E se la crisi diventa profondità?
Le persone profonde fanno fatica a stare a galla. Vero. Sono inseguite dal disagio, dal dolore, da quella punta irritativa che buca sempre la pelle. Questo mondo, così com’è, come lo abbiamo voluto, è fatto per i superficiali. Per quelli che ancora credono che vivere sia un tuffo nella “Milano da bere”, una passeggiata nel Mulino Bianco con i suoi biscottini fatati, mentre tutto intorno a me, a te, la Vodafone. Ma che c’è, lì, tutto intorno a noi? Un sacco di merda. Ed è quella merda che, come un alchimista, devi trasformare in oro. Sempre che tu riesca a creare un varco nel cerchio di Mediolanum, eh già, perché tu sei un puntino al centro, circondato, anzi accerchiato, da quelle associazioni a delinquere chiamate Banche, circondato da questo mondo economico e finanziario che casca a pezzi, come l’intonaco di una vecchia casa che non vogliamo cambiare. La crisi economica, forse, in mezzo a tanta angoscia ci aiuta a togliere i totem che ci hanno anestetizzato per anni, tanti, troppi anni. E ancora crediamo in un mondo fatto di successi ( o su – cessi?) patinati, pettinati, fatti in serie come una Coca Cola? Quelli che si sono svegliati a ceffoni adesso stanno accanto a quelli che, anche quando le vacche avevano la ciccia addosso (che grasse grasse, da noi, non sono state mai), dubitano, dubitano di un mondo fatto solo per i narcisi, i menefreghisti, gli acrobati, gli artisti dell’individualismo e del qualunquismo, del furto al prossimo perché importa solo arrivare alla meta.
Il circo è scoppiato. Bene, forse ritroveremo il sapore antico di qualche valore finito nel sottosuolo. O forse no, forse, come adesso, cercheremo di pensare che tutto tornerà come prima, e che il Produco Consumo Ergo Sono proseguirà, indenne, la sua corsa folle contro un muro che non sarà fatto di gomma.
In tutta questa ansia per il futuro, forse la vera domanda da porsi è la solita, vecchia domanda: chi sono? Dove vado? Ma, ancora meglio: dove sono? Dove sono, ora, dentro di me?
I disadattati, quelli che sembrano sempre gli eterni perdenti perché non si trovano a proprio agio nell’oceano di squali, hanno almeno capito la grande truffa di un sistema che all’uomo ha tolto la cosa più preziosa: la sua umanità. Einstein diceva: “dobbiamo diventare campioni di umanità”. Prima ancora che eccelsi scienziati, professori, manager, comunicatori… dobbiamo essere campioni di umanità.
Invece siamo diventati come i Replicanti, sordi a qualunque test emotivo.
Campioni di umanità. Il dolore, quello vero, ha due strade: o ti chiude per sempre dentro te stesso o ti rende solidale. Peccato che, per noi, la solidarietà nata da una comune tragedia ha gli stessi tempi di un lutto, che nel giro di un anno viene comunque elaborato psichicamente; poi, tutto torna come prima.
Come per l’11 Settembre, “siamo tutti americani”. Siamo tutti uniti, solidali. E, alla fine, ciao, arrivederci, è stato un piacere. Perché è sempre così, che funziona. Le grandi tragedie creano una empatia con scadenza. Come uno yogurt che a un certo punto diventa rancido e va buttato via.
Peccato, perché se ci ricordassimo, ogni giorno, quel senso di unione, di dolorosa unione, forse saremmo quei campioni di umanità che, alla fine, sono davvero più preziosi di tutto.
Le persone intelligenti, sensibili, faticano a trovare gli spazi in un contesto che sgomita, sgomita, e opprime il prossimo per portare avanti se stesso.
Io, Io, Io.
I Pad. I Pod. I Phone.
E invece ci sono anche gli altri. Basta aprire gli occhietti per vederli. Camminano accanto a noi, ogni giorno.
Solo che, mentre corriamo, non li vediamo.
