Visita anche: Editoria e Scrittura | La stanza di Virginia | Silmarillon | Stylos | La mia Istanbul
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Non mi riconosco più in questa Italia depressa, qualunquista e menefreghista.
Sempre pronta a criticare senza scegliere la difficile arte del "fare".
Governata da ladri e briganti che – toh – ha sempre scelto lei.
Lei, antica signora di eleganti fattezze, oggi stracciona, scalza, spettinata e
stanca.
Questa Italia alla deriva, sbilanciata, solcata da nuovi e vecchi rancori.
Canaglia, furbetta e malandrina.
Serva di Stato e dama di corte privata.
Puttana di strada, a volte.
E, sempre, corridoio di idee che non trovano né porte, né sbocchi.
Italia malata che non muore mai, eternamente appesa a macchine che respirano per lei.
Italia di cafoni e di snob, senza mezze misure.
Di omolgazioni e quotidiane piccinerie.
Di città che si credono villaggi
e villaggi in cui i vicini non riconoscono i vicini
Italia di maleducati e pigri.
Di rassegnati che hanno paura di cambiare
Di vizi, stanchezze e ridicole ostentazioni.
Italia che fatico ad amare
Italia mia?
Lo sapeva bene, Virgina Woolf. Conosceva l’importanza di una stanza tutta per sé.
Specialmente per una donna.
È in quella stanza che si scrive, si pensa, si dipinge, si ride, si piange. Ci si stiracchia ben bene nel mattino fresco, lavando l’anima e asciugandola al vento che soffia dalle finestre. Si beve una tazza di tè, poi si riprende a lavorare. Lavorare su cosa? Sul giardino interiore.
E il giardino di una donna è faccenda complessa. Per l’uomo si tratta di aiuole potate, esposte alla giusta inclinazione del sole. Ma per lei è diverso. I suoi giardini sono selvatici, sanno di muschio, di labirinti, di ombra che filtra la luce.
A prima vista sembrerebbe il contrario, eppure non è così. Malgrado secoli di culti solari – e di irregimentazione del “secondo sesso“, come scriveva Simone De Beauvoir – il femminino è sempre sopravvissuto, potentissimo, nel sottobosco. Inquieto, struggente, ferito da una Luna palpitante che allo stesso tempo è viaggio e zavorra.
Spettinata, a piedi scalzi, la donna del sottosuolo conosce i segreti delle pietre preziose.
Ma per trovarle deve avere una stanza tutta per sé. Dove creare ma anche liberare le ombre, sfogarle, domarle.
Le ferite devono essere suturate affinché la donna trovi la strada per collegare i suoi sotterranei con la superficie solare.
Ci vogliono una stanza, una sedia, un tavolo.
E alcuni libri per incendiarsi davanti alle giuste parole.
E matite per colorare i fogli del passato.
E musica per danzare.
E una torcia per far luce nell’ombra.
In quell’ombra, la penetrazione coraggiosa dei territori sconosciuti, remoti, smette di farla essere clandestina, straniera a sé stessa.
Finalmente si torna a casa. Il sentiero si illumina di piccole luci che brillano nella notte, costeggiano la strada sassosa che riconduce a casa.
Lì, in quella stanza, i misteri del cuore fioriscono.
Sbocciano come candidi fiori inanellati da fumi d’incenso.
Prima, però, ci sono stati un ritrovamento e una sepoltura.
Seppellire i morti, ammainare i lutti non è mai facile. Ma è da lì che si parte.
Non esiste l’altrove senza l’adesso, né il rifugio senza la memoria.
Nella stanza ci si cala dal pozzo o si usa la scala per infilare un dito nel cielo.
Non c’è differenza in quanto non si sale senza prima essere scesi.
La discesa della donna avviene nella sua stanza (che può essere anche all’aperto, senza finestre né porte), così come la risalita con le mani piene di doni preziosi.
Questa donna che ha imparato a usare la stanza non potrà più rimanere imprigionata nelle case degli altri. Saprà sempre orientarsi, anche nello sconforto.
Se la tregua di un temporale traccia un arcobaleno nel cielo, allo stesso modo le mani di chi ha scavato dentro di sé disegneranno bagliori di fuoco che accenderanno ogni stella.
E per ogni stella, sulla terra ci sarà una stanza. Una stanza tutta per lei.
(marzo 2006, re-posted)
Perché non basta un amore a scaldare il cuore?
(J. Amado, “Dona Flor e i suoi due mariti”)
Catherine è una donna che non passa inosservata. Ha un sorriso che le accende il viso e un fare sbarazzino, da ragazzina impunita, birichina, trasgressiva, che si mescola con la femminilità, davvero travolgente, con cui incanta il mondo. Ma è anche una donna trasformista, capace di scimmiottare gli uomini, di prendere il comando. E’ lei, sempre, a decidere per gli altri. Non ama essere dominata, né recinta in uno spazio angusto: ogni gabbia la soffoca. Detesta il moralismo borghese, il livellamento di pensiero, le categorie filosofiche a cui preferisce la vita, nella sua immediatezza, nel suo trasformare in emozione ogni pensiero. L’esistenza pulsa, scorre, è come un fiume da navigare liberamente, senza mappe né ormeggi.
