Racconti da Marrakech
La Medina ogni volta mi incanta, mi con i colori dell’ artigianato ma soprattutto con quelli delle sue spezie, delle erbe, delle pietre d’indaco. Potrei passare ore seduta su uno sgabello dai miei amici erboristi ad annusare resine d’ambra e di sandalo e cristalli di menta, ficcanti il naso nelle ciotole di cúrcuma, coriandolo, zafferano… mentre guardo i turisti che osssano, incuriositi, smarriti, eccitato oppure stanchi, sudati. La Medina è’ un labirinto in cui non devi perderti, mai. Il suo cuore è’ nascosto e può essere anche pericoloso per chi si avventura senza consapevolezza, specialmente la sera, quando le stradine che la percorrono si svuotano all’improvviso e i vicoli si trasformano in mano che afferrano, voci che bisbigliano, porte che si aprono e si chiudono velocemente.la place Jemaa el fna, la Piazza, è’ il riferimento che tutti cercano, il porto sicuro a cui tornare , il luogo da cercare per non perdersi, trascinati via dall’Eni fna dei labirinti. La piazza? È’ la domanda che ogni turista continua a fare qui dentro perché non c’è mappa che salvi dai vicoli continui, fatto di nomi nascosti o impronunciabile mi che sembrano sfuggire all’ordine di una cartina. Non si può imporre ordine, alla Medina. È’ selvatica, randagia, sfuggente. Non puoi costringerla in nessuna definizione. Ma piano piano imparo a conoscere alcuni l’unti strategici e perfino a muoverti con disinvoltura nella sua folla. E tuttavia ci sarà sempre l’ignoto ad attenderti dietro ogni angolo perché l’imprevedibilità è’ la sua imprescindibile cifra .
Terra di frontiera: tra cinema e letteratura
Il cinema e la letteratura hanno molte cose in comune. Prima fra tutte, narrano storie. Il registro letterario e quello cinematografico sono diversi, certo, eppure a volte si incrociano, si sfiorano, si sovrappongono. E vivono in una felice condizione “sospesa” in cui il libro si si film e il film si trasforma in libro. Accade poche volte perché ci vuole molto talento. Ci è riuscito Luchino Visconti ne “Il gattopardo”, ad esempio.
Se abbiamo letto il libro, il film solitamente ci deluderà. Perché quel “film” lo abbiamo già visto. Lo abbiamo creato noi. Siamo stati noi stessi lo sceneggiatore, il montatore, il regista, il fonico. Borges (e non solo) sosteneva che il libro appartiene al lettore, più che all’autore. Calvino lo conferma ne Se una notte d’inverno un viaggiatore, uno dei suoi capolavorì assoluti, attraverso un racconto impensabile senza la presenza viva, partecipata, dello stesso lettore. Un libro che “morirebbe” senza il lettore / co – autore.
Difficile accettare la versione cinematografica, per quanto riuscita, di un libro che abbiamo amato senza avvertire una sorta di “tradimento” operato dal regista che altera, manomette, decifra arbitrariamente la narrazione che ha preso vita nella nostra mente, uscendo fuori dalle parole e abitando lo spazio immaginativo in cui personaggi e paesaggi trasformano la parola scritta in carne, sangue, soffio vitale. Quella versione sarà comunque un’effrazione rispetto alla storia che pagina dopo pagina è esistita per noi, soltanto per noi. Ora quella storia viene condivisa da un pubblico più vasto, non è più definita soltanto dallo spazio intimo che ci collega al suo autore (e questo è già un cambiamento sgradito) ma addirittura diventa l’oggetto di altre fantasie, altre immaginazioni, altre visioni. E per quanto la parola scritta sia la stessa, la percezione soggettiva rimarrà sempre individuale, quasi un fatto privato anche se condiviso, così come un tramonto viene filtrato dalla sensibilità sensoriale ( e non solo ) di chi lo guarda.
