Certe città da subito ti si intrufolano nel cuore, diventano il tuo stesso cuore. Ti battono nel petto, tum tum tum, come un tamburo familiare fatto della tua stessa carne. Tum tum tum. Della tua stessa anima. Tum tum tum. San Pietroburgo, era ciò che cercavo. Finalmente la mia anima, li, era in pace., distesa tra gli azzurri e i bianchi, allungata sulla neve, come un pensiero soffice che si addormenta su un sogno. A San Pietroburgo, si. Me lo aveva detto, un amico, che avevo l’anima russa. Ma quante stupidaggini avevo sentito, quanti pregiudizi. E pensavo che fra il comunismo e il consumismo i miei amori non fossero sopravvissuti. Pensavo che la letteratura dei grandi romanzieri ottocenteschi fosse finita fra le memorie di un sottosuolo dimenticato, come quello raccontati da Dostoesvkij, così come la musica fatta di esaltazioni, drammi, passioni estreme. E invece, invece ho ritrovato tutte le stagioni dei miei antichi amori.
Erano lì, fra le facce della gente, nel battito d’ ala di uccelli in volo accanto a una vecchia babuschka che nel viale gelato offriva la mano al cielo, coi suoi grani di pane insieme a qualche chicco di solitudine. Nelle guglie delle chiese, negli angoli delle strade meno battute, accanto ai canali di acqua immobile, congelata come un dolore vecchio che non fa piu’ male. Nelle facce delle donne anziane, con i loro occhi di perla e i foulard in testa, che camminano sobrie, fiere ma allo stesso tempo delicate, misteriose come misteriosa e’ questa magica terra. Qui, a nord, nei bagliori di un congedo invernale, la mia anima si e’ orientata, ha trovato la sua stella polare. Nel silenzio luminoso, nella solitudine piu’ curativa che c’e. E di fatto il nord, il ero nord, e’ silenzio e solitudine. Ma e’ una solitudine bella, un invito a passeggiare nell’anima mentre il vento che soffia si porta via tutto e lascia spazio a un vuoto che riempie. Si’, mi sono sentita piena di nulla. Meravigliosamente piena di nulla. Libera come le nuvole in corsa nel cielo. Russia. Un nome che evoca suggestioni lontane ma anche paure. Il suo passato tragico ma sempre orgoglioso, dignitoso, le sue ferite che a colte somigliano alle miei, i suoi tragici drammi, la forza di resurrezione dopo ogni sbaglio, ogni cambiamento veloce, pagato con il prezzo di brandelli di carne strappata via. Sembra quasi, a volte, che certi popoli proprio davanti alle assenze coltivino, in segreto, le loro presenze. E l’anima russa c’è. Esiste al di la’ delle nuove frenesie capitaliste, delle passioni per i marchi e il lusso sfrenato. E penso a come ci facciamo certe idee plasmandole con gli stupidi racconti di altri. Di questa gente, di questa terra, ho sentito di tutto. E invece ecco che mi ha sorpreso con la ritrovata solidarietà di noi anime perse, sempre in bilico su un mondo rumoroso che vuole costringerci a nascondere, come un oltraggio, come un segno scarlatto, la nostra poesia. I silenzi dell’anima, al freddo, diventano piu’ ampi, sono giardini in cui sbocciano primavere diverse. Come sembrava lontana e caciarona l’Italia, queste sere, mentre dalla finestra del mio hotel sul canale sentivo passare, con una cadenza quasi costante, perfetta, gli zoccoli dei cavalli. La prima volta ho pensato a un’allucinazione, a una fantasia delle orecchie, alla memoria di un dottor Zivago sempre presente nella collezione degli amori miei. Invece erano li, cavalli e cavalieri. Gente qualunque che, di notte, trottava lungo il canale, nel silenzio interrotto solo dagli zoccoli in movimento. Ho pensato alla scena surreale, meravigliosa, in cui Johnny Depp percorre una Parigi notturna col suo cavallo bianco nel film the man Who cryed, troppo malinconico, forse, per essere amato da una massa che vuole sempre speranza e lieto fine, anche nei film. Ora che ci penso, anche lei, la protagonista, e’ una ebrea russa che, nella Parigi minacciata dai nazisti, incrocia la sua diversità con quella di lui, lo zingaro. Entrambi diversi, diversi da tutti. Un film per anime poetiche. Delicatissimo. Un film che mi ha fatto piangere. Come ho pianto nella camera studio di Dostoevskij, l’altro giorno, nella sua casa museo. Fra quelle mura sentivo quasi il so fantasma, la sua presenza forte, eterna, fuori da ogni spazio e ogni tempo, circolare come l’eternità che ci aspetta mentre ci lasciamo ingannare dalla linea retta. La sua scrivania, i suoi libri, il letto in cui, il giorno della sua morte, ha saputo rendere l’anima a quel dio comunque sentito, quasi sfidato nella sua ricognizione letteraria nelle terre dei rimorsi e delle colpe. Per lui indagare l’uomo bastava a dare un senso alla vita. Aveva ragione, perché nel mistero di ognuno si trova il mistero di tutto.
E diceva una cosa, diceva che non basta guardare la faccia di un uomo, ne’ ascoltarne le parole, per sentire la sua essenza. Bisogna guardare il suo sorriso. In quel luogo, si nasconde ogni arcano. Lo faccio sempre, io. Osservo i sorrisi che a volte sono come tagli sulla faccia, che quasi la costringono a disegna quello spazio inutile in cui non ira nessun cuore, nessuna gioia, nessuna apertura reale. E ci sono sorrisi che divampano dentro come un fuoco, e accendono e scaldano e cuociono ogni falsità, come una fiamma purificatrice. Li ho guardati, i sorrisi del russi. Sono sorrisi belli. Leali. Arcani. E umili. Il cuore non ha sempre bisogno di emozioni sguaiate, specie il cuore collegato direttamente con l’anima. A San Pietroburgo, nelle sue atmosfere fiabesche sono uscita fuori dal mio tempo che corre, e ho incontrato la casa dell’anima. E sembrerà pazzo, sembrerà strano, ma io qui ci ho già vissuto, in un tempo antico, come antico e’ il cuore dell’anima russa. Come antica e’ l’anima mia. La luce bianca, qui, veglia su tutto, questa luce particolare che mescola tutti gli azzurri del mondo e li rende quasi invisibili. Un biancore quasi irreale, che domina sui grigi del cielo. E quando il sole, raro, brilla accende tutti i colori mantenendo la sua luce particolare, come se Caravaggio avesse dipinto questo Nord con la sua tavolozza. Sono appena partita e già voglio tornare.