Cambiare?
Ogni volta che penso al tema del cambiamento vado un po’ in crisi, lo ammetto. Si può cambiare? Possiamo realmente cambiare noi stessi? E se sì, fino a che punto?
Se guardo indietro, trovo sempre la stessa Francesca con il suo carattere passionale impulsivo, poco incline all’ordine e agli ordini, Eppure, eppure qualcosa è cambiato. E nell’accostarmici incontro la malinconia. Non può non essere così. Con gli anni, la prima cosa che cambia (per fortuna) è il dimagrimento di quel senso di onnipotenza che a vent’anni ci vede sul tetto del mondo. Scesi (o rotolati giù) dal tetto vediamo le cose in modo diverso, siamo più fragili ma sicuramente più veri. Ma ciò che cambia davvero è solo il nostro modo di guardare le cose, ed è già un gran cambiamento! Vedere il vecchio con occhi nuovi: che salto.
E invece, certo, vorremmo cambiare ben altro, dentro e fuori. I nostri vizi, le nostre ombre, le nostre paure… Si possono affrontare meglio, ma non se andranno. Noi, non ce ne andremo. La nostra storia, fisica e psichica, respira con noi, ci accompagna. Liberarsene è impossibile. L’unica cosa possibile è accoglierci, così come siamo, e tentare disperatamente di allargare lo sguardo, cercando di spingere un po’ più in là l’orizzonte.
Il resto, è illusione.
Il tempo e il dolore sono maestri, si dice. Vero: ci insegnano i limiti delle cose, la relatività di questo mondo.
Capire questo è un bel cambiamento. Non pretendiamo troppo da noi, ma nemmeno poco.
I BLA BLA DELLA TUTTOLOGIA
Socrate: Io so di non sapere
Non sopporto più la gente che sa. Che sa tutto. Di ogni cosa. Dalla cosmetica alla politica, dall’arte all’entomologia, dal feng shui al Kazakistan.
Basta. Basta, per carità.
Oggi si parla di tutto, con tutti. Ovunque. Certo le nuove tecnologie non ci aiutano, con le chat gli sms gli ogm.
Tante parole, fatte di cosa in realtà? Per conoscere bene qualcosa, qualunque cosa, ci vuole tempo. Ci vuole l’esperienza che si fa sulla pelle, la rende consapevole, insieme alla testa, di qualcosa.
Parlare può essere un’esperienza vuota come uno stomaco dopo il pasto saltato.
ma noi insistiamo. A dire, ovunque.
Ma tutto questo “sapere” fa male. Perché non è sapere. Non è conoscere. E’ intuire vagamente qualcosa, sommersi da informazioni che incrostano i nostri cervelli.
E’ così bello, a volte, non sapere. Solo tacere. E ascoltare. E, magari, sentire davvero qualcosa.
ITALIA ITALIETTA MIA?
Non mi riconosco più in questa Italia depressa, qualunquista e menefreghista.
Sempre pronta a criticare senza scegliere la difficile arte del "fare".
Governata da ladri e briganti che – toh – ha sempre scelto lei.
Lei, antica signora di eleganti fattezze, oggi stracciona, scalza, spettinata e
stanca.
Questa Italia alla deriva, sbilanciata, solcata da nuovi e vecchi rancori.
Canaglia, furbetta e malandrina.
Serva di Stato e dama di corte privata.
Puttana di strada, a volte.
E, sempre, corridoio di idee che non trovano né porte, né sbocchi.
Italia malata che non muore mai, eternamente appesa a macchine che respirano per lei.
Italia di cafoni e di snob, senza mezze misure.
Di omolgazioni e quotidiane piccinerie.
Di città che si credono villaggi
e villaggi in cui i vicini non riconoscono i vicini
Italia di maleducati e pigri.
Di rassegnati che hanno paura di cambiare
Di vizi, stanchezze e ridicole ostentazioni.
Italia che fatico ad amare
Italia mia?
La stanza di Virginia
Lo sapeva bene, Virgina Woolf. Conosceva l’importanza di una stanza tutta per sé.
Specialmente per una donna.
È in quella stanza che si scrive, si pensa, si dipinge, si ride, si piange. Ci si stiracchia ben bene nel mattino fresco, lavando l’anima e asciugandola al vento che soffia dalle finestre. Si beve una tazza di tè, poi si riprende a lavorare. Lavorare su cosa? Sul giardino interiore.
E il giardino di una donna è faccenda complessa. Per l’uomo si tratta di aiuole potate, esposte alla giusta inclinazione del sole. Ma per lei è diverso. I suoi giardini sono selvatici, sanno di muschio, di labirinti, di ombra che filtra la luce.
A prima vista sembrerebbe il contrario, eppure non è così. Malgrado secoli di culti solari – e di irregimentazione del “secondo sesso“, come scriveva Simone De Beauvoir – il femminino è sempre sopravvissuto, potentissimo, nel sottobosco. Inquieto, struggente, ferito da una Luna palpitante che allo stesso tempo è viaggio e zavorra.
Spettinata, a piedi scalzi, la donna del sottosuolo conosce i segreti delle pietre preziose.
Ma per trovarle deve avere una stanza tutta per sé. Dove creare ma anche liberare le ombre, sfogarle, domarle.
Le ferite devono essere suturate affinché la donna trovi la strada per collegare i suoi sotterranei con la superficie solare.
Ci vogliono una stanza, una sedia, un tavolo.
E alcuni libri per incendiarsi davanti alle giuste parole.
E matite per colorare i fogli del passato.
E musica per danzare.
E una torcia per far luce nell’ombra.
In quell’ombra, la penetrazione coraggiosa dei territori sconosciuti, remoti, smette di farla essere clandestina, straniera a sé stessa.
Finalmente si torna a casa. Il sentiero si illumina di piccole luci che brillano nella notte, costeggiano la strada sassosa che riconduce a casa.
Lì, in quella stanza, i misteri del cuore fioriscono.
Sbocciano come candidi fiori inanellati da fumi d’incenso.
Prima, però, ci sono stati un ritrovamento e una sepoltura.
Seppellire i morti, ammainare i lutti non è mai facile. Ma è da lì che si parte.
Non esiste l’altrove senza l’adesso, né il rifugio senza la memoria.
Nella stanza ci si cala dal pozzo o si usa la scala per infilare un dito nel cielo.
Non c’è differenza in quanto non si sale senza prima essere scesi.
La discesa della donna avviene nella sua stanza (che può essere anche all’aperto, senza finestre né porte), così come la risalita con le mani piene di doni preziosi.
Questa donna che ha imparato a usare la stanza non potrà più rimanere imprigionata nelle case degli altri. Saprà sempre orientarsi, anche nello sconforto.
Se la tregua di un temporale traccia un arcobaleno nel cielo, allo stesso modo le mani di chi ha scavato dentro di sé disegneranno bagliori di fuoco che accenderanno ogni stella.
E per ogni stella, sulla terra ci sarà una stanza. Una stanza tutta per lei.
(marzo 2006, re-posted)
NON BASTA UN AMORE A SCALDARE UN CUORE
Perché non basta un amore a scaldare il cuore?
(J. Amado, “Dona Flor e i suoi due mariti”)
Catherine è una donna che non passa inosservata. Ha un sorriso che le accende il viso e un fare sbarazzino, da ragazzina impunita, birichina, trasgressiva, che si mescola con la femminilità, davvero travolgente, con cui incanta il mondo. Ma è anche una donna trasformista, capace di scimmiottare gli uomini, di prendere il comando. E’ lei, sempre, a decidere per gli altri. Non ama essere dominata, né recinta in uno spazio angusto: ogni gabbia la soffoca. Detesta il moralismo borghese, il livellamento di pensiero, le categorie filosofiche a cui preferisce la vita, nella sua immediatezza, nel suo trasformare in emozione ogni pensiero. L’esistenza pulsa, scorre, è come un fiume da navigare liberamente, senza mappe né ormeggi.
Nella Parigi del primi del Novecento, Catherine, ironicamente, indossa già i pantaloni. Pantaloni non solo metaforici ma anche reali. Come quando si traveste da uomo, si fa dipingere da Jim dei baffi finti e passeggia con i suoi due nuovi amici, Jules e Jim, fino a trascinarli in una corsa esplosiva, gaia, spensierata. Una corsa che è forse la scena più bella del magnifico film di Truffaut. Catherine (interpretata dall’abbagliante Jeanne Moreau) li sfida e corre, corre davanti a loro, in un tragitto che diventa inno alla libertà, fra vento e risate.
Jules e Jim sono grandi amici, vivono in sintonia. Amano l’arte, il teatro, la musica e, naturalmente, le donne. Ma fino a questo momento non hanno ancora trovato quella che gli acciufferà il cuore. Ed eccola lì. Arriva. E’Catherine. Ha lo stesso sorriso di una statua greca di cui si erano innamorati, tempo prima, così come, ora si innamorano di lei. Entrambi. Anche se Jules è il primo ad accorgersene, a dichiararsi. Eccoli lì, che corrono, corrono, corrono, nel momento acerbo del loro triangolo, quello in cui la storia esiste già ma non è manifesta, è fatta ancora di cose non dette, di verità non conosciute. Si capisce subito, durante la corsa, che lei è il capitano di quella brigata, è la bussola del loro orientamento. Da quel momento, non ci sarà nient’altro che Catherine. Catherine che decide del loro destino, Catherine che oscilla tra l’uno e l’altro, Catherine che nel suo “sregolamento dei sensi” nasconde anche un’ombra fortissima, l’ombra di una ricerca perenne, di una cronica “bulimia esistenziale” che necessita di emozioni e cambiamenti.