Certo, narratori più “visivi” come Proust riescono a dare pennellate descrittive così minuziose alla loro “opera su carta” che i lettori saranno inclini a trasformare la scrittura in immagini più simili fra loro. Di fatto, l’immensa, meravigliosa Ricerca proustiana è una galleria di dipinti impressionisti che, come tanti oli su tela, prendono forma e vita pagina dopo pagina.
Anche dopo tantissimi anni, impossibile dimenticare i giochi di luce del sole sui sofisticati drappeggi dell’abito bianco di Odette che, con il suo ombrellino, si staglia fra alberi e foglie.
Eppure , per quanta somiglianza si possa cogliere, la mia Odette non sarà mai uguale alla Odette di un altro lettore.
Ed è per questo che il cinema fatica a combinare il matrimonio perfetto con la letteratura. Chissà, forse perché le nozze con i consanguinei comportano fragilità e deformazioni nel parto creativo che ne consegue.
Ma, quando ci riesce, come accade a Visconti, è magia, alchimia.
Se dunque i film inseguono i libri, li corteggiano, trovano “libera ispirazione” (che diventa anche una difesa davanti all’esito infelice, al risultato che genera malcontento), restano comunque confinati in un mondo vicino eppure ben definito, che sfiora il libro ma non si mescola mai.
E quando cercano di somigliare troppo alla sua cifra stilistica ne escono pesti e impacciati, come accade al film Sostiene Pereira, pallido tentativo di trasposizione cinematografica dell’opera di Tabucchi.
E poi, poi ci sono i casi particolari. I casi in cui accade che l’autore del libro è anche il regista del film. Ed ecco che possiamo, in questo caso, entrare nella mente dello scrittore per vivere poi sullo schermo la storia esattamente così come è stata da lui concepita, immaginata, vissuta.
Per chi, come me, da sempre si appassiona di cinema e letteratura è un evento imperdibile.
Ed è così che sono andata a vedere, incuriosita, Il primo giorno della mia vita, malgrado critici spesso non troppo entusiasti (e sulla critica avrei qualcosa da dire, ma è un’altra storia, troppo lunga, qui, da raccontare.
Non ho letto il libro, lo ammetto. Con la mente vergine di ogni influenza possibile, con occhi profani, mi sono seduta al cinema e ho guardato il film.
Un film che ho trovato bellissimo. Intensa la storia, riusciti i dialoghi, il montaggio, la recitazione (difficile sbagliare con Tony Servilli, Margherita Buy, Valerio Mastrandrea).
Spesso il nostro cinema fatica a trovare una sua dimensione riuscita, assediato dai vizi provinciali della commedia italiana nazional-popolare e la difficoltà nel trovare un ritmo riuscito, un afflato narrativo serrato come quello tipicamente americano, insieme alla difficoltà nel creare espressioni drammatiche e allo stesso minimaliste, lente eppure mai noiose, che il cinema francese frequenta invece con agio e confidenza.
Invece qui, a mio avviso, il regista/scrittore Paolo Genovese riesce a regalarci un film di spessore, che affronta il delicato tema del suicido con malinconica leggerezza. Quella leggerezza che, per dirla con calvino, non è mai banalità ma “gravità senza peso”.
Così come senza peso sono i corpi dei quattro protagonisti morti e non morti, in bilico fra la vita e la morte, il suicidio e il riscatto, in quell’attimo sospeso fra le anse del tempo in cui sembra possibile tornare indietro, rimediare, modificare il passato anche nel suo gesto più estremo.
E se ad alcuni critici non è piaciuto l’enigma perché troppo “misterioso”, quell’enigma irrisolto invece dà ancora più forza al film.
La non eccessiva caratterizzazione dei personaggi, così come quella del misterioso “psicopompo” che accompagna le anime in uno strano aldilà che si snoda invece proprio qui, sulla terra, fra anime di ossa e corpi sudati.
I dialoghi sostengono l’assenza di un’azione robusta, invasiva, e mettono in risalto – ecco – la risonanza fra cinema e letteratura attraverso la forza vivificante della parola. Parola scritta, parola parlata. Parola dal potere immenso, se usata bene, in ogni sua declinazione.
Inquadrature che mettono in risalto la bravura degli attori, musica indovinata che offre suggestione alle scene, tensioni narrative poggiate su scatti e rallentamenti costeggiano la storia e le imprimono forza.
Non ho letto il libro, ripeto. Non è neppure importante.
Quello che conta, per me, è avere l’occasione di sbirciare nell’universo creativo di un narratore unico, che traduce in film la sua opera letteraria.
Non capita tutti i giorni. E, almeno solo per questo, ne vale la pena.
Dal web?
Lo ha detto il web.
Se una volta ‘ lo diceva la televisione, oggi lo ‘ dice il web’.
Viviamo al tempo di un’ umanità sempre più tecnologica, in cui l’homo sapiens diventa homo algorítmicus riducendo i suoi neuroni , sempre più poveri, a un ammasso inutile di fisiologia del postmoderno, in cui il web è’ la nuova religione.
Sembra diventato un gigantesco, terrificante blob in cui la lettura da cellulare costringe a una verticalità che stanca occhi e cervello, frammentando, obbligando a continui passaggi dall’alto in basso che frammentano la coscienza.
E, di fatto, diventiamo incompiuti puzzle di finestre aperte e mai chiuse ( con spifferi che rischiano di farci prendere la polmonite) in cui imperversa un nuovo ‘ citazionismo’ molto pericoloso per la immensa capacità di condivisione istantanea. Un citazionismo spesso fatto di false attribuzioni, come è’ successo anche alla sottoscritta con il suo brano misteriosamente, incautamente attributo ‘ dal web’ a Virginia Woolf ( link da editoria e scrittura) in cui Borges si riduce a uno che scrive come Susanna Tamaro: ‘ Non sai bene se la vita è viaggio, se è sogno, se è attesa, se è un piano che si svolge giorno dopo giorno e non te ne accorgi se non guardando all’indietro. Non sai se ha senso’ . Nel magma delle citazioni fasulle finisce anche Saint Exupery con l’attribuzione al Piccolo Principe di un brano non presente (“Certo che ti farò del male. Certo che me ne farai. Certo che ce ne faremo. Ma questa è la condizione stessa dell’esistenza. Farsi primavera, significa accettare il rischio dell’inverno. Farsi presenza, significa accettare il rischio dell’assenza.”) e che invece appartiene alla sua produzione epistolare.
Mai come oggi è’ stato facile fare il copia e incolla di aforismi e citazioni vantando vantando narcisisticamente una cultura che di fatto non si possiede.
A proposito di web, poi, chi è’ questo ‘ web’?
Ecco che arriviamo alle citazioni più fastidiose. Un copia e incolla legato alla peggior catena di Sant’Antonio, quella che non fermi mai, quella che diventa virale ( il sistema immunitario dell’intelligenza si scontra con il contagio artificiale che conta su mutazioni all’istante) .
Citazioni anonime a cui, in calce, si aggiunge la fantomatica precisazione ‘ dal web’
Ah ecco, così stiamo tranquilli.
Chi è’ questo web? Il web diventa così come lo Stato. Un’entità allo stesso tempo lontana e vicinissima, immanente e trascendente ( a seconda del grado di comodità che ci serve in un dato momento) .
In realtà, il web siamo noi.
Il web ha nomi e cognomi.
Il web va controllato affinché non sia lui a controllare noi.
Vengo dalla vecchia scuola di giornalismo in cui ci hanno insegnato a verificare le fonti, per mia fortuna.
Invece anche per molti colleghi, purtroppo, il web diventa esso stesso una fonte sterile, svuotata della fertile acqua della verifica, del processo di filtro e controllo .
