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La mia Istanbul

Viaggio di una donna occidentale attraverso la Porta d'Oriente

 

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L'ho incontrato a Cuba, moltissimi anni fa. Nel 1999 io ero ancora una ragazzache viaggiava insieme al sogno della rivoluzione di Cheguevara. E Cuba era uno degli ultimi territori in cui il sogno romantico di una società più giusta, più attenta ai deboli poteva trovare spazio. Ma all'Havana il sogno si infranse sbattendo contro gli spigoli aguzzi della propaganda ferma alla rivoluzione raccontata ogni giorno in televisione, si infranse davanti agli occhioni grandi e truccati di ragazzine in marcia verso gli  hotel dove le attendeva l'europeo con il portafogli pieno e il passaporto giusto, promessa e garanzia di una terra lontana dove non sarebbero state portate, si infranse nelle file di turisti che avevano la precedenza in ogni negozio, e si infranse nella consapevolezza dell'insufficienza di ospedali efficienti e di garanzie minime di un cibo per tutti. E, soprattutto, si infranse davantgi alla fuga dei balzeros con cui ogni notte qualche disperato sognatore osava prendere il largo per raggiungere il suo sogno in Florida. No, senza libertà non esiste giustizia. Senza possibilità di critica, non esiste giustizia. Senza uguaglianza per turisti e locali, non esiste giustizia.

Se il Che era un romantico, Fidel invece dei suoