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Francesca Pacini
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La mia Istanbul

Viaggio di una donna occidentale attraverso la Porta d'Oriente

 

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LA FAMIGLIA ALLAGATA

Dettagli
Pubblicato: 02 Ottobre 2006

 

 

 

 

 

 

La famiglia allagata. Non è un refuso. È  la condizione attuale della  modernissima famiglia allargata. Siamo arrivati a toccare i minimi storici della decenza. Ci siamo arrivati davvero. Ci siamo arrivati dopo le rivendicazioni delle coppie gay (liberissime di amarsi, per carità, è un diritto che spetta loro; ma un figlio è un altro paio di maniche…il mammo o la babba  in tandem possono causare smottamenti in un bambino - e non c’è bisogno di scomodare Lapalisse Crepet per capirlo –  dopo le nonne ultrasessantenni che partoriscono il figlio degli antenati, dopo i figli surgelati in cubetti, dopo le banche del seme autenticato, dopo le famiglie degli ex che più ex non si può (affittiamo un caravan?), il peggio era ancora in agguato. Ma ci siamo impegnati e ce l’abbiamo fatta, a superare quella linea, già fragilissima. Ce l’abbiamo fatta.

 Lo scopri sfogliando un giornale in cui ti imbatti nell’articolo che parla di Jennie Withers, splendida quarantunenne inglese che decide pubblicamente di cercare un socio in affari. Fin qui, nulla di strano. Ma indovina, indovina qual è l’affare in questione? Un prodotto all’ultima moda, un bene di consumo di prima necessità. Un bambino.

 

Contentissima della sua geniale trovata, sull’Observer Magazine lei cerca il socio-papà per fare l’affare del secolo. Lancia l’offerta. Prego, avanti il migliore.

In fondo Jennie sa cucinare, ha finito l’analisi senza strozzare sua madre, ha chiuso con le storielle veloci veloci e con quelle, lunghe lunghe, agonizzanti.

Insomma, ora si vuole bene, si è “ricostruita”, ha un lavoro, le stanno simpatici i bambini e ha deciso che deve essere mamma. Perché no?

“Mi piacerebbe essere incinta di qui a un anno. Amo tenere i bambini fra le braccia, annusarli (beh, auguriamoci che non sia una feticista alla Suskind). Domenica mattina ero al bar con un’amica e ci siamo dette: “Non può essere così difficile, no?”.

No che non è difficile, cara la mia Jennie. Ma non ti accontenti, vuoi addirittura il socio: “Credo che  un figlio debba essere una joint venture, quindi non voglio ricorrere a un donatore”. Parole tue.

Beh, il marketing aziendale in famiglia finora si era fermato ai conti della spesa, non avevamo mai pensato…alla fornitura, alla produzione “in casa”, con il controllo della materia prima affidato a una società, non a una ditta individuale (come quella delle single si stanno battendo per le adozioni).

Non interessa, a Jenny, che sia gay oppure etero, libero o in coppia (della serie ndo cojo cojo…). L’importante è che dia un supporto finanziario “e abiti nei paraggi”.

Possiamo anche stare tranquilli perché si farà supportare dallo psicoterapeuta in questa avventura da Telefono Azzurro.

Ma siamo matti?? Piantiamola con la certificazione sociale dell’egoismo. I bambini sono doveri, non sono diritti. La famiglia nucleare – oggi praticamente smantellata – non era una bomba a orologeria ma un luogo, pieno di difetti e contraddizioni, che cementava i legami, dava valori, forniva una bussola.

E va bene, va bene modificare i costumi (o meglio, i consumi) ma c’è un limite. C’è un limite a tutto.

Spero che la tua società non finisca quotata in borsa, cara Jennie. Anzi, spero che il notaio il giorno della stipulazione scappi sul Kilimangiaro con la sua amante. Che il tuo socio trovi una società più salutare. Che il tuo psicologo vada in terapia. Spero, cara Jennie, che tu ti renda conto di aver ricostruito te stessa senza aver prima smantellato bene le vecchie fondamenta. Quelle su cui poggia il tuo robusto egoismo.