E così ‘ dal web’ rappresenta la manifestazione della società digitale di massa, incapace di dare un nome ( e, in questo caso, cognome) alle cose del mondo.
Anticamente nominare voleva dire animare, cioè ‘ ‘ insufflare anima’ agli uomini e alla natura.
Nei tempi moderni, invece, nominare è’ un po’ come nel salotto del Grande Fratello con i suoi “Vipponi” ( spesso famosi solo a livello condominiale): si entra e si esce in un luogo superficiale in cui gli anonimi del web indicano con superficialità avversioni e gradimenti.
Copiare, diffondere, vantare competenze posticce senza peraltro neanche controllarne l’esattezza è ormai l’agenda del quotidiano di tante, troppe persone.
E la fonte, ridotta ormai a un rubinetto arrugginito, alza bandiera bianca.
Forse, però, Hal 9000 si ribellerà. Il film di Kubrik, profetico, è sempre meno visionario e più realista in questi tempi distonici.
E la ribellione di Hal 9000 sarà l’estrema unzione della nostra arroganza, digitale e “materiale”.
LA STANZA DI VIRGINIA
La pagina La Stanza di Virginia, creata nel 2012, è stata cancellata da facebook perchè ho dimenticato di inserire alcuni aggiornamenti richiesti. Purtroppo il mondo virtuale è talmente "liquido" da scomparire del tutto. Forse un avviso sulla fragilità di questo nostro mondo contemporaneo, in cui tanto, troppo, si scrive e si condivide sui social, e poco si assegna invece al "saper costruire" innanzitutto nella nostra "stanza" interiore. Forse ci sono troppe stanze esibite ovunque quasi pornograficamente eppure vuote di contenuti profondi. Saper accettare ciò che accade è comunque una delle leggi dell'esistenza, perciò non mi resta che ricominciare, con pazienza, a costruire contenuti, condividere progetti, segnalare scritture e scrittori.
Ricominciando proprio da quella "stanza tutta per sé" che Virginia Woolf ha vissuto, difeso, usato per la propria libertà espressiva come donna e come scrittrice.
A volte ci dimentichiamo quanto sia importante avere la nostra stanza. Riempiamo i social di selfie inutili, citazioni rubate, fonti improbabili (quando leggo "dal web" non riesco a non provare una leggera stizza, un moto di risentimento per questa modalità che sembra individuare nel web una realtà plausibile, univoca, mentre si tratta invece di un immenso blob in cui occorre discriminare).
Ecco, tornare invece ad abitare la stanza del nostro intimo sentire, dei nostri giardini segreti su camminano sogni e memorie, ci sottrae forse un poco al disarmonico chiasso delle strade, dei social, di un mondo urlato, mostrato, vissuto con pugno di ferro in cui si "perde la tenerezza". Tornare alla nostra fragilità. al dialogo con le nostre parti interiori, è un ritorno a casa ogni volta che ci perdiamo nella tempesta. Non c'è nessuna Penelope ad attenderci. Siamo noi il nostro Ulisse e la nostra Penelope. Dobbiamo illuminare i nostri mondi interiori, portare luce dove c'è ombra, e continuare a camminare nell'esistenza cercando di scansare il banale.
La letteratura non ci salva, ma aiuta. La scrittura assolve la stessa funzione. Esorcizza traumi , lutti e paure, fissando la bellezza nelle parole che, altrimenti, migrerebbero via, perdute in voli lontani.
La nostra stanza va sempre pulita. Dobbiamo aprire le finestre, gettare via ciò che non serve più, sottrarre al tempo la polvere e le memorie.
E così, insieme a questa stanza su facebook, approfitto di questa forzata occasione per un rinnovamento. Curiosa, man mano, di misurare i passi compiuti. E quelli in cui invece sono inciampata.
Consapevole, però, che di notte ci saranno sempre le stelle, non importa quante nubi si abbassino sopra la testa.