(Francesca Pacini)
Quelli che Facebook
Sicuramente la lista di amici su facebook si assottiglia dopo queste parole, ma ben venga: viaggiare leggeri è sempre un bene. Sono stanca di vedere il trionfo dell’Io, in questo valzer di banalità ed estensioni narcise. Se questo è un luogo democratico dove ognuno può dire la sua, anche io dico la mia. Apro la pagina e trovo piedi nell’acqua, costumi su una roccia, foto di colazioni pranzi cene e spuntini, frasi interessanti e significative per l’umanità come: Sto lavorando, Mi è uscito un punto nero, Ho mal di testa. Benissimo. Viva la libertà. C’è anche la libertà di dire, però: Dio che tristezza. Tutta questa epilessia fotografica e scribacchina ha un rovescio della medaglia, ci fa pensare di esistere solo se siamo qui, in “condivisione”. Ma quale “condivisione”? un Mi piace è davvero una condivisione? Ben vengano foto, video, stati d’animo e informazioni da passare, ma ci vuole un po’ di antico senso del pudore, e un pizzico di quella discrimazione necessaria a non diventare bulimici e acefali. Così restano la foto veramente carina (e non la sequenza di pose giornaliere per Vogue o per Il Libro della Cucina), l’album da far vedere agli amici, le riflessioni divertenti, quelle più serie. Insomma, quelle che traggono spunto da un fatto doloroso e comune, o che usano il sale dell’ironia sulla vita (che fa sempre bene) o che, e sono quelli che amo di più, condividono fatti importanti da conoscere, per intervenire. Certo, Facebook è anche arte del cazzeggio, del sano cazzeggio, ma se diventa, anche questo, unico strumento dell’Ego per sgomitare e farsi vedere, beh, allora parte della sua intelligenza si annacqua, diventa insipida.
Spocchie editoriali
Quando ero piccola, con il naso infilato nei libri, pensavo che la letteratura fosse il migliore dei mondi possibili. Ci sono cresciuta, fra i libri. I libri di mio nonno, della sua bella libreria che si chiamava “Sapere”. Una libreria d’altri tempi, in cui quando entravi non ti chiedevano di recitare lo spelling di Borges, e non ti guardavano con le facce da tonti se per caso chiedevi qualche consiglio. Lui, mio nonno, sempre curvo, sempre a leggere, sempre a studiare e consigliare, era il mio piccolo faro che accendeva un mondo che imparai presto, prestissimo, a conoscere.
Entravo nelle storie che leggevo, mi accucciavo in mezzo alle righe, facendomi spazio talvolta fra le vocali e le consonanti, appoggiata col fiato sospeso a quelle parole di carta che mi incantavano. La magia delle parole non si impara. La magia delle parole si ascolta. Vibra dentro di noi, percorre la pelle come un sussurro leggero, ci accarezza i capelli e gli occhi stanchi. Man mano sono diventata amica di tutti gli scrittori che ho letto, li ho frequentati con una confidenza costante, come una ripetuta, quotidiana, ora del tè con le amiche. Da grande, pensavo, voglio vivere in questi mondi profumati di storie.
A volte accade di realizzare quello che sogniamo da piccoli. Accade così, per ventura, per un gioco bizzarro della vita che ti getta, un giorno, in un posto, e in quel posto ritrovi un sapore che ti è familiare.
Ci ho lavorato, con quelle parole e quei libri che inseguivo da piccola. E tuttavia, tuttavia ero ancora infarcita di un romanticismo lievemente imbecille, col senno di poi. Un idealismo ingenuo, in cui editori e scrittori brillavano alla magnifica luce della Letteratura.
Non sempre, però, leggere tanti libri ci fa essere persone più meritevoli di altri. La cultura non significa, di per sé, allargamento della coscienza, perché l’Ego, in queste geografie, cresce a dismisura e alla fine trionfa.
E così mi sono resa conto che editori e scrittori non galoppavano sul bianco cavallo dell’Intelletto ma vomitavano ansie, pretese, ambizioni. E spocchia. Tanta spocchia.
C’erano (e ci sono ancora, qui a Roma) editori che magnificavano le librerie con le loro belle collane sui diritti civili, e nel frattempo tenevano in nero il loro ufficio stampa e facevano lavorare gratis un esercito di ragazzini, c’erano scrittori i cui confini terminavano nel perimetro neuronale che li definiva; c’erano persone che usavano il libro e le storie degli altri per non guardare sé stessi. E, soprattutto, c’era quell’amaro mare di spocchia. Sono stata fortunata, ho lavorato bene e guadagnato bene, ma intorno a me continuavo a vedere il massacro di editor e redattori costretti ai lavori forzati per un pugno di euro. In nome della cultura si lavora, e si guadagna, come in ogni altro mestiere. Invece, in Italia, è previsto un nobile sacrificio del portafoglio al servizio della Conoscenza. Un masochismo imperante che assolda nugoli di persone pronte a farsi straccione in nome del Libro. A me non è capitato, non lo avrei accettato, ma assistere, spesso e malvolentieri, allo sfracellarsi degli altrui sogni (parlo di amici e colleghi) è stato duro, a volte durissimo.