I due amici, così diversi eppure così uguali, fratelli, condividono tutto e finiscono per condividere anche lei, in un triangolo irrevocabile, come il loro futuro.
Un turbine è entrato nell’esistenza di Jules e Jim. E la cambia per sempre. Con una suggestione profetica, è la stessa Catherine, una sera, a cantarlo ai due amici: “Quand on s’est retrouvés, Quand on s’est réchauffés, Pourquoi se séparer?Alors tous deux on est repartis Dans le tourbillon de la vie. On à continué à tourner
Tous les deux enlaces Tous les deux enlaces (Quando ci siamo ritrovati quando ci siamo riacchiappati perché separarsi Allora tutti e due siamo ripartiti
nel vortice della vita E abbiamo continuato a girare allacciati insieme allacciati insieme).
La scena, bellissima, rimane impressa nella memoria.
“”Catherine è una forza della natura che si esprime in cataclismi” dice Jules a Jim quando, dopo anni di separazione a causa del richiamo di una guerra che avrebbero volentieri evitato, si rivedono a casa di Jules. Jules vive con lei, l’ha sposata, hanno una bambina. Ma Catherine il vulcano, Catherine il cataclisma, non è felice. Manca qualcosa alla sua vita. Manca Jim.
·Lei li vuole entrambi perché entrambi si dedicano completamente a lei, esige la loro dedizione esclusiva. Con Jules ha provato a vivere una vita “normale”, fatta di tepore, fiducia, sodalizio. Una famiglia, una bambina, un tetto coniugale. Quello che tutte le donne vogliono. Tutte le donne. Non lei. Lei ha bisogno delle montagne russe, del tuffo al cuore che toglie il respiro. Non è sufficiente vivere una vita in terza marcia, lei vuole innescare la quarta, e poi togliere il freno. E lo farà, un giorno. Lo farà davvero.
·Intanto, tra lei e Jim quell’amore sempre disinnescato dal senso di amicizia, dalla condivisione con Jim, appicca l’incendio. Uragani, tifoni, lande riarse, temporali e siccità che si alternano. Questa, la natura passionale del loro legame. E Jules assiste, ago di quella bilancia impazzita. Uno strano gioco di equilibri, contraltari, tensioni. Jim ha bisogno di Jules per contenere, e temperare, gli estremi appuntiti della sua relazione con Catherine, così come Jules ha bisogno di Jim per non perderla, per farla restare, comunque, al suo fianco.
·“ Ma chi possiede di più una donna: colui che la prende o colui che la contempla?”
·“Ci vogliono tutte e due”, disse Jules.
·Non è una vita facile, comunque, per Jules: tollera i due amanti, li ama, li ama entrambi, ma che è costretto, obbligato; senza di lei la vita non si affaccia neppure al pensiero.
Jim è tuttavia meno plasmabile di Jules. E’ un passionale, esattamente come Katherine, e dopo un po’ la situazione diventa ingestibile. Sono due anime individualiste, le loro. Il libertinaggio di Jim si incontra volentieri con le insofferenze di Catherine. Ma Jim la ama davvero, la ama di un amore devastante, che toglie ogni resistenza, ogni via di fuga. Eppure un giorno la trova, la fuga. Fugge da quel ménage tormentato e infelice, da quel triangolo in cui ognuno, alla fine, perde pezzi di sé proprio per non voler perdere nulla. Lo dice in faccia alla sua compagna, accusandola di egoismo, di voler “inventare l’amore”, in continuazione, per provare sempre emozioni forti.
·Ha ragione, in parte. Ma questo è il modo di amare di Catherine. Non ne conosce altri. Ha bisogno di esclusività, di dedizione totale. E quando Jim troverà un’altra, una donna comune, più banale ma meno pericolosa per il suo equilibrio, Catherine arriverà alla conclusione fatale.
·Se lei non può averlo, non sarà di nessun’altra.
·Ed è così che quel triangolo, così perfetto, all’inizio, così naturale, finisce con un’amputazione.
·Catherine, Jules e Jim sono al quartiere latino, seduti a un tavolo.