Francesca
CHE CI FACCIO QUI?
Salone internazionale del libro. Anno 2000. Sono allo stand di Adelphi, una delle case editrici che amo di più. Un ragazzo dello
staff mi regala un poster di Bruce Chatwin, di cui da sempre colleziono tutti i libri, per mestiere e per passione. Lo afferro con mani tremanti, gli occhi commossi. Non immagina cosa significa per me quel pezzo di carta stampata.
La foto, famosa, lo ritrae con i suoi "pazzi,pazzi occhi da esploratore dell'Ottocento", come scrive Shakespeare che allo scrittore inglese ha dedicato una lunga, intensa, partecipata biografia. Appesi sulla spalla, gli scarponcini da viaggio.
Da quel giorno, il poster di Chatwin mi ha seguita ovunque. E' stato con me nelle case che ho abitato, nelle città in cui ho vissuto. E' per me ispirazione, risorsa, respiro.
"Che ci faccio qui"? è il titolo del libro di Adelphi che di Chatwin ha pubblicato diverse opere. Un libro immenso, immenso come lui.
Viaggiatore, scrittore, nevrotico poeta della vita e ammiratore del nomadismo come ritorno, ossimorico, alle radici stesse della nostra esistenza, Chatwin ha girato il mondo in lungo e in largo. Lo ha raccontato nei suoi taccuini, lo ha nominato, reso vivente, così come fanno i suoi aborigeni australiani in "Le vie dei canti", lo ha ispezionato attraverso indimenticati ritratti antropologici mescolati alle descrizioni di paesaggi vibranti.
"Perchè divento irrequieto dopo un mese nello stesso posto, insopportabile dopo due?".
Già. Il nomadismo era per lui un'esigenza, la sua "anatomia dell'irrequietezza" lo ha portato ovunque, dall'Australia alla Terra del Fuoco.
I viaggiatori, quelli veri, sono sempre soli. Non si spostano in massa, non leggono le guide turistiche. Semplicemente, si tuffano nell'inedito per spostare gli orizzonti più in là.
A proposito di orizzonti, Frida Khalo scriveva: "Dove tu vedi confini io disegno orizzonti". Anche per Chatwin era così.
La sua passione per l'ignoto, per l'incontro con l'altro da sé, è stata la stella polare della sua esistenza. Era un poeta del "diverso", Chatwin. Aveva una scrittura visiva, non a caso le sue fotografie sono intense, bellissime, illuminate da giochi cromatici che facevano da specchio al suo passato di amante dell'arte nelle gallerie londinesi. Annusava, così come fanno gli animali per conoscere un territorio, sentiva, scriveva.
"Che ci faccio qui?" è la domanda che ogni viaggiatore vero, geografico e anche mentale, si deve fare. Sempre.
E' LA DOMANDA. Un po' come quella che Trinity rivolge a Neo. E' la domanda che ci fa uscire dalla Matrix di abitudini che finiscono con l'appiattirci,facendo della vita un quotidiano sbiadito, con il cielo che si abbassa un po' di più.
Che ci facciamo qui? In questa casa (per Chatwin la casa era una "perversione", un luogo "in cui appendere il cappello "), in questa città, in questo paese, in questo pianeta...
I viaggiatori veri si sentono sempre un po' stranieri in casa. Forse perchè la loro vera casa non è qui ma sulle stelle. Non c'è nessuna astronave che verrà a prenderlI, come accade a Et, ma qualche cuore innocente, come quello del bambino che ne capta il linguaggio segreto, riconoscerà l'alfabeto dell'anima randagia che nel viaggio cerca le parti smarrite di sé, e quelle che deve ancora incontrare. Quei cuori si incontrano spesso, quando si viaggia in solitaria. Perchè spostarsi in due, o in massa, non cambia di certo il risultato: portando un pezzo di "casa" con noi ci apriamo in modo diverso alle esperienze, trascinando alcune familiartià che invecem, per il momento, vanno dismesse. E' da soli che diventiamo esploratori, esploratori del mondo esterno che apre nuovi spicchi di terra anche dentro di noi, mutandone le geometrie.