E ancora oggi mi domando per quale strano motivo, nella testa di molti, chi fa libri debba essere migliore di altri.
Non lo è. Ciò che ci rende migliori non è ciò che abbiamo letto, ma cosa, di quelle letture è rimasto.
Soprattutto, non è con la presunzione intellettuale che si cresce, si va avanti. La vita è strana però perché non sempre ciò che appare “fuori” corrisponde a ciò che appare “dentro” e capita che chi scende invece sale, e chi sale scende. Toh, com’è buffa la vita.
Dipende da ciò che stiamo guardando.
Di quel periodo, non molto lontano, ricordo le gioie ma anche i malumori dovuti alla pretesa, nell’ambiente, di essere continuamente i più belli, i più bravi, i più intelligenti “perché facciamo libri”.
No, fare libri non ci rende superiori a nessuno. E se te ne accorgi sei fortunato. Altrimenti, continui a girare con nasino all’insù senza guardare le ombre che ti trascini dietro.
Mi capita ancora di insegnare scrittura e redazione, o di fare qualche editing. Ma da quel mondo sono comunque uscita. Ho conservato (pochi) amici veri, persone umili, ironiche, che non hanno mai perso il senso e la misura del mondo intorno. Sì, il mondo intorno al libro, quello fatto di redattori sottopagati, di corsi fatti perché insegni agli altri un mestiere con cui tu stesso non riesci a vivere (e come li guardi in faccia, quei ragazzi?), di sette editoriali da cui non devi mai uscire pena la scomunica intellettuale. Di una cerchia chiusa che non vuole contaminarsi con le puzze degli altri, di quelli “che non fanno cultura”.
Loro, questi amici, questi colleghi, hanno saputo guardare oltre l’icona di ciò che facevano, e l’hanno tirata giù, l’hanno pestata e le hanno donato un senso più reale.
E hanno capito che c’era anche un altro mondo, là fuori, fuori dalle alchimie espressive, dalle dorate pagine delle storie più belle, dai messaggi profondi che si incidevano sulla carta stampata. C’era un mondo vero, un mondo vero fatto di sfruttamenti e incoerenze, piagato dall’arroganza e da un falso senso di superiorità.
E, come me, hanno sentito poi che il libro non è né l’origine né la fine della vita, di ogni vita, della mia, della tua, della nostra; ma è solo un mezzo. Un mezzo sublime, eccellente, profumato di cielo. Ma un mezzo.
Uno strumento. Perché la vita “vera” non è quella che leggiamo, è quella che viviamo. Vivere e agire, questo dimostra chi siamo.
E’ nella nostra carne, nei nostri errori, nei nostri atteggiamenti. Se ne frega se conosciamo a memoria il pensiero di Kant e le poesie della Dickinson, o le tecniche espressive di Proust.
Esiste una fisiognomica delle azioni, e non sbaglia mai. Ciò che leggiamo, invece, se non si traduce, se resta sospeso nella riga di un libro, non serve a nulla, proprio a nulla. E quante vite, in quel mondo, non coincidevano affatto con quei nasi all’insù e la beata (e autoproclamata) assunzione celeste.
Amo i libri, li amerò sempre. E sempre scriverò, e continuerà a essere anche un mestiere.
Ma quando ripenso alla ragazzina che ero, alla sua visione ideale di un mondo di carta migliore, penso che ho lasciato pezzi di me ma che, alla fine, sono più ricca.
I disuguali
Cercavo, sempre, di capire chi fossero i “disuguali”. Quelli che non si adattano, che non riescono mai, nella vita, a somigliare ad altre persone, a gruppi, a società intere. Rimangono sempre così, sospesi a metà, affacciati su qualcosa che riescono a capire, a penetrare, ad accogliere come un fuoco in una notte ghiacciata che però, a un certo punto, diventa fiammella sottile, con quel rosso guizzante che diventa blu e poi diventa nulla, sfuma nella notte del tempo e dell’anima. E quando la fiamma scompare, se ne vanno anche loro. Se ne vanno perché sentono che appartengono a un altrove indefinito, non perimetrabile, sconosciuto alle misure di cui ci serviamo per contenere, contare, salvare l’ansia d’ignoto che ci attanaglia.
