Visita anche: Editoria e Scrittura | La stanza di Virginia | Silmarillon | Stylos | La mia Istanbul
Visita anche: Editoria e Scrittura | La stanza di Virginia | Silmarillon | Stylos | La mia Istanbul
Che cosa significa anima e cozze? Non è il nome di un ristorante, e neppure un bar. (Acqua).
É invece una sorta di sintesi di un modo di essere e sentire la vita. Un manifesto programmatico, una fenomenologia della realtà, una percezione dell’essere. (Fuoco).
Perché anima e cozze? Con anima si intende tutto ciò che ha un respiro sottile, spirituale. Che ha a che fare con l’"insostenibile leggerezza dell’essere", per dirla con Kundera.
Anima è silenzio, solitudine, respiro del cuore che ascolta sé stesso, vuoto pieno dell’esistenza, brivido infinito della cessazione di ogni movimento.
L’anima delle cose è il centro del mondo, che dovrebbe poi coincidere con il nostro stesso centro.
Insomma, nell’anima si distende ogni cielo, si compie ogni ciclo.
Con il termine cozze, invece, riassumiamo tutto ciò che ha a che fare con il lato più materiale della vita.
É metafora del godimento (l’impepata di cozze rappresenta una sfida per il fegato ma un oasi per il palato), voglia di avventura a ogni latitudine di questo mondo. Le cozze formano un gruppo, un gruppo coeso tenacemente attaccato alla vita. Amano stare vicine, hanno il sapore salato del mare che conferisce gusto alla vita.
Insomma, anima e cozze, espressione coniata dalla scrivente in un giorno qualunque di un anno qualunque, riassume due modi di essere opposti eppure complementari, legando l’uomo sia alla terra che al cielo.
Quando c’è solo anima l’uomo rischia di perdere il radicamento al terreno. Per salire in alto, come i rami di un albero, bisogna avere radici ben salde o ci si spezza.
Alcuni individui inclinano particolarmente verso l’anima. Fra questi incrociamo i santi, i poeti, gli eroi pazzi delle battaglie invisibili.
Quando ci sono solo le… cozze, l’uomo assapora l’esperienza del mondo. La sua fame di vita lo porta a contatto con le occasioni sociali, mondane. Di ogni cosa vuole sentire il gusto, annusare il profumo, osservare i colori, udire i suoni…Sogna romantici scudi stellari sotto il cui ombrello vivere le sfumature dei sentimenti, ascolta concerti insieme agli amici con cui scambia frammenti di esistenza, mangia in ristoranti dove può ridere, e parlare, insieme agli altri.
Se lasciato da solo, "l’uomo cozza" va in tilt perchè è abituato al mondo dei sensi, alla compagnia gaia e rumorosa di amici e fidanzate, al passaggio concreto su una terra che offre esperienze, stimoli, appagamenti e inquietudini fatte di carne.
Più poroso, il mondo delle cozze, rispetto alla levigata quanto effimera dimensione eterea dell’anima.
Stesso disorientamento per "l’uomo anima" costretto a sperimentare gli attriti di questo mondo, a sporcarsi le mani con i sentimenti, gli amori, gli affanni.
Poi ci sono gli uomini "anima e cozze", come la sottoscritta. Esseri in bilico sui due mondi, che sperimentano orizzontalità e verticalità perdendo sempre l’ago della loro bussola non appena sostano troppo a lungo in una delle due dimensioni.
Ma in fondo ogni l’uomo è anima e cozze. Ha bisogno di pieni e di vuoti, di visibile e di invisibile. Poi, certo, siamo tutti diversi e, come per i sogni, ognuno possiede la chiave per decifrare i codici della sua vita.
Però prima o poi tutti ci imbattiamo in quello che, per sintesi e comodità, abbiamo battezzato anima e cozze. Accade quando ci rendiamo conto che la vita è meravigliosa nelle sue promesse rinnovate ogni mattino, e perfino nelle ansie che le accompagnano, ma che l’esperienza della materia ha i suoi limiti, che le compagnie e gli scambi e i viaggi e le scoperte e gli amori non bastano. E non bastano neppure i libri e le pur sconfinate distese dell’intelletto.
