Il cinema e la letteratura hanno molte cose in comune. Prima fra tutte, narrano storie. Il registro letterario e quello cinematografico sono diversi, certo, eppure a volte si incrociano, si sfiorano, si sovrappongono. E vivono in una felice condizione “sospesa” in cui il libro si si film e il film si trasforma in libro. Accade poche volte perché ci vuole molto talento. Ci è riuscito Luchino Visconti ne “Il gattopardo”, ad esempio.
Se abbiamo letto il libro, il film solitamente ci deluderà. Perché quel “film” lo abbiamo già visto. Lo abbiamo creato noi. Siamo stati noi stessi lo sceneggiatore, il montatore, il regista, il fonico. Borges (e non solo) sosteneva che il libro appartiene al lettore, più che all’autore. Calvino lo conferma ne Se una notte d’inverno un viaggiatore, uno dei suoi capolavorì assoluti, attraverso un racconto impensabile senza la presenza viva, partecipata, dello stesso lettore. Un libro che “morirebbe” senza il lettore / co – autore.
Difficile accettare la versione cinematografica, per quanto riuscita, di un libro che abbiamo amato senza avvertire una sorta di “tradimento” operato dal regista che altera, manomette, decifra arbitrariamente la narrazione che ha preso vita nella nostra mente, uscendo fuori dalle parole e abitando lo spazio immaginativo in cui personaggi e paesaggi trasformano la parola scritta in carne, sangue, soffio vitale. Quella versione sarà comunque un’effrazione rispetto alla storia che pagina dopo pagina è esistita per noi, soltanto per noi. Ora quella storia viene condivisa da un pubblico più vasto, non è più definita soltanto dallo spazio intimo che ci collega al suo autore (e questo è già un cambiamento sgradito) ma addirittura diventa l’oggetto di altre fantasie, altre immaginazioni, altre visioni. E per quanto la parola scritta sia la stessa, la percezione soggettiva rimarrà sempre individuale, quasi un fatto privato anche se condiviso, così come un tramonto viene filtrato dalla sensibilità sensoriale ( e non solo ) di chi lo guarda.
Certo, narratori più “visivi” come Proust riescono a dare pennellate descrittive così minuziose alla loro “opera su carta” che i lettori saranno inclini a trasformare la scrittura in immagini più simili fra loro. Di fatto, l’immensa, meravigliosa Ricerca proustiana è una galleria di dipinti impressionisti che, come tanti oli su tela, prendono forma e vita pagina dopo pagina.
Anche dopo tantissimi anni, impossibile dimenticare i giochi di luce del sole sui sofisticati drappeggi dell’abito bianco di Odette che, con il suo ombrellino, si staglia fra alberi e foglie.
Eppure , per quanta somiglianza si possa cogliere, la mia Odette non sarà mai uguale alla Odette di un altro lettore.
Ed è per questo che il cinema fatica a combinare il matrimonio perfetto con la letteratura. Chissà, forse perché le nozze con i consanguinei comportano fragilità e deformazioni nel parto creativo che ne consegue.
Ma, quando ci riesce, come accade a Visconti, è magia, alchimia.
Se dunque i film inseguono i libri, li corteggiano, trovano “libera ispirazione” (che diventa anche una difesa davanti all’esito infelice, al risultato che genera malcontento), restano comunque confinati in un mondo vicino eppure ben definito, che sfiora il libro ma non si mescola mai.
E quando cercano di somigliare troppo alla sua cifra stilistica ne escono pesti e impacciati, come accade al film Sostiene Pereira, pallido tentativo di trasposizione cinematografica dell’opera di Tabucchi.
E poi, poi ci sono i casi particolari. I casi in cui accade che l’autore del libro è anche il regista del film. Ed ecco che possiamo, in questo caso, entrare nella mente dello scrittore per vivere poi sullo schermo la storia esattamente così come è stata da lui concepita, immaginata, vissuta.
Per chi, come me, da sempre si appassiona di cinema e letteratura è un evento imperdibile.
Ed è così che sono andata a vedere, incuriosita, Il primo giorno della mia vita, malgrado critici spesso non troppo entusiasti (e sulla critica avrei qualcosa da dire, ma è un’altra storia, troppo lunga, qui, da raccontare.
Non ho letto il libro, lo ammetto. Con la mente vergine di ogni influenza possibile, con occhi profani, mi sono seduta al cinema e ho guardato il film.
Un film che ho trovato bellissimo. Intensa la storia, riusciti i dialoghi, il montaggio, la recitazione (difficile sbagliare con Tony Servilli, Margherita Buy, Valerio Mastrandrea).
Spesso il nostro cinema fatica a trovare una sua dimensione riuscita, assediato dai vizi provinciali della commedia italiana nazional-popolare e la difficoltà nel trovare un ritmo riuscito, un afflato narrativo serrato come quello tipicamente americano, insieme alla difficoltà nel creare espressioni drammatiche e allo stesso minimaliste, lente eppure mai noiose, che il cinema francese frequenta invece con agio e confidenza.
Invece qui, a mio avviso, il regista/scrittore Paolo Genovese riesce a regalarci un film di spessore, che affronta il delicato tema del suicido con malinconica leggerezza. Quella leggerezza che, per dirla con calvino, non è mai banalità ma “gravità senza peso”.
Così come senza peso sono i corpi dei quattro protagonisti morti e non morti, in bilico fra la vita e la morte, il suicidio e il riscatto, in quell’attimo sospeso fra le anse del tempo in cui sembra possibile tornare indietro, rimediare, modificare il passato anche nel suo gesto più estremo.
E se ad alcuni critici non è piaciuto l’enigma perché troppo “misterioso”, quell’enigma irrisolto invece dà ancora più forza al film.
La non eccessiva caratterizzazione dei personaggi, così come quella del misterioso “psicopompo” che accompagna le anime in uno strano aldilà che si snoda invece proprio qui, sulla terra, fra anime di ossa e corpi sudati.
I dialoghi sostengono l’assenza di un’azione robusta, invasiva, e mettono in risalto – ecco – la risonanza fra cinema e letteratura attraverso la forza vivificante della parola. Parola scritta, parola parlata. Parola dal potere immenso, se usata bene, in ogni sua declinazione.
Inquadrature che mettono in risalto la bravura degli attori, musica indovinata che offre suggestione alle scene, tensioni narrative poggiate su scatti e rallentamenti costeggiano la storia e le imprimono forza.
Non ho letto il libro, ripeto. Non è neppure importante.
Quello che conta, per me, è avere l’occasione di sbirciare nell’universo creativo di un narratore unico, che traduce in film la sua opera letteraria.
Non capita tutti i giorni. E, almeno solo per questo, ne vale la pena.