Visita anche: Editoria e Scrittura | La stanza di Virginia | Silmarillon | Stylos | La mia Istanbul
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Non c’è bisogno d’esser nazisti per diventare assassini: in nome della democrazia, del cristianesimo, della libertà, si massacra bene quanto in nome del "grande Reich". E se il processo di Norimberga fu un processo legale dovremmo rifarlo: al banco degli accusati mettendo stavolta quei bravi ragazzi, quei bravi genreali che davan l’ordine di non lasciar viva neanche una gallina (si riferisce agli ordini militari nei villaggi Vietcong, n.d.r.).
E tuttavia, tuttavia, il discorso da fare non è sugli americani, è sugli uomini. Sulla guerra e sugli uomini. Sui vari tenenti Calley e sulle loro medaglie di bronzo, sulla loro coscienza intatta.
Sui vari Varnado Simpson, Charles West, Michael Terry, ora bianchi ora neri ora gialli ora pentiti ora non pentiti ma sempre descritti come persone perbene, normalissime, miti, figli rispettosi, padri affettusoi, questi mostri che nons anno d’esser mostri, e al collo portano le crocettine, le medagliette con la Madonna, in tasca portano le fotografie dei parenti, e se ci parli a quattr’occhi ti rubano il cuore, ti dimostrano d’avere sani ideali, e poi una bella mattina di marzo, una mattina di sole, salgono su un elicottero coi loro sani ideali, le loro magliette, le loro crocettine, la loro presunzione di civiltà, e fanno ciò che hanno fatto perchè "tali eran gli ordini".
É il discorso che fo in questo libro. Questo libro che spiega My Lai. Perché quasi niente quanto la guerra, e niente quanto una guerra ingiusta, frantuma la diginità dell’uomo
(Oriana Fallaci, introduzione al libro Niente e così sia)
Non c’è molto altro da aggiungere. C’è solo tanta malinconia per un certo tipo di giornalismo oggi sempre più raro. Un giornalismo, quello della Fallaci "vecchia maniera" (che era anche la più brillante, a nostro avviso) capace di scheggiare le pagine della Storia, di incidere i luoghi comuni, le credenze, insinuandovi il brivido del sospetto. Sospetto che le nostre certezze siano sbagliate, e che la Storia sia riposta nelle mani di un falsario abilissimo.
Se il sonno della ragione genera mostri, come diceva Goya, il sonno dei mostri non sveglia – a volte – la ragione…
Photo: Horst Tappe/Archive Photos
“Un mattino, al risveglio da sonni inquieti, Gregor Samsa si trovò trasformato in un enorme insetto”.
Un incipit lapidario, cupo, quello con cui Kafka apre La metamorfosi.
Un attacco di una forza tale da esigere lo stesso livello di tensione per tutta la storia. Il genio di Kafka ci riuscì.
Ci fu un altro genio, Nabokov, che si occupò del talento narrativo di Kafka.
Quando un maestro si occupa di un altro maestro nascono fuochi d’artificio che esplodono in cielo.
Il rigore investigativo di Nabokov gli fece varcare la soglia labirintica dell’anima di Kafka, penetrandone segreti, scarti, allusioni.
In Lezioni di letteratura lo scrittore russo che scandalizzò il mondo con la sua Lolita descrive la stanza in cui il povero Gregor combatte la sua battaglia già persa in partenza, alle prese con una famiglia che non lo riconosce più.
Secondo Nabokov, eccellente entomologo, non si tratta di uno scarafaggio ma di un coleottero (lo scarafaggio è piatto, dice, mentre Gregor non lo è affatto).
Dunque il povero Gregor Samsa è un coleottero disperato che pesa sul mondo, più greve della sua gravità. Tutti i lettori ricordano, con un moto di raccapriccio, la scena in cui sua moglie gli tira una mela che finisce conficcata nel dorso.
Ma Nabokov non si limita alle indagini metaforiche, si spinge oltre e ci regala commenti che sono spunti di riflessione su cui meditare a lungo:
“Curiosamente, Gregor coleottero non s’accorge mai di avere delle ali sotto il solido rivestimento del suo dorso. (È da parte mia un’osservazione molto sottile di cui dovreste far tesoro tutta la vita. Certi Gregor, certi Mario e Maria non sanno di avere le ali”).