C’è qualcosa che ha un nome più antico, e ci chiama da sempre. Accade un po’ come per La donna che cercava il suo cuore pubblicato nel primo numero di Silmarillon (www.silmarillon.it).
Alcuni scrittori, come Virginia Woolf, ne hanno sentito il potente richiamo, e ne hanno pagato il prezzo.
Ma ne vale la pena.
Sempre ricordando che è proprio in quell’ anima e cozze che forse viviamo la nostra dimensione più completa (anche se non facile da "gestire").
Ovviamente una visione più monocromatica dona sicurezza e stabilità. Ma, come abbiamo detto in vari post, facciamo parte di quelli che accettano gli effetti collaterali, tra cui magari – a volte – le notti insonni, per osservare e vivere il mondo tutto intero, come se fosse il caleidoscopio che ci incantava da piccoli facendoci diventare, in quei dettagli colorati, tanti e nessuno. O uno, nessuno e centomila, come scrisse qualcuno.
Visto che ancora siamo in clima estivo, proseguiamo un po’ il viaggio nelle demenze che, purtroppo, non hanno comunque stagione.
Ieri sera mi sono imbattuta in una puntata replica di Bisturi- nessuno è perfetto in onda, verso le undici di sera, su Italia 1. Me l’ero persa, il programma, ma stavolta ci ho inciampato con il telecomando e…mi sono fatta parecchio male.
Conduce Irene Pivetti, sì, l’Irene nazionale, quella delle fasi estreme, prima inamidata esponente cattolico-chierichetta votante Lega, guida inappuntabile del Parlamento, dove esibiva i suoi tailleurini così stirati da camminare da soli, o meglio in compagnia dei suoi leggendari folaurds copri-collo (portati un po’ come i burka), poi, dopo l’incontro con Costanzo, il demiurgo mediatico che mette in rotazione l’universo femminile plasmando i suoi modelli (il più riuscito pare rimanga la De Filippi),.oplà, ecco una Pivetti "moderna" in versione sado-maso, capello cortissimo e vestini sexy di pelle nera.
Accanto a lei, la "velona" Platinette a farle da spalla (Platinette, un altro abominio mediatico sempre uscito dalle rotazioni cosmiche del demiurgo Costanzo che, ahimè, forgia i modelli televisivi che "fanno scuola" e rincretiniscono il già demenziale livello televisivo).
Fin qui, "ci può stare", come si dice oggi in gergo. In fondo, sono due travestiti (da Costanzo, appunto) si sono incontrati per formare la coppia della trasmissione. Tra l’altro nessuno dei due è veramente imbecille, solo che hanno trovato di tutto…tranne sé stessi (da qui le metamorfosi e gli aggiustamenti congeniali, guarda caso, ai meccanismi mediatici). A ciascuno il suo, come diceva Sciascia.
Il punto è che Bisturi è l’ennesimo programma spazzatura che stavolta, però, supera ogni confine della decenza (sì, insomma, a forza di spostarlo, questo confine, sempre più in là, si è arrivati a un punto di non ritorno, come la spaccatura dei continenti, tanti anni fa, e Bisturi lo ha valicato).
In sostanza, si trattta di persone che si offrono al voyeurismo della telecamera e, con il portafogli della televisione, si fanno operare per eliminare i loro "difetti". Orecchie da Dumbo? Nessun problema, ecco il chirurgo estetico che ci "mette una pezza" e ti rinnova i lobi. Seno cascante? Voilà, ecco due siluri che puntano dritto verso le stelle sollevandosi dalla gravità.
C’è una tizia, ad esempio, che non riesce proprio a vivere con il suo naso (a tal proposito vi ricordate di Pirandello, a proposito, in Uno nessuno e centomila?). Un naso che, a mio avviso, è tutt’altro che indecente. Forse non è un rettilineo perfetto, forse si inclina un po’ verso destra, e c’è una leggera gobba …ma nulla che la faccia sembrare la strega di Biancaneve, perdio.