Loro, i “disuguali”, sono animati da un nomadismo che galoppa su geografie interiori, appoggiate solo casualmente su quelle esterne, di cui sono matrice e allo stesso tempo estensione.
Queste anime sparse, distanti fra loro, così distanti che sembra quasi che un dio crudele le abbia gettate a caso nella vita, sparpagliandole nelle latitudini più impossibili, assurde, fino alla curva convessa del mondo, si cercano senza trovarsi, inquiete, curiose, bruciate dalla conoscenza precoce che solleva il velo dei giorni innocenti fatti di stelle e di luna e mostra, nella luce spietata del mezzogiorno, l’aspra verità delle cose.
Sono le persone che sanno, quelle che non si nascondono nelle certezze facili, etichettate, servite a dovere come una quotidiana pietanza. Come tutti i ribelli, conoscono la loro sorte, che non ha il soave profumo del lieto fine, di quella speranza che rende mobili le acque stagnanti dei dolori accennando, mentre si piange e si soffre, a una modifica in corso, non ancora visibile eppure possibile. E allora la lacrima tace mentre si guarda a un futuro diverso. Invece Non ci sono possibilità, per loro, al di fuori dell’unica sicurezza: il movimento continuo, dentro e fuori, in un esilio fisiologico, che tesse le trame di sangue e di carne, che orna i capelli, che respira lo stesso respiro.
E nella solitudine ritrovano moltitudini di essenze, giochi e leggerezze senza nessuna appartenenza, profondità invitanti in cui tuffarsi dondolandosi nelle anse del tempo.
Mentre gli altri si affannano, saltando e scendendo giù rapidissimi, agilissimi, come un capretto in cima a una roccia, loro guardano, e a volte rincorrono morsi di vita interrogando la margherita dei giorni sulla loro sorte: felice o infelice, arrivato o partito, prendere o lasciare…
Perché la vita, in fondo, è sempre un bilico tra il lasciare e il prendere. E se prendi troppo ti ingolfi, diventi ridicolo come certe costruzioni barocche, come i lussi di pochi imbecilli che credono che il mondo sia grande quanto il diamante che portano al dito, mentre un’altra massa di imbecilli invidia loro la circonferenza di quel diamante in cui si pensa nasca e finisca tutto. Ma se lasci, se lasci sul serio, ti accorgi che non avere più nulla ti rende invulnerabile e allo stesso così fragile, così esposto alle stagioni che passando lasciano segni più aspri, ragnatele sulla faccia ma anche nell’anima. Lasciare è difficile.
Così anche loro, i “disuguali”, a volte preferiscono prendere, pur sapendo che un momentaneo, illusorio conforto è debole come il petalo della margherita che per quella risposta hanno staccato.
Poi ricominciano, ricominciano con i loro eterni dubbi, le mai sopite domande, e partono. Partono ancora, in cerca di un nessun dove.
La mia Russia
Certe città da subito ti si intrufolano nel cuore, diventano il tuo stesso cuore. Ti battono nel petto, tum tum tum, come un tamburo familiare fatto della tua stessa carne. Tum tum tum. Della tua stessa anima. Tum tum tum. San Pietroburgo, era ciò che cercavo. Finalmente la mia anima, li, era in pace., distesa tra gli azzurri e i bianchi, allungata sulla neve, come un pensiero soffice che si addormenta su un sogno. A San Pietroburgo, si. Me lo aveva detto, un amico, che avevo l’anima russa. Ma quante stupidaggini avevo sentito, quanti pregiudizi. E pensavo che fra il comunismo e il consumismo i miei amori non fossero sopravvissuti. Pensavo che la letteratura dei grandi romanzieri ottocenteschi fosse finita fra le memorie di un sottosuolo dimenticato, come quello raccontati da Dostoesvkij, così come la musica fatta di esaltazioni, drammi, passioni estreme. E invece, invece ho ritrovato tutte le stagioni dei miei antichi amori.