In questo senso il viaggi ci riconduce alla sacralità della vita perchè ci mette davanti a noi stessi, ci spoglia delle certezze, delle abitudini, per saggiare limiti e vastità che sono innanzitutto dentro noi stessi.
Negli ultimi venti anni le neuroscienze hanno mostrato sempre di più come la neuroplasticità del cervello. E se lo stimolo (buono) ne favorisce le sinapsi, l'assenza di stimoli lo uccide. E in un mondo sempre più digitale, robotizzato, il viaggio, quello vero, diventa esorcismo per scongiurare la perdità di umanità che ci sta consegnando a uyna dervia antropologica mai vissuta prima.
Ecco allora che camminare, viaggiare in treno, prendere un aereo per incontrare culture diverse, ci restituisce a una dimensione che vuole sottrarsi al livellamento globale imposto da cellulari, social, applicazioni.
Che ci faccio qui?
Cerco di essere, innanzitutto. E cerco di conoscere la meraviglia del pianeta di cui faccio parte.
Il viaggio, il viaggio vero, ci aiuta a essere custodi e testimoni migliori di un mondo che l'uomo sta distruggendo.
Il viaggiatore autentico è, innanzitutto, un poeta che usa il linguaggio del cielo, del mare, della sabbia e del vento.
Ogni giorno si chiederà il senso della sua stessa esuistenza.
Ogni momento.
Ogni ora.
Ogni istante.
Modificherò il Sahara per te
Io ti saluto così. A modo mio. Tornero' a cercarti fra le dune del Sahara. E lì, lì io ti troverò. Sarai in quel "battesimo della solitudine" che mi insegnasti a cercare, senza guida e cammellieri. "Vai via, resta sola, non dare retta a nessuno. Cerca il battesimo del silenzio". L'ho fatto. Ed è stato stupore, beata sospensione di ogni mutamento, ogni assillo, ogni divenire in cui si frammenta questa esistenza così misteriosa. In quello spazio di sabbia rossa l'origine e la fine si incontrano e lasciano spazio a un abbagliante stupore in cui si affaccia la vastità di ciò che ci presiede, e ci avvolge, da sempre. E il respiro si ferma, gli occhi si sgranano, il tempo si distende lungo la linea dell'orizzonte curvata nella poesia che solo le braccia generose del deserto sanno offrire. Ti cercherò lì. Ti troverò. Io so che sei lì. Sei in ogni passo sulla sabbia e in ogni orma che scompare via. Sei in ogni stella stampata nel cielo sopra la tenda, e in ogni flauto soffiato dal vento. Tu sei nel Sahara, il Sahara è in te. Non sono per tutti, i deserti. Sono fatti per i poeti, per i camminatori. E tu eri un poeta e un camminatore. Di quelli veri, antichi, preziosi in questo mondo vano e superficiale. Tu sei stato il mio poeta del deserto, il mio ispiratore. Non è facile capire la festa interiore accesa da quello spazio irreale che ti avvicina a quello che ognuno chiama come vuole, ma che esiste, e lì si disvela. Quel bagliore di infinito ti resta addosso per sempre. Ti immagino ora nel più importante dei tuoi viaggi, il più ardito e impegnativo. Il vero viaggio dell'ignoto, dei silenzi, della contemplazione. Sei partito con uno zaino imbottito di persone con cui hai fatto strada e scambiato cuore. Non è poco, sai? E' il tuo Sahara, adesso. Soltanto tuo.
"Ho spostato un granello di sabbia e ho modificato il Sahara", scriveva Borges. Sposterò un granello di sabbia e modificherò il Sahara per te.
Ciao, zio. Buon viaggio.
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