Cercavo, sempre, di capire chi fossero i “disuguali”. Quelli che non si adattano, che non riescono mai, nella vita, a somigliare ad altre persone, a gruppi, a società intere. Rimangono sempre così, sospesi a metà, affacciati su qualcosa che riescono a capire, a penetrare, ad accogliere come un fuoco in una notte ghiacciata che però, a un certo punto, diventa fiammella sottile, con quel rosso guizzante che diventa blu e poi diventa nulla, sfuma nella notte del tempo e dell’anima. E quando la fiamma scompare, se ne vanno anche loro. Se ne vanno perché sentono che appartengono a un altrove indefinito, non perimetrabile, sconosciuto alle misure di cui ci serviamo per contenere, contare, salvare l’ansia d’ignoto che ci attanaglia.
Loro, i “disuguali”, sono animati da un nomadismo che galoppa su geografie interiori, appoggiate solo casualmente su quelle esterne, di cui sono matrice e allo stesso tempo estensione.
Queste anime sparse, distanti fra loro, così distanti che sembra quasi che un dio crudele le abbia gettate a caso nella vita, sparpagliandole nelle latitudini più impossibili, assurde, fino alla curva convessa del mondo, si cercano senza trovarsi, inquiete, curiose, bruciate dalla conoscenza precoce che solleva il velo dei giorni innocenti fatti di stelle e di luna e mostra, nella luce spietata del mezzogiorno, l’aspra verità delle cose.
Sono le persone che sanno, quelle che non si nascondono nelle certezze facili, etichettate, servite a dovere come una quotidiana pietanza. Come tutti i ribelli, conoscono la loro sorte, che non ha il soave profumo del lieto fine, di quella speranza che rende mobili le acque stagnanti dei dolori accennando, mentre si piange e si soffre, a una modifica in corso, non ancora visibile eppure possibile. E allora la lacrima tace mentre si guarda a un futuro diverso. Invece Non ci sono possibilità, per loro, al di fuori dell’unica sicurezza: il movimento continuo, dentro e fuori, in un esilio fisiologico, che tesse le trame di sangue e di carne, che orna i capelli, che respira lo stesso respiro.
E nella solitudine ritrovano moltitudini di essenze, giochi e leggerezze senza nessuna appartenenza, profondità invitanti in cui tuffarsi dondolandosi nelle anse del tempo.
Mentre gli altri si affannano, saltando e scendendo giù rapidissimi, agilissimi, come un capretto in cima a una roccia, loro guardano, e a volte rincorrono morsi di vita interrogando la margherita dei giorni sulla loro sorte: felice o infelice, arrivato o partito, prendere o lasciare…
Perché la vita, in fondo, è sempre un bilico tra il lasciare e il prendere. E se prendi troppo ti ingolfi, diventi ridicolo come certe costruzioni barocche, come i lussi di pochi imbecilli che credono che il mondo sia grande quanto il diamante che portano al dito, mentre un’altra massa di imbecilli invidia loro la circonferenza di quel diamante in cui si pensa nasca e finisca tutto. Ma se lasci, se lasci sul serio, ti accorgi che non avere più nulla ti rende invulnerabile e allo stesso così fragile, così esposto alle stagioni che passando lasciano segni più aspri, ragnatele sulla faccia ma anche nell’anima. Lasciare è difficile.
Così anche loro, i “disuguali”, a volte preferiscono prendere, pur sapendo che un momentaneo, illusorio conforto è debole come il petalo della margherita che per quella risposta hanno staccato.
Poi ricominciano, ricominciano con i loro eterni dubbi, le mai sopite domande, e partono. Partono ancora, in cerca di un nessun dove.