Nella Parigi del primi del Novecento, Catherine, ironicamente, indossa già i pantaloni. Pantaloni non solo metaforici ma anche reali. Come quando si traveste da uomo, si fa dipingere da Jim dei baffi finti e passeggia con i suoi due nuovi amici, Jules e Jim, fino a trascinarli in una corsa esplosiva, gaia, spensierata. Una corsa che è forse la scena più bella del magnifico film di Truffaut. Catherine (interpretata dall’abbagliante Jeanne Moreau) li sfida e corre, corre davanti a loro, in un tragitto che diventa inno alla libertà, fra vento e risate.
Jules e Jim sono grandi amici, vivono in sintonia. Amano l’arte, il teatro, la musica e, naturalmente, le donne. Ma fino a questo momento non hanno ancora trovato quella che gli acciufferà il cuore. Ed eccola lì. Arriva. E’Catherine. Ha lo stesso sorriso di una statua greca di cui si erano innamorati, tempo prima, così come, ora si innamorano di lei. Entrambi. Anche se Jules è il primo ad accorgersene, a dichiararsi. Eccoli lì, che corrono, corrono, corrono, nel momento acerbo del loro triangolo, quello in cui la storia esiste già ma non è manifesta, è fatta ancora di cose non dette, di verità non conosciute. Si capisce subito, durante la corsa, che lei è il capitano di quella brigata, è la bussola del loro orientamento. Da quel momento, non ci sarà nient’altro che Catherine. Catherine che decide del loro destino, Catherine che oscilla tra l’uno e l’altro, Catherine che nel suo “sregolamento dei sensi” nasconde anche un’ombra fortissima, l’ombra di una ricerca perenne, di una cronica “bulimia esistenziale” che necessita di emozioni e cambiamenti.
I due amici, così diversi eppure così uguali, fratelli, condividono tutto e finiscono per condividere anche lei, in un triangolo irrevocabile, come il loro futuro.
Un turbine è entrato nell’esistenza di Jules e Jim. E la cambia per sempre. Con una suggestione profetica, è la stessa Catherine, una sera, a cantarlo ai due amici: “Quand on s’est retrouvés, Quand on s’est réchauffés, Pourquoi se séparer?Alors tous deux on est repartis Dans le tourbillon de la vie. On à continué à tourner
Tous les deux enlaces Tous les deux enlaces (Quando ci siamo ritrovati quando ci siamo riacchiappati perché separarsi Allora tutti e due siamo ripartiti
nel vortice della vita E abbiamo continuato a girare allacciati insieme allacciati insieme).
La scena, bellissima, rimane impressa nella memoria.
Non ho mai capito perchè pretendiamo la pace nel mondo quando non siamo neanche capaci di risolvere i conflitti del nostro condominio.
Si parte sempre dal piccolo, per arrivare al grande. Non viceversa.
Invece ci incazziamo perchè gli ebrei e i palestinesi si fanno ancora la guerra, perchè la Libia è contro il resto del mondo, perchè in medio-oriente non si raggiungono accordi precisi e stabili.
Ma non ci domandiamo perchè non riusciamo neanche a mettere insieme un gruppetto di venti persone, presumibilmente animate da interessi comuni, radunandole intorno ad accordi “multilaterali”. Accade, puntualmente, nelle riunioni di condominio.
Già, le riunioni condominiali. Quell’incubo a cui devi sottoporti, quella tortura immensa da cui, se per caso alzi la testa e combatti per i tuoi diritti, esci fatto a pezzi.
Anche lì vince sempre la meravigliosa legge del più forte, quella che manda in vacca ogni democrazia.Il più forte, di solito, concide con il più stronzo. Infatti c’è sempre lo stronzo che ha la maggioranza (almeno, io sono sfigata, a me capita sempre di finire in dittature condominiali). E di solito è un frustrato, con una buona dose di sadismo tutto da esprimere, che gode a esercitare il potere rompendo “i maroni” per le cose più assurde: per la screpolatura interdentale sotto il tuo balcone, per la misera goccia fuggita mentre dai l’acqua alle piante e che, malgrado sia come la particella di sodio della Lete, in cerca di compagnia, viene trattata come il peggiore degli tsunami. Che si arrabbia perchè il tuo pappagallino fa troppo rumore, o i tacchi delle formiche sul pavimento danno fastidio e non fanno dormire la notte. Poi, ancora, le litigate per gli orari dei termosifoni, per l’ascensore, per la maniglia del nuovo portone. Quando non c’è lo stronzo con la maggioranza assoluta, ti trovi lo stesso a tirarti i capelli con tutti (almeno, però, godi della democrazia, anche se in tempi di guerra). Veri e propri conflitti armati. Lotte intestine fatte di attacchi aperti ma anche di manovre subdole, di compravendite per la tenuta della maggioranza (un po’ come fa sempre il nostro Presidentissimo), di cospirazioni negli androni, di sera, quando si spera non ti becchi nessuno.
E poi c’è lui: l’Amministratore. Un ladro a piede libero, nella maggior parte dei casi. Un testa di cavolo, negli altri. Spesso, le opzioni si sommano. E accade un po’ come accade nel mondo: c’è chi tace, chi delega, e c’è invece chi lotta, chi fa le rivoluzioni. Ma, sempre, di vera guerra si tratta. Conosco poche cose odiose come la riunione di condominio. Vera tortura, flagello, strage. Davvero, abbiamo un bel coraggio a pretendere la pace nel mondo quando non riusciamo a risolvere il problema, vera emergenza umanitaria, della scala da tinteggiare. Se qualcuno partecipa sane e giuste riunioni di condominio, parli ora o taccia per sempre.