 

 

 

PAROLA DI ALDA

Dettagli
Pubblicato: 30 Settembre 2006

 

 

I nostri grandi amori. Oggi non ne esistono più, si è persa la favola. Telefonini, computer, sms. Mi trovi uno che scriva ancora lettere alla fidanzata, se ne è capace. Gli italiani sono sempre più cretini, malati di padreternismo, egoisti e primitivi. Mi era rimasto Berlusconi, l’unico che mi facesse ridere in un paese che non ride più.

Con la sua caduta è morto l’ultimo pagliaccio d’Italia, aveva una stupidità che incanta.

(Alda Merini, intervista, La Repubblica del 27 agosto 2006)

IO SO

Dettagli
Pubblicato: 26 Settembre 2006

 

 

 

 

Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato "golpe" (e che in realtà è una serie di "golpe" istituitasi a sistema di protezione del potere).

Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 16 dicembre 1969.

Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974.

Io so i nomi del "vertice" che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di "golpe", sia i neofascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli "ignoti autori materiali delle stragi più recenti.

Io so i nomi di coloro che, tra una Messa e l’altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l’organizzazione di un potenziale colpo di stato) a giovani neofascisti, anzi neonazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine a criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione, antifascista).

Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro a dei personaggi comici come quel generale della Forestale che operava, alquanto operittisticamente, a Città Ducale (mentre i boschi italiani bruciavano), o a dei personaggi grigi e puramente organizzativi come il generale Miceli.

Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le sucide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killer e sicari.

Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli.

Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.

Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica la dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero.

(Pier Paolo Pasolini, estratto dall’intervento sul Corriere della Sera, 14 novembre 1974)

 


Anche qui, poco da aggiungere. Impossibile non trattenere quel brivido che corre lungo la spina dorsale. Perché di spina dorsale, di midollo, ne aveva da vendere, Pasolini.

E perché la sua  "disperata vitalità" gli permetteva anche, oltre alla vita dissennata con la quale si giocava a dadi l’indomani, di scavare, incidere, di graffiare.

In un periodo di Tronchetti Provera (o di Troncato Provera, come recitava in prima pagina, alcuni giorni fa, il brillante – e imbattibile – titolista del Manifesto) e di Prodini stappati, analcolici, il fuoco di Pasolini, a distanza di tanto tempo, è ancora capace di appiccare incendi.

Davanti ai politicanti e ai servetti di questi politicanti, davanti a quegli scardinati  intellettuali da Costanzo Show (ora relegato al pomeriggio, se Dio vuole), a quei giornalisti impomatati dell’Italietta che non tramonta mai,  l’Italia dei compromessi, degli inciuci, degli anelli di potere, delle servette e dei voltagabbana di circostanza, il vuoto lasciato da Pasolini assume le proporzioni di una galassia.

Se ne è andata l’intelligenza, con lui. Andato via anche il gusto per l’investigazione in cui bisogna sporcarsi  le mani, in cui scrivere libri non basta perché sei chiamato a  capire cosa succede intorno a te, fuori dal tuo narcisistico fazzoletto di fama.

Per lui l’intellettuale era in prima linea, sempre. Viveva al fronte, ogni giorno.
E oggi? Oggi, di quell’intellettuale vibrante, vitale, non è rimasta traccia.

La lungimiranza di Pasolini ci avrebbe regalato ben altro che libri. Ma il suo sguardo ha smesso di guardare anche per noi, e di parlare dicendo le cose che avremmo voluto dire, pensare.

É successo una notte di trent’anni fa, all’idroscalo di Ostia. La sua voce ha taciuto per sempre, annegata in un mare di sangue.

 E c’è qualcuno, ancora oggi, che sa. Che sa. Ma non parla.

LETTERA A UNA GUERRA MAI MORTA

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Pubblicato: 23 Settembre 2006

 

 

Non c’è bisogno d’esser nazisti per diventare assassini: in nome della democrazia, del cristianesimo, della libertà, si massacra bene quanto in nome del "grande Reich". E se il processo di Norimberga fu un processo legale dovremmo rifarlo: al banco degli accusati mettendo stavolta quei bravi ragazzi, quei bravi genreali che davan l’ordine di non lasciar viva neanche una gallina (si riferisce agli ordini militari nei villaggi Vietcong, n.d.r.).