Ma quel naso, in un mondo di perfetti, le impedisce di vivere, a quanto pare. Per fortuna c’è Bisturi a restituirle la gioia dell’esistenza. Il chirurgo nota perfino una eccessiva protuberanza del mento (se lo dice lui…) che la fa sembrare, parole sue, "nonna Abelarda" (così se già si sentiva a disagio a quel punto pensa di essere davvero una deformazione della natura).
Insomma, poi arriva il lieto fine. Ci sono le riprese dell’operazione, e poi eccola, la "nuova lei", a fare il suo ingresso in trasmissione, tutta conciata dai parrucchieri e dal chirurgo plastico. In effetti è trasfigurata, ma non ha nulla a che vedere con Cristo sul Monte Tabor.
Ha perso…sé stessa. Adesso sì, è una perfetta anonima, con il nasino "giusto", cioè uguale all’idea che abbiamo di come dovrebbe essere un naso, e il mento che si è ritirato.
E tutti commossi, il fidanzato che si trova davanti praticamente a un’aliena (cambiare naso modifica completamente l’assetto facciale, non è come mettersi un paio di lenti colorate…) e se la stritola, tutto felice che la sua cozza sia diventata finalmente una principessa, il pubblico che applaude a tale scempio, le due "travestite" che si congratulano con la sciagurata.
Mah.
Poi arriva Lorena Forteza (o Fortaleza, non ricordo bene), sì, quella che ne Il ciclone snacchera a tutto spiano sopra il tavolo facendo sbavare Leonardo Pieraccioni, che dopo una depressione ha messo su qualche chilo.
Anche lei si rivolge a Bisturi che la rimette in sesto dopo due settimane in un centro benessere, sotto gli occhi di mamma che assiste felice allo sciolgimento dei cumuli di cellulite.
Poi a un certo punto è il turno di un signore che si sentiva il dottor Spock e quindi voleva tranciarsi un pezzo di orecchio…
A quel punto, nauseata, cambio canale.
In pratica la De Filippi, con i suoi programmi, al confronto è una santa (Santa Maria, non suona neanche male…). In fondo fa ballare e cantare i ragazzi, il pomeriggio nel suo studio alcuni giovani fanno finta di corteggiarsi, il sabato sera uomini e donne in colpa si contattano a colpi di posta…
Ma qui si tratta davvero di perversione allo stato puro. Ma come cavolo si fa a inneggiare al chirurgo e costrurici sopra una trasmissione? Non bastavano le modelle anoressiche, la mummificazione della faccia con il botulino, le donne strafiche che guidano automobili negli spot pubblicitari, i "No martini no party"…
Adesso la chirurgia plastica è sdoganata addirittura dai programmi televisivi. Poco importa se oggi le adolescenti invece del motorino sognano di cambiarsi le tette. Vi rivcordate i ragazzi del muretto? Oggi sono diventati i ragazzi del silicone.
E ci si mettono pure i programmi televisivi…
Nopn c’è limite allo schifo di una società che ti inivita ad apparire, smantellando ogni resistenza dlell’essere.
A volte, però, si producono fenomeni ilari a riscatto di una celeste giutizia.
Conosco una tizia che si è rifatta le orecchie a sventola e ha taciuto il piccolo intervento anatomico al suo consorte. Solo che i tre figli…sono concorrenti di Dumbo.
Chissà se l’imbarazzata moglie ha spiegato al consorte la provenienza di quelle orecchie "importanti"?
Dovremmo solo imparare ad accettare la bellissima imperfezione che governa la vita, invece di scegliere una vita da lobotomizzati. Il bisturi vero, che nessuno vede ma che impera ovunque, è quello che recide l’intelligenza alla base.
Difendiamoci.
Cara Pivetti e Platinette, contente dei ritocchi del vostro Costanzo, mi fate venire in mente i replicanti di Blade Runner. E infatti, a volte, è proprio così:
Ho visto cose che voi umani neppure riuscite a immaginare…
p.s. questo post è scritto in Arial perché Il Mulino ha deciso di adottare questo font d’ora in poi…
A questo punto, per chi non lo sa, spieghiamo che Il Mulino di Amleto è il blog "ufficiale" dello Studio Stylos, che si occupa di editoria, giornalismo e comunicazione.
