la molla dei nostri drammi e il perno delle nsotre inquietudini.
A nulla serve rimpiangere il riposo nell’indistinzione, il sogno neutro dell’esistenza senza qualità; ci siamo voluti soggetti, e ogni soggetto è rottura con la quiete dell’Unità .
(E.M.Cioran, La tentazione di esistere)
Cioran. Magnifico. Implacabile. Come un vicolo cieco che spezza la nostra fuga.
Non c’è umiliazione più grande, per l’uomo, della messa in ridicolo del suo Io. Lui lo fa. Da filosofo, da pensatore, da scrittore.
Il suo libro è una vertigine in cui si avverte, continuamente, il tormento dell’assenza. Perché non è affatto detto che una tensione verso l’infinito produca un senso di compimento, o di pace.
E tuttavia da questo tormento, da questa ostile, imgombrante, dolente inquietudine, si accendono, nel silenzio della notte, le piccole stelle del nostro cielo interiore.
Non c’è ricerca senza dolore. Nè movimento senza assenza di quiete.
Lui lo sa. Lo sa fin troppo bene. E combatte questo mondo "unificato nel grossolano e nel terribile". Non dà risposte, però. Grazie a Dio non lo fa.
Il dolore di esistere è tortura comunicata attraverso le parole. Parole arrotate, contudenti, corrosive.
La metafisica è una tensione, una freccia scoccata che non raggiunge mai il suo bersaglio ma che, partita, non tornerà indietro.
Chi cerca conforto non legga Cioran. Mai. Ma chi invece non si spaventa dell’abisso senza risposte, e ricette, può inseguire, nelle pagine, il moto di un’anima tradotta in linguaggio (spesso irriverente, ironico perfino su sè stesso) che non si fa mai certezza eppure sa, sì lo sa, che la sua tentazione di esistere non è davvero di questa Terra.
Sei gradi di separazione è un’ipotesi secondo la quale qualunque persona possa essere collegata a qualunque altra persona attraverso una catena di conoscenze con non più di 5 intermediari. Tale teoria è stata proposta per la prima volta nel 1929 dallo scrittore unghereseFrigyes Karinthy in un racconto breve intitolato Catene.
Negli anni ’50, Ithiel de Sola Pool (MIT) e Manfred Kochen (IBM) cercarono di provare la teoria matematicamente e formularono quindi la domanda (dato un insieme di N persone, quale è la probabilità che ogni membro di N sia connesso ad un altro membro attraverso k1, k2, k3…kn collegamenti?). Persino dopo quasi venti anni di tentativi però, nessuno era ancora riuscito a risolvere il problema in modo soddisfacente.
Nel 1967, il sociologo Americano Stanley Milgram trovò un nuovo sistema per testare la teoria, che egli chiamò "teoria del mondo piccolo". Selezionò casualmente un gruppo di americani del Midwest e chiese loro di mandare un pacchetto ad uno straniero che abitava nel Massachusetts, a diverse migliaia di chilometri di distanza. Ognuno di essi conosceva il nome del destinatario, la sua occupazione, e la zona in cui risiedeva, ma non l’indirizzo preciso. Fu quindi chiesto a ciascuno dei partecipanti all’esperimento di mandare il proprio pacchetto a una persona da loro conosciuta, che a loro giudizio avesse il maggior numero di possibilità di conoscere il destinatario finale. Quella persona avrebbe fatto lo stesso, e così via fino a che il pacchetto non venisse personalmente consegnato al destinatario finale.
I partecipanti si aspettavano che la catena includesse perlomeno un centinaio di intermediari, e invece ci vollero solo (in media) tra i cinque e i sette passaggi per far arrivare il pacchetto. Le scoperte di Milgram furono quindi pubblicate in Psychology Today e da qui nacque la frase dei sei gradi di separazione.
(Enciclopedia Wikipedia)
La teoria dei sei gradi è affascinante. Nel 1993 il regista Frank Schepisi ne ha fatto una commedia brillante, che consigliamo di vedere.
Tutti, più o meno, ci siamo imbattuti nei sei gradi di separazione. Accade spessissimo. Sono i sei gradi a trasformare Roma, ad esempio, da capitale d’Italia a paesino, cittadella in cui ognuno conosce chiunque, in cui ognuno è collegato a un altro tramite impreviste quanto improbabili – eppure reali – catene di persone.
La persona che ci porta la posta è il padre di quel nostro amico d’infanzia, quello pugliese, con la casetta al mare, quello dal quale andavamo tutti i giorni a mangiare pane e salame a merenda. Quello che non volevamo lasciare, ogni settembre, per tornare a Roma. Non lo abbiamo più visto perché a un certo punto non ci siamo più tornati, in Puglia. E dopo trent’anni ecco lì, suo padre, a consegnarci le lettere.
Oppure: la sorella di un tuo amico si è fidanzata e scopri all’improvviso che il suo ragazzo è il cugino della persona con cui lavori, cugino che senti sempre nominare come persona da conoscere assolutamente in virtù di affinità da verificare. Infatti vi voleva presentare da tempo.
E così via.
"Il mondo è piccolo”. “Tutto il mondo è paese”. Anche i detti popolari nascondono, dietro un’apparente banalità, scampoli di antiche saggezze.