Erano lì, fra le facce della gente, nel battito d’ ala di uccelli in volo accanto a una vecchia babuschka che nel viale gelato offriva la mano al cielo, coi suoi grani di pane insieme a qualche chicco di solitudine. Nelle guglie delle chiese, negli angoli delle strade meno battute, accanto ai canali di acqua immobile, congelata come un dolore vecchio che non fa piu’ male. Nelle facce delle donne anziane, con i loro occhi di perla e i foulard in testa, che camminano sobrie, fiere ma allo stesso tempo delicate, misteriose come misteriosa e’ questa magica terra. Qui, a nord, nei bagliori di un congedo invernale, la mia anima si e’ orientata, ha trovato la sua stella polare. Nel silenzio luminoso, nella solitudine piu’ curativa che c’e. E di fatto il nord, il ero nord, e’ silenzio e solitudine. Ma e’ una solitudine bella, un invito a passeggiare nell’anima mentre il vento che soffia si porta via tutto e lascia spazio a un vuoto che riempie. Si’, mi sono sentita piena di nulla. Meravigliosamente piena di nulla. Libera come le nuvole in corsa nel cielo. Russia. Un nome che evoca suggestioni lontane ma anche paure. Il suo passato tragico ma sempre orgoglioso, dignitoso, le sue ferite che a colte somigliano alle miei, i suoi tragici drammi, la forza di resurrezione dopo ogni sbaglio, ogni cambiamento veloce, pagato con il prezzo di brandelli di carne strappata via. Sembra quasi, a volte, che certi popoli proprio davanti alle assenze coltivino, in segreto, le loro presenze. E l’anima russa c’è. Esiste al di la’ delle nuove frenesie capitaliste, delle passioni per i marchi e il lusso sfrenato. E penso a come ci facciamo certe idee plasmandole con gli stupidi racconti di altri. Di questa gente, di questa terra, ho sentito di tutto. E invece ecco che mi ha sorpreso con la ritrovata solidarietà di noi anime perse, sempre in bilico su un mondo rumoroso che vuole costringerci a nascondere, come un oltraggio, come un segno scarlatto, la nostra poesia. I silenzi dell’anima, al freddo, diventano piu’ ampi, sono giardini in cui sbocciano primavere diverse. Come sembrava lontana e caciarona l’Italia, queste sere, mentre dalla finestra del mio hotel sul canale sentivo passare, con una cadenza quasi costante, perfetta, gli zoccoli dei cavalli. La prima volta ho pensato a un’allucinazione, a una fantasia delle orecchie, alla memoria di un dottor Zivago sempre presente nella collezione degli amori miei. Invece erano li, cavalli e cavalieri. Gente qualunque che, di notte, trottava lungo il canale, nel silenzio interrotto solo dagli zoccoli in movimento. Ho pensato alla scena surreale, meravigliosa, in cui Johnny Depp percorre una Parigi notturna col suo cavallo bianco nel film the man Who cryed, troppo malinconico, forse, per essere amato da una massa che vuole sempre speranza e lieto fine, anche nei film. Ora che ci penso, anche lei, la protagonista, e’ una ebrea russa che, nella Parigi minacciata dai nazisti, incrocia la sua diversità con quella di lui, lo zingaro. Entrambi diversi, diversi da tutti. Un film per anime poetiche. Delicatissimo. Un film che mi ha fatto piangere. Come ho pianto nella camera studio di Dostoevskij, l’altro giorno, nella sua casa museo. Fra quelle mura sentivo quasi il so fantasma, la sua presenza forte, eterna, fuori da ogni spazio e ogni tempo, circolare come l’eternità che ci aspetta mentre ci lasciamo ingannare dalla linea retta. La sua scrivania, i suoi libri, il letto in cui, il giorno della sua morte, ha saputo rendere l’anima a quel dio comunque sentito, quasi sfidato nella sua ricognizione letteraria nelle terre dei rimorsi e delle colpe. Per lui indagare l’uomo bastava a dare un senso alla vita. Aveva ragione, perché nel mistero di ognuno si trova il mistero di tutto.