Perché un blog? Perché la sottoscritta è una giornalista (o una giornalaia, forse) e si occupa da tanti anni di libri e cultura, combattendo perchè possa fiorire anche in un contesto gaio, poco pretenzioso (vedi il post "Spocchie" su "Idiosincrasie"), fatto di cuore oltre che di cervello. Bella impresa.
Senza gli -ismi diventa difficile ma anche più stimolante. Gli ambienti letterari, colti, eruditi, sono spesso afflitti da intellettualizzazioni egocentriche e narcisiste che rendono difficile l’esercizio della riflessione, dello stimolo pronto a cercare di captare la realtà che ci circonda, favorendo i tormentoni estivi e le altre demenze di cui spesso parliamo nei post.
Per questo è nata anche la rivista on line Silmarillon (la trovate alla voce www.stylos.it oppure andando direttamente su www.silmarillon.it), che ospiterà alcuni di questi post adatti a essere traslocati nelle rubriche.
Sì, esatto! Ci stiamo facendo bieca pubblicità. Consigli per gli acquisti. Tanto Silmarillon non costa nulla. É gratis. E scaricabile in Pdf dal computer.
Costa tanto, invece, provare a fare riviste on line che sfidano i luoghi comuni delle famiglie ideologiche (religiose, culturali, laiche, metropolitane, politiche, ecc…) cercando di unire…Amleto a un mulino.
Per farlo si percorrono le Vie dei Canti. Ognuno ha la sua, e ogni volta che ne incrocia un’altra è possibile arricchire il proprio canto.
Già, occorre una Via dei Canti per unire Amleto al mulino. Ma è possibile. Più si viaggia più si scopre che dietro la caleidoscopica complessità dell’esistenza si cela un grande disegno comune, in qualche modo a-temporale.
Ma non lo diremo mai con la stessa bellezza del genio irripetibile di Borges:
"Come ben sapete, ho viaggiato molto. Il che mi ha permesso di comprovare l’affermazione che il viaggio è più o meno illusorio, che non c’è nulla di nuovo sotto il sole, che tutto è una sola cosa e sempre la stessa, eccetera, ma anche, paradossalmente, che è infondata la sfiducia di trovare sorprese e cose nuove: in realtà il mondo è inesauribile".
(Borges, "Teologia", in Racconti brevi e straordinari)
Alcuni di voi conoscono sicuramente Le Vie dei Canti, il libro dello scrittore inglese Bruce Chatwin. Narra della mappa aborigena australiana, fondata sul "canto" con cui, nel mito aborigeno della creazione, tutte le cose ricevettero la vita: la vegetazione, gli animali, i cieli, la terra…
Le Vie dei Canti, o songlines, sono un percorso sacro in cui i luoghi australiani sono anima-ti attraverso il suono della creazione. Un percorso magico che collega l’uomo alla sua natura spirituale.
Chatwin viaggiò in Australia, e in molti altri paesi, usando cavalli, cammelli, macchine, treni. E i piedi. Camminò spesso, una volta lo fece perfino nudo, senza vestiti addosso.
Ma Chatwin era un viaggiatore vero. Un altro viaggiatore vero, Tiziano Terzani, girò l’Asia in un lungo e in largo per un anno senza prendere nessun aereo, con la scusa del famoso indovino.
Il problema è che oggi ci mancano il tempo e la voglia per viaggiare sul serio. Nel mondo moderno le Vie dei Canti sono state sostituite dalle più comode Vie degli Aerei. Ma non è la stessa cosa.
Il viaggio una volta faceva parte della meta stessa. Oggi invece viene vissuto come un intermezzo da liquidare in fretta, come una mosca fastidiosa. Meno scali ci sono, meglio è. Meno soste tra noi e l’agognata meta, meno tempo sottraiamo alla nostra vacanza. Beh, è comprensibile in una vita scandita dalle ferie fantozziane e dal tran tran quotidiano imposto dal nostro progredito sistema di vita.
Però è meglio non dimenticarci che questo ha finito per smarrire le nostre Vie dei Canti (sostituiti semmai dai tormentoni estivi di cui parlavamo nell’ultimo post).
Il mondo moderno coincide con le Vie degli Aerei che segnano le rotte e gli incroci possibili. Così il pianeta si anima perché viene "cantato" dal rombo dell’aereo (non importa se volo charter o di linea), esiste in quanto collegato da quegli enormi uccelli metallici che guizzano nei cieli di tutto il mondo traslocando persone.
Una volta, approdare in un posto era un’emozione che veniva gustata in progressione, annusando le sfumature dei paesaggi, cercando le varianti delle atmosfere, la mobilità dei linguaggi e delle popolazioni.
Quando a bordo delle navi che li portavano al di là dell’oceano, là dove pulsava "Lamerica", gli immigrati scorgevano il fazzoletto di terra su cui svettava la statua della libertà, vivevano il vibrante scatto finale di un itinerario estenuante, fatto di giorni d’acqua e di sale.
Meglio ancora era il treno, dai cui finestrini il viaggiatore osservava le mutazioni di latitudini e longitudini.
E poi una volta si viaggiava molto a piedi.
Oggi chi cammina più? Perfino il pellegrinaggio a Santiago de Compostela è stato smantellato del suo significato più profondo; ridotto a nugoli di persone che percorrono i dimezzati kilometri previsti per l’arrivo a Finisterre…a bordo di autobus e macchine che sfrecciano a tutta velocità. Prego Signori pagare il biglietto, il Compostela Holy Tour è in partenza. Bah.
Anche quella era una Via dei Canti.
Ma oggi si viaggia in aereo, tutti contenti di ritrovarsi a casa in ogni aeroporto: tutti uguali, gli aeroporti, manco fossero fatti con lo stampino; stessa struttura, stessi servizi, stessi gates, stesse frasi internazionali che ci fanno sentire Fratelli del Globo. Please all passengers directed to New Delhi gate number 6. First numbers from 1 to 70.
Così passiamo tranquillamente dall’inverno italiano all’estate cubana in un batter di ciglia. Come in un sogno, basta dormire un po’ e voilà, resta di stucco è un Barbatrucco: siamo dall’altra parte del mondo.
Beh, si perde qualcosa. Si perde il viaggio che si fa meta. Perché grazie a Dio il mondo non è tutto uguale, non ancora almeno, come accade con gli aeroporti, e i duty free shop (tutti gemelli come le catene Sidis o la Coin) sparsi nel pianeta trattengono i turisti coglioni ma allontanano il viaggiatore curioso che non vede l’ora di abbandonare la città aeroportuale per respirare aria vera.
Gli aerei collegano ogni angolo del pianeta, sono i simboli del viaggio globale ci permette di fare quello che Verne sognava in molto più tempo (a bordo di un Concorde il giro del mondo è un vezzo da ricchi da festeggiare consumando champagne).
Ma come dovevano essere belle, una volta, le Vie dei Canti. E, sulle loro tracce, i viaggiatori attraversavano il mondo in un tempo "vero", molto più vero del tanto inneggiato "tempo reale" che muove oggi ogni azione.
Ma perché, partire dall’Asia e arrivare in America quasi nello stesso giorno è davvero così "reale"? E fra i due continenti che c’è? C’è il rombo di un areo, ecco che c’è.
Per fortuna agosto sta finendo. E così se ne vanno anche i tormentoni canori e musicali che affliggono chi in spiaggia vorrebbe rilassarsi, farsi un bagno, prendersi un po’ di sole.
Avevamo cominciato, anni fa, con il purtroppo famoso Vamos a la playa dei fratellini Righeira, scampati evidentemente a una disinfestazione musicale. Solo stati loro gli apripista di tutti i successivi tormentoni estivi. Tanto per citarne alcuni: Chiuaua, la Macarena, Dammi tre parole (sole cuore amore, ahimé). Canzonette che ti appestano le orecchie insinuandosi serpentinamente con le loro rimette facili facili, incalzanti, e che malgrado ogni resistenza e avversione ti fanno ritrovare lì, a canticchiarle come un demente mentre passeggi o fai la doccia. O addirittura mentre cerchi di concentrarti perché stai facendo qualcosa di importante. E ti perseguitano.