Già, perché al di là delle teorie scientifiche esiste, forse, una grande rete in cui alcuni gruppi di personaggi avanzano insieme, più vicini di altri, anche loro uniti da invisibili appartenenze. Questi gruppi sono a loro volta collegati ad altri gruppi, in un gioco concentrico, infinito, come i cerchi di un sassolino lanciato nell’acqua. Magari non si conoscono neanche, i personaggi, eppure sono vicinissimi, collegati da quella rete invisibile che all’improvviso, un giorno, scopre alcune carte e mostra il disegno.
Chissà, forse davvero ci muoviamo tessendo i nostri destini insieme a quelli di altri.
Alcuni personaggi di un gruppo in base alle loro scelte migrano in un altro, si spostano nella grande trama del mondo. Altri rimangono accanto ai loro compagni, visibili e non.
Certo è che non possiamo non stupirci davanti all’evidenza di questi sei gradi. Basta guardare il mondo con occhi attenti e far caso alle piccole coincidenze che a volte lasciano in giro alcune briciole di Pollicino. Peccato che spesso siamo così distratti da perdere l’occasione di seguire i collegamenti, e annodare alcuni di quei fili.
Se lo facessimo, non potremmo continuare a pensare il mondo come a una serie di individui “isolati” e casuali.
I sei gradi, ogni tanto, ce lo ricordano.
Bravissimo, Fazio. Nessun dubbio.
Peccato però che inviti quasi sempre i suoi preferiti, trasformando le interviste in duetti a volte troppo ossequiosi, compiacenti, smielati.
Infatti domenica scorsa, dopo aver fatto la sua intervista politically correct allo scrittore ebreo David Grossmann, ha lanciato un appello a Celentano invitandolo nel suo studio, a sedersi sulla poltrona che a fine trasmissione viene regolarmente invasa da quella peste della Littizzetto che ci si arrampica come un babbuino.
Quando la bella Filippa (cognome?), statuina video-igienica ma di significato pulviscolare all’interno della trasmissione, ha domandato lumi su quell’invito, Fazio ha risposto, scherzoso, che lui invita solo “quelli che gli piacciono”.
Scherzoso fino a un certo punto, però…
Che tempo che fa è una trasmissione intelligente. Nessun dubbio. Sicuramente Fazio, insieme alla Bignardi, è il più bravo intervistatore attualmente intercettabile sul piccolo schermo.
Ma mentre la Bignardi, strega, inchioda con un sorrisetto smaliziato il suo intervistato di turno (ed è davvero in gamba), non esita a diventare “scorrect” se necessario (come quando, poco tempo fa, il salotto diventò un’arena in cui lei e la Palombelli si scornarono a suon di malcelate insofferenze reciproche). Fa finta di improvvisare, la Bignardi. In realtà sa bene, sa benissimo, dove sta andando a parare…
Unico neo: al di là delle interviste barbariche la trasmissione non è così incisiva, i brevi spazi di discussione non decollano mai veramente (sono un po’, questi spazi, come la sigaretta che a tavola riempie il buco tra il primo e il secondo).
Ma torniamo a Fazio.
Sì, ci piacerebbe vederlo più sfilacciato. Lui è simpaticissimo, brillante, ironico. Ma non si “sbottona” mai, a parte quando, nel duetto finale con la Littizzetto, finge imbarazzi e rossori.
La Littizzetto, invece, si sbottona anche troppo. E per fortuna.
Tra una risata e una parolaccia, nelle sue battute infila riflessioni corrosive, pungenti.
Come quando, sempre nell’ultima puntata, ironizzava sul menefreghismo che regolarmente accompagna gli scandali sollevati da Report, sempre documentati con certosina perizia. Ma che, l’indomani, finiscono nel dimenticatoio davanti alle caciare dei naufraghi di Simona Ventura o ai maghetti di Striscia.
A questo punto, però, ci piacerebbe che qualche intervista "cazzuta" e scorretta fosse realizzata da lei.
Magari proprio a Ratzinger, perché no?
La morte è forse l’unica vera democrazia possibile. Davanti a lei, nel momento del passaggio, siamo davvero tutti uguali. Tutti.
Peccato che oggi venga vista come un affronto al delirio onnipotente dell’uomo. Vero, l’eternità ha da sempre rappresentato una suggestione, però fino a qualche tempo fa la morte veniva accettata come evento ineluttabile. Passaggio verso un’altra dimensione, possibilità per la Vita stessa di essere, di accadere, di precipitare nello spazio e nel tempo.
Oggi invece viene combattuta, osteggiata, rinchiusa come un segreto indicibile dove nessuno lo può ascoltare.
Poveri vecchi, costretti a campare a ogni costo fino all’ultimo estremo possibile. Tirati indietro per i capelli, infilati nei tubi, imbottiti di medicine, di anestetici, defibrillati. Operati con quell"accanimento terapeutico" spacciato per amore di vita.
Se la vita la si ama davvero, la si lascia andare.
Non è disdicevole, morire.
Non è un peccato.
Né qualcosa di cui vergognarsi.
Soprattutto, dovremmo piantarla di cercare di prolungare all’infinito la nostra esistenza. Mai secolo fu più ostile alla morte dell’alba di questo millennio.
Pur di vincerla si lasciano in vita cadaveri, si prolunga il calvario dei vecchi che devono vivere, devono farlo per noi, per il conforto del nostro egoismo.
Ci vuole coraggio, certo. Ma come è bella – e naturale – l’immagine del vecchio indiano a capo di una tribù, seduto sotto un albero in attesa. Perché quello "è un buon giorno per morire".
E nessuno viene a imporgli una flebo. O gli mette il defibrillatore sul cuore.