 

E tuttavia, tuttavia, il discorso da fare non è sugli americani, è sugli uomini. Sulla guerra e sugli uomini. Sui vari tenenti Calley e sulle loro medaglie di bronzo, sulla loro coscienza intatta.

 

Sui vari Varnado Simpson, Charles West, Michael Terry, ora bianchi ora neri ora gialli ora pentiti ora non pentiti ma sempre descritti come persone perbene, normalissime, miti, figli rispettosi, padri affettusoi, questi mostri che nons anno d’esser mostri, e al collo portano le crocettine, le medagliette con la Madonna, in tasca portano le fotografie dei parenti, e se ci parli a quattr’occhi ti rubano il cuore, ti dimostrano d’avere sani ideali, e poi una bella mattina di marzo, una mattina di sole, salgono su un elicottero coi loro sani ideali, le loro magliette, le loro crocettine, la loro presunzione di civiltà, e fanno ciò che hanno fatto perchè "tali eran gli ordini".

É il discorso che fo in questo libro. Questo libro che spiega My Lai. Perché quasi niente quanto la guerra, e niente quanto una guerra ingiusta, frantuma la diginità dell’uomo

(Oriana Fallaci, introduzione al libro Niente e così sia)

 

 

 

Non c’è molto altro da aggiungere. C’è solo tanta malinconia per un certo tipo di giornalismo oggi sempre più raro. Un giornalismo, quello della Fallaci "vecchia maniera" (che era anche la più brillante, a nostro avviso) capace di scheggiare le pagine della Storia, di incidere i luoghi comuni, le credenze, insinuandovi il brivido del sospetto. Sospetto che le nostre certezze siano sbagliate, e che la Storia sia riposta nelle mani di un falsario abilissimo.

 

 

Se il sonno della ragione genera mostri, come diceva Goya, il sonno dei mostri non sveglia – a volte – la ragione…

 

GENI E METAMORFOSI

Dettagli
Pubblicato: 21 Settembre 2006

 

 

 

 

Photo: Horst Tappe/Archive Photos

 

“Un mattino, al risveglio da sonni inquieti, Gregor Samsa si trovò trasformato in  un enorme  insetto”.

Un incipit lapidario, cupo, quello con cui Kafka apre La metamorfosi.

Un attacco di una forza tale da esigere lo stesso livello di tensione per tutta la storia. Il genio di Kafka ci riuscì.

Ci fu un altro genio, Nabokov, che si occupò del talento narrativo di Kafka.

Quando un maestro si occupa di un altro maestro nascono fuochi d’artificio che esplodono in cielo.

 

Il rigore investigativo di Nabokov gli fece varcare  la soglia labirintica dell’anima di Kafka, penetrandone segreti, scarti, allusioni.

In Lezioni di letteratura lo scrittore russo che scandalizzò il mondo con la sua Lolita descrive la stanza in cui il povero Gregor combatte la sua battaglia già persa in partenza, alle prese con una famiglia che non lo riconosce più.

Secondo Nabokov, eccellente entomologo, non si tratta di uno scarafaggio ma di un coleottero (lo scarafaggio è piatto, dice, mentre Gregor non lo è affatto).

 

Dunque il povero Gregor Samsa è un coleottero disperato che pesa sul mondo, più greve della sua gravità. Tutti i lettori ricordano, con un moto di raccapriccio, la scena in cui sua moglie gli tira una mela che finisce conficcata nel dorso.

 

Ma Nabokov non si limita alle indagini metaforiche, si spinge oltre e ci regala commenti che sono spunti di riflessione su cui meditare a lungo:

“Curiosamente, Gregor coleottero non s’accorge mai di avere delle ali sotto il solido rivestimento del suo dorso. (È da parte mia un’osservazione molto sottile di cui dovreste far tesoro tutta la vita. Certi Gregor, certi Mario e Maria non sanno di avere le ali”).

 

Anche noi, appesantiti dall’esistenza, a volte dimentichiamo le nostre ali. Ma per quanto sbattute, agitate furiosamente mentre arranchiamo in mezzo al dolore, sono sempre là…

 

 

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