Il fatto è che l’ascolto ossessivo durante la stagione estiva impedisce l’evasione dai tormentoni. Suonati nei baretti sulla spiaggia, strimpellati dai megafoni della Publimare che nell’Adriatico opprime puntualmente, dalle 11.00 alle 11.30 del mattino e dalle 17.00 alle 17.30 del pomeriggio, tutti i santi giorni, i bagnanti, obbligati a sciropparsela sulla spiaggia (perfino se ti allontani a nuoto in acqua continui a sentire la musica e la pubblicità, per cavartela dovresti arrivare in Jugoslavia ma il fiato non basta…).
Del resto l’estate ci vuole tutti un po’ rincoglioniti. Spostadoci dalla musica ai libri, il tormentone "letterario" di quest’anno è Il Calisutra in cui lo stagionatissimo ma sempre in (s)forma Franco Califano dispensa consigli sulla sua ars amandi. Lui, il vitellone nazionale, eterna incarnazione del folclore romano che mescola burinaggine e filosofia spicciola, vocalizzi nazional-popolari e palpeggiamento di deretani, si gode il successo che, dopo la permanenza nel reality Music Farm, gli ha donato una seconda giovinezza che si gode con la bava alla bocca e le maniglione dell’amore che lo fanno sembrare un palo su cui sono impilati dei copertoni, promuovendo sui litorali il capolavoro della narrativa estiva.
E va bene. Continuiamo così, facciamoci del male, come diceva Moretti con ironia prima di incagliarsi per sempre in sé stesso.
Dunque al mare, tra la lettura del Califfo e le Macarene a squarciagola, è difficile rilassarsi davvero. E chi vuole rilassarsi poi? I bagnini propongono palestre da spiaggia con tanto di trainer e biciclette per fare spinning (a suon di musica lanciata da casse che sonorizzano la spiaggia riducendola a discoteca…e se non c’è la Publimare, ci sono loro).
Anche la fissa per i muscoli diventa così un tormentone.
Eccole lì, le barricadere della palestra, quelle sempre in pirma linea in fatto di fitness, issate sulle loro bici da spinning che corrono e sudano, e sudano e corrono, intubate nelle loro tutine sciogli-cellulite. Certo, devono "gasarsi" per non rendersi conto di quello che in realtà stanno facendo, cioè una fatica boia mentre una sana nuotata le rinfrescherebbe e aiuterebbe comunque i blocchi di grasso, e per gasarsi i rimti musicali che intontiscono e danno la spinta sono necessari, perché però devono devastare tutta la spiaggia con la loro musica a palla? E portatevi un Sony da casa, perdio…Ora c’è pure l’Mp3. I mezzi per non scassare la minchia al prossimo li hanno inventati. E invece niente, si e ti rimbecilliscono.
Ma insomma, perché d’estate siamo tutti cretini? Anni fa, a San Diego, vidi una maglietta molto eloquente. C’era un disegno con due cervelli. Sotto il primo, normalissimo, campeggiava la scritta: This is your brain. Sotto il secondo cervello che stava appoggiato su una sdraio, e indossava gongolante un paio di occhiali da sole infilati per proteggersi dai raggi cocenti, la scritta avvertiva: And this is your brain in San Diego. Geniale. Davvero geniale.
In fondo è così, lo sosteneva pure la teoria dei climi di Montesquieu. Il clima influsice sul temperamento dell’uomo. D’estate, con il sole, diventiamo più allegri, estroversi, carichi di ormoni guizzanti, di voglia di libertà e trasgressione. Ed è anche giusto. La pesantezza del vivere deve essere allietata, anche se alla fine si tratta di un Sabato del villaggio di leopardiana memoria, perché dura un lampo, l’attimo di un’illusione, e poi tutto torna come prima, e "del diman non v’è certezza".
Ed è bello divertirsi, fare gli scemi, uscire dagli schemi asfittici che irreggimentano i nostri inverni. Ci mancherebbe! Lo facciamo anche noi!
Però si può essere leggeri e divertenti senza sconfinare per forza nell’idiozia. O no?