E diceva una cosa, diceva che non basta guardare la faccia di un uomo, ne’ ascoltarne le parole, per sentire la sua essenza. Bisogna guardare il suo sorriso. In quel luogo, si nasconde ogni arcano. Lo faccio sempre, io. Osservo i sorrisi che a volte sono come tagli sulla faccia, che quasi la costringono a disegna quello spazio inutile in cui non ira nessun cuore, nessuna gioia, nessuna apertura reale. E ci sono sorrisi che divampano dentro come un fuoco, e accendono e scaldano e cuociono ogni falsità, come una fiamma purificatrice. Li ho guardati, i sorrisi del russi. Sono sorrisi belli. Leali. Arcani. E umili. Il cuore non ha sempre bisogno di emozioni sguaiate, specie il cuore collegato direttamente con l’anima. A San Pietroburgo, nelle sue atmosfere fiabesche sono uscita fuori dal mio tempo che corre, e ho incontrato la casa dell’anima. E sembrerà pazzo, sembrerà strano, ma io qui ci ho già vissuto, in un tempo antico, come antico e’ il cuore dell’anima russa. Come antica e’ l’anima mia. La luce bianca, qui, veglia su tutto, questa luce particolare che mescola tutti gli azzurri del mondo e li rende quasi invisibili. Un biancore quasi irreale, che domina sui grigi del cielo. E quando il sole, raro, brilla accende tutti i colori mantenendo la sua luce particolare, come se Caravaggio avesse dipinto questo Nord con la sua tavolozza. Sono appena partita e già voglio tornare.
L’INSOSTENIBILE ASSENZA DELL’ESSERE
Riflettevo, questi giorni, su come la nostra vita sia ormai disperatamente ”mediata”, filtrata: è tutto un medium, un mezzo che ci avvicina ma che paradossalmente ci separa dalla realtà: televisioni, telefonini, radioline varie, I mac pod I pad I am? I am. Ne siamo sicuri? Nella ressa scribacchina e condivisoria di facebook, non siamo più certi di esistere se non siamo in Rete: se stiamo vivendo qualcosa, pensiamo subito: “devo metterlo su facebook!” e quindi filmiamo, fotografiamo, postiamo…L’idea di catturare la realtà dell’esperienza che stiamo vivendo alla fine ci distoglie dall’esperienza stessa. Terzani diceva che alcuni popoli tribali detestano essere fotografati perchè dicono che “la fotografia ruba l’anima”. E oggi è tutto un fotografare tutto, dai piedi alle salsicce cucinate per cena al cartello visto per strada fino al neo che abbiamo sulla pelle. Tutto diventa una sorta turismo collettivo, quasi come fossimo replicanti dei giapponesi con la loro eterna passione per lo scatto imbecille, quello che non serve a nulla. E penso al poeta turco Hikmet, che diceva, in una poesia, a suo figlio Mehmet: “Non vivere su questa terra come fossi un turista”. E poi si condivide, certo, e si contano i “mi piace” e i commenti e allora se ci sono, ecco, ecco, esistiamo, quasi come se ciò avvalorasse l’esperienza, come se servisse la certificazione di un facebook o di un twitter per confermare la vita. E mi chiedo, mi chiedo sul serio: stiamo davvero amplificando le nostre esperienze o le stiamo perdendo? Il presente, quel meraviglioso “attimo fuggente” che non si ripeterà mai più, unico e irripetibile, vuole un contatto profondo, totalizzante, non vuole essere registrato, filmato, fotografato, schiaffato su youtube. Specie se questo comporta il mediare, appunto, il contatto tra noi e lui, servendoci selvaggiamente di mezzi e tecnologie. Recentemente ero a Notre Dame, ed ero capitata lì nell’orario della funzione serale: non c’era bisogno di appartenere a nessuna religione specifica per sentire la magia di quelle architetture verticali in cui rimbalzava, con magici echi, la voce scortata dall’organo, che si diffondeva fra gli archi che univano la terra al cielo. E tutti i turisti, invece, a preoccuparsi solo di riprendere tutto con i telefonini, di invadere con i flash (peraltro vietati) trasformando il momento in un Circo tecnologico, un “pigia pigia” “scatta scatta” frenetico . Ma cosa sarebbe rimasto al di là della memoria catturata? Catturata, appunto. Imprigionata in una rete di flash e di videocamere.
La smania di usare le tecnologie per confermare noi stessi al mondo rischia di renderci orfani di quello stesso mondo che pensiamo di “penetrare”.
Così, viviamo distraendoci continuamente perché ogni cosa diventa un mezzo per mostrare a noi stessi e agli altri che ci siamo davvero. E no, invece non ci siamo. Non ci siamo per niente. I “momenti di essere” non sono, e non saranno mai, fotografati. Saranno semplicemente vissuti e resteranno nel cuore. Lì, in quel posto, non c’è nessun “Mi piace”, “Non mi piace”. Semplicemente, è.
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