Anche noi, appesantiti dall’esistenza, a volte dimentichiamo le nostre ali. Ma per quanto sbattute, agitate furiosamente mentre arranchiamo in mezzo al dolore, sono sempre là…
A pochissimi giorni dalla morte della Fallaci sulle prime pagine della Repubblica continua a campeggiare la pubblicità del nuovo libro di Lilli Gruber..
Ed è comunque difficile non domandarsi quanto sia cambiato il giornalismo negli ultimi vent’anni, con la televisione e le nuove tecnologie.
Se la Fallaci indossava un elmetto nelle leggendarie fotografie del Vietnam, la Gruber che ci ha sorriso con le sue labbrone dal Medio Oriente portava il chador come si fosse trattato di un foulard di Hermès.
Invece di bucare la mente trafiggendola con la punta affilata della scrittura, oggi bisogna bucare il video.
Lilli Gruber lo sa benissimo.
Lei, la Jessica Rabbit del giornalismo nostrano, è forse la summa più eloquente degli ingredienti del giornalismo televisivo contemporaneo: presenzialismo (è ovunque, approdata perfino nella Commissione Affari esteri di Bruxelles), fotogenìa e cura del look (guardate le foto sfavillanti nel suo sito www.lilligruber.net), atteggiamento politically corret (in un politically ovviamente schierato), composto, retorico, scontato.
Come Jessica Rabbit, anche la nostra Lilli è assai seducente, con quel capello rosso fuoco (tinto) che si accende in televisione contrastato dal nero che perimetra, e tenta di contenere, le sue scollature abissali.
Vogliamo fare i moralisti? Certo che no!
Però ci domandiamo, sconfortati, quanto l’apparenza, di nuovo, conti sull’essenza. Quanto le labbra a deretano di gallina contino più di quello che dicono. Quanto il viaggiare di molti moderni reporter, intruppati in alberghi a infinite stelle, sia diverso dalle perlustrazioni di quegli avventurieri del giornalismo che giravano in Viet Nam, ad esempio, rovistando fra le storie in cerca della Storia.
Ma le epoche cambiano, e i giornalisti si adeguano. Finite le ere dei Terzani, delle Fallaci, dei Montanelli? Temo di sì.
Oggi ci toccano le Jessiche Gruber impomatate, con quel successo mediatico che è un mix di immagine e parola “giusta”, critica ma non scomoda, severa ma non fustigatrice, commovente al punto giusto, regolata dalle frequenze della televisione che preme sulla parola, la costringe a piegarsi all’immagine mentre la faccia con le labbra arricciate schiocca baci verso la telecamera.
Ai mezzobusti francamente io preferisco i busti interi. Quelli che con le loro gambe camminano e raccontano e poi scrivono. E che se ne fregano del loro look. E che non hanno un sito personale con una galleria fotografica degna di un servizio di Vanity Fair.
Anche la Gruber ha fatto l’inviata, vero. Ma le sue sembrano gite. Come quando la Guzzanti faceva la parodia di Letizia Moratti in visita nella scuola pubblica, vestita da safari, a caccia di strani esemplari chiamati “studenti”.
Pure la nostra Lilli fa i suoi safari nelle zone di guerra.
E oggi, non contenta di essersi seduta sulle poltrone di Bruxelles, sforna libri da salotto sulle questioni internazionali. Corretti, tremendamenti corretti. Politicamente corretti.
E finisce tra i più venduti, insieme ai soliti Vespa e affini.
Eh già, ci fa rimpiangere la Fallaci. Quella delle foto storiche, al fronte, con l’elmetto addosso. Unica civetteria, una striscia di eyeliner. Unica avversione: il giornalismo cotonato, alla Jessica Gruber.
Da domani sentiremo molto parlare, e scrivere, su Oriana Fallaci.
Benissimo. Giusto. Se ne va una voce importante che, nel bene e nel male, ha segnato il pensiero occidentale negli ultimi cinque anni, dopo l’11 settembre.
Oriana ci aveva abituato alle sue invettive, la sua vena polemica già negli anni giovanili emergeva con prepotenza, si infilava in quel mondo maschile che lei, sigaretta alla borsa e zaino in spalla, sfidava nei suoi reportage, nelle sue incursioni nelle zone di guerra.
