Scrivere di cani e di gatti vuol dire ficcare il naso, anzi la penna, in un regno che ci è precluso a meno di non optare per un approccio diretto fatto di pelle, di odori, di fiuto.
“Loro” sentono, sentono tutto. Odorano la nostra paura (chissà che odore ha la paura? Me lo sono chiesta spesso. Può essere acre ma accompagnato da una sottilissima striscia dolciastra, quasi nauseabonda. Ha odore, la paura. E consistenza), ascoltano il ritmo del nostro respiro, captano le ondate emotive che continuamente ci attraversano, avanti e indietro, come maree. Stanno lì e ci conoscono, ci conoscono a volte meglio di noi.
Nella mia vita ho convissuto sia con i cani che con i gatti. E sono approdata a una convinzione: il cane è un essere “exoterico”, il gatto, invece, è “esoterico” (per esoterismo non intendo occultismi d’accatto ma mi rifaccio alla radice etimologica e simbolica della parola).
Mi spiego meglio.
Il cane sta lì, in religiosa adorazione, sempre munito di atteggiamenti liturgici, devozionali. Tu diventi il centro, il sole, il perno su cui ruota il suo satellite, sempre attratto dalla tua forza magnetica, qualunque cosa tu faccia. Anche se lo maltrattati, il cane continua ad adorarti con “fede cristiana” nello scioglimento del debito, nell’elargizione dell’altra…zampa.. Con il padrone il cane intrattiene un rapporto “di pancia”, scandito da emozione guaiti, ululati di disperazione davanti agli abbandoni e pisciatine di felicità quando, tutto tremante, ti accoglie dopo un lungo viaggio. E’ il tuo Argo, il compagno che sempre ti riconosce, anche quando le distanze si allungano. Il cane è semplice da leggere. L’unica cosa che chiede è un po’ d’attenzione (provo sempre una pena infinita davanti a quei cagnolini disperati parcheggiati fuori dai supermercati, pieni di tremori e paure, intenti a fissare angosciati la soglia magica sulla quale ricomparirà il loro smarrito padrone). In cambio ti dona tonnellate di affetto.
Ho avuto la fortuna di godere della compagnia di un pastore tedesco. Avevo vent’anni e lei mi guardava attraverso una rete, all’interno di un allevamento di cani. Ci siamo piaciuti. Anzi, piaciute. L’ho chiamata Brahma ( lo so, un nome un tantino impegnativo) ma il suo libretto, a causa del pedigree (o “pitigrill”, come dice un mio parente) imponeva che il nome iniziasse con la M. Dunque abbiamo scritto Mbrahma. Originale, no? Tanto poi è sempre stata solo Brahma. Se ne è andata dieci anni fa, il giorno di San Valentino. Io non c’ero, vivevo a Roma da anni. Il tumore se la mangiava, i miei non mi hanno avvisato e solo dopo, solo quando il medico l’aveva “addormentata”, come si dice (abbiamo sempre paura di chiamare le cose col loro nome, ed ecco che il cancro diventa “un brutto male”, la morte un “sonno eterno”…). Ricordo la rabbia, il dolore. Un cane ti entra dentro, scava, si fa una cuccia in qualche angolo del tuo cuore e resta lì, per sempre. Anche quando se ne è andato.
Il cane, dicevo, è “exoterico”. Con le sue liturgie, le sue maniere manifeste, chiare, aperte a tutte. E’ un vero devoto, un ortodosso degli affetti.
Il gatto, invece, è esoterico. Vive dentro e dietro le cose, in un mondo arcano vietato al suo padrone. Anzi, al suo convivente. Per un gatto, di fatto, siamo un felino più grande, un’appendice vivente del “suo” territorio (la nostra casa che diventa subito sua). Lui non ci adora come fa il cane. Con lui il rapporto va costruito giorno per giorno, senza nulla di garantito. Ci fa entrare nei suoi misteri solo se sappiamo pronunciare con “giusta vice” le parole di passo.
Vive in una sorta di terra di mezzo fra due mondi (non caso è l’animale di maghi e streghe), sospeso fra voci invisibili e invisibili creature a mezz’aria fra il cielo e la terra. Se il cane è “pancia”, lui è “testa”. Abile stratega, finissimo indagatore della nostra psiche, ci fissa imperturbabile come una sfinge mentre ci agitiamo davanti alle urgenze del giorno. Conosce segreti per noi impenetrabili, sembra avere confidenza con simboli e segni arcani, perduti nelle prime stelle del mondo. Adorato dagli Egizi, conserva la familiarità con mondi magici, remoti, fatti di notti piene di luna e di sussurri.
Con il gatto nulla è mai scontato. Devi conquistarlo, ogni giorno, come si fa con un amante esigente.
Ecco perché mi affascina, mi seduce, mi avvolge.
Vivo con due gatti, Anakin e Leila. Lui è un filosofo immerso nella contemplazione del mondo, lei una nevrastenica un po’ dissociata (l’altro giorno si è arrampicata sulla caldaia e si è messa a fissare il muro, con il naso a una distanza di un centimetro, per almeno mezz’ora) ma tanto, tanto adorabile. Forse proprio perché non ti dà nessuna soddisfazione, mai. I gatti fanno così. Fanno, semplicemente quello che vogliono. Quando vogliono.
I gatti comandano. Loro sono i padroni, tu l’ospite. Ma ti insegnano tante cose. Lo fanno in modo diverso dai cani. Il loro approccio è più intellettuale. O, se vogliamo, è metafisico-filosofico e non religioso.

Il gatto è un segreto, un buco nella serratura, un soffio di vento. E’ la tana del Bianconiglio, il bosco incantato, il labirinto. E’ l’occhio che guarda altrove, che cancella la linea di confine di ogni orizzonte.
Il cane invece è oceano pieno di onde, sole sui campi di grano, campana che suona sulla folla festosa.
E’ scintillio di luci e festa dei sensi.
Così diversi, i cani e i gatti. Eppure così uguali nel loro insegnamento. Ci aiutano a uscire fuori dai nostri confini, sempre troppo piccoli per il giardino sconfinato dell’esistenza. Ecco, con loro si esce fuori dal recinto, ci si avvicina alle radure dei nostri amori, dei sentimenti sublimi che loro, che ci sono così spesso maestri, riescono sempre a far fiorire. Ed è scoperta, gioia, stupore.