·Catherine chiede a Jim di andare con lei in automobile. Jim la segue. Salgono in macchina quando lei esorta Jules: “Guardaci bene”. Guardarli bene. Sì,perché quello è l’ultimo sguardo. Un saluto scritto negli occhi penetranti, folli, di Catherine, un saluto che però Jim non è in grado di decifrare. Lo decifra solo quando l’auto, velocissima, precipita davanti a lui nell’acqua, imboccando il ponte spezzato. Eccola, la vita senza freni di Cathe. Una vita che termina insieme a quella di Jim e che, in qualche modo, porta via con sé, per sempre, anche un pezzo di Jules. Nelle acque affonda la loro storia. La storia di tutti e tre.
·Jim sopravviverà, ma non dimenticherà quel “turbinio” di cui, però, si è liberato.
·Quel tuffo nell’acqua ricorda un altro tuffo, avvenuto tempo prima, in un’altra delle scene più belle del film: quando una sera, dopo il teatro, i tre amici passeggiano sulla riva delle Senna mentre Jules discetta sulla necessaria fedeltà della donna, “assassina dell’arte, stupida, corrotta”. Un momento di maschilismo che Catherine non accetta, non lei. E protesta gettandosi, all’improvviso, nelle acque della Senna. Voleva spaventare Jules, si era ribellata alle discussioni, ai suoi intellettualismi con un’azione, una dimostrazione imprevista. Così è Catherine. Purtroppo, anni dopo, il secondo tuffo, che sarà comunque sempre la rivolta estrema a una condizione imposta, non vedrà la faccia sorridente e beffarda di Catherine riemergere dall’acqua. Quel tuffo in mare la inghiottirà. Stavolta, per sempre.
GUERRA E (RA)PACE
Non ho mai capito perchè pretendiamo la pace nel mondo quando non siamo neanche capaci di risolvere i conflitti del nostro condominio.
Si parte sempre dal piccolo, per arrivare al grande. Non viceversa.
Invece ci incazziamo perchè gli ebrei e i palestinesi si fanno ancora la guerra, perchè la Libia è contro il resto del mondo, perchè in medio-oriente non si raggiungono accordi precisi e stabili.
Ma non ci domandiamo perchè non riusciamo neanche a mettere insieme un gruppetto di venti persone, presumibilmente animate da interessi comuni, radunandole intorno ad accordi “multilaterali”. Accade, puntualmente, nelle riunioni di condominio.
Già, le riunioni condominiali. Quell’incubo a cui devi sottoporti, quella tortura immensa da cui, se per caso alzi la testa e combatti per i tuoi diritti, esci fatto a pezzi.
Anche lì vince sempre la meravigliosa legge del più forte, quella che manda in vacca ogni democrazia.Il più forte, di solito, concide con il più stronzo. Infatti c’è sempre lo stronzo che ha la maggioranza (almeno, io sono sfigata, a me capita sempre di finire in dittature condominiali). E di solito è un frustrato, con una buona dose di sadismo tutto da esprimere, che gode a esercitare il potere rompendo “i maroni” per le cose più assurde: per la screpolatura interdentale sotto il tuo balcone, per la misera goccia fuggita mentre dai l’acqua alle piante e che, malgrado sia come la particella di sodio della Lete, in cerca di compagnia, viene trattata come il peggiore degli tsunami. Che si arrabbia perchè il tuo pappagallino fa troppo rumore, o i tacchi delle formiche sul pavimento danno fastidio e non fanno dormire la notte. Poi, ancora, le litigate per gli orari dei termosifoni, per l’ascensore, per la maniglia del nuovo portone. Quando non c’è lo stronzo con la maggioranza assoluta, ti trovi lo stesso a tirarti i capelli con tutti (almeno, però, godi della democrazia, anche se in tempi di guerra). Veri e propri conflitti armati. Lotte intestine fatte di attacchi aperti ma anche di manovre subdole, di compravendite per la tenuta della maggioranza (un po’ come fa sempre il nostro Presidentissimo), di cospirazioni negli androni, di sera, quando si spera non ti becchi nessuno.
E poi c’è lui: l’Amministratore. Un ladro a piede libero, nella maggior parte dei casi. Un testa di cavolo, negli altri. Spesso, le opzioni si sommano. E accade un po’ come accade nel mondo: c’è chi tace, chi delega, e c’è invece chi lotta, chi fa le rivoluzioni. Ma, sempre, di vera guerra si tratta. Conosco poche cose odiose come la riunione di condominio. Vera tortura, flagello, strage. Davvero, abbiamo un bel coraggio a pretendere la pace nel mondo quando non riusciamo a risolvere il problema, vera emergenza umanitaria, della scala da tinteggiare. Se qualcuno partecipa sane e giuste riunioni di condominio, parli ora o taccia per sempre.
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