Ci ha regalato pezzi di storia del Vietnam, quei pezzi "veri" dei reporter che, lontani dalle comodità del computer, con il taccuino giravano, indagavano, frugavano nelle vite delle persone per catturarne pezzetti di una realtà da ricomporre (la Fallaci in un’intervista disse che il giornalista vive la storia in diretta, ed è lui stesso a scriverla in tempo reale).
Ci ha regalato un libro indimenticabile, Oriana, forse l’unico vero libro pieno d’amore che abbia mai scritto. Un uomo rimane la testimonianza più alta non solo della sua scrittura ma anche della sua capacità di vibrare nelle sfumature dei sentimenti, braccandoli senza tregua come un lupo con un coniglio ferito.
Poi però negli ultimi anni il tumore aveva forse scavato nella rabbia. Rabbia contro il mondo, contro il sistema di potere, contro ogni manifestazione di barbarie che, a suo avviso, resisteva in oriente al flusso civile della occidentalizzazione.
"Ho visto Bin Laden ed era il demonio".
Affermazioni estremiste, radicali, senza possibilità di appello. Senza punto interrogativo, senza aggancio per la discussione.
Sicuramente nutrite da un paese in cui la bandiera nazionale sventola in ogni casa, dal vivere nell’anima di quel continente che divide il mondo, oggi più di ieri.
Stasera a cena un amico mi parlava del suo coraggio nel dire cose scomode, e nel portarle avanti fino alla fine.
Pur non condividendole, non in pieno almeno, ho dovuto ammettere che aveva ragione.
Sicuramente è stata una donna "con le palle". Troppe, forse. Però non scordiamoci che a volte può esserci un certo compiacimento nell’essere scomodi.
Oriana ci ha lasciato libri preziosi, e una critica feroce sull’Islam e sulle dinamiche internazionali.
Peccato che, da domani, si scatenerà l’epitaffio post-mortem, pieno di enfasi, di mitizzazioni. Come sempre, la morte ci sottrae dai perimetri angusti della carne e ci trasporta nell’Olimpo degli dèi.
Da lassù, da quel mondo impalpabile in cui la carne si è fatta soffio, brezza notturna, silenzio, i resti mortali vengono lasciati agli umani perché li addobbino con le loro parole.
E così il morto diventa sempre un po’ "speciale". Soprattutto se è un morto famoso, un morto che ha contribuito a scrivere la Storia.
Ma di lei mi piace pensare che non era solo l’Oriana che verrà celebrata, discussa, che di nuovo scatenerà fazioni e reazioni.
Mi piace pensare che era Una donna. Una donna.
aggiornamento del 19 ottobre: leggi su www.stylos.it la rassegna stampa sulla Fallaci
Perché divento irrequieto dopo un mese nello stesso posto, insopportabile dopo due?
(Bruce Chatwin)
Che cosa ci spinge a muoverci? Fuga o curiosità? Siamo turisti, viaggiatori o pantofolai? Seguiamo l’istinto di un nomadismo antico, insediato nella memoria, oppure ci siamo abituati alla vita stanziale?
Se potessimo scegliere, in quale luogo della terra trascorreremmo gran parte del nostro tempo?
E se potessimo scegliere, ci torneremmo ogni volta oppure vorremmo vedere anche cose nuove, altri luoghi? Rischiano magari una delusione?
Siamo migratori o preferiamo la fissità? Chatwin nella sua Anatomia dell’irrequietezza sosteneva che il movimento è connaturato alla natura dell’uomo, e che in questo movimento ritroviamo la nostra andatura più autentica.
Sicuramente lui è stato un fulgido esempio del viaggiatore stralunato, romantico, di stampo ottocentesco, perennemente impegnato in incursioni che frugavano ogni angolo di questo pianeta.
Forse, però, a volte le migrazioni perenne sono anche fuga da sè, per poi ritrovarsi magari su un altopiano tibetano confrontandosi con la stessa, solita faccia riflessa nello specchio di un lago (e magari, invece di imitare Narciso, proviamo orrore per quel riflesso che ci rimanda le nostre inevase miserie).
Insomma, le geografie sono per noi punti di fuga, angolazioni, scoperte o solo sogni nel cassetto? O neppure questi, magari?
Libere domande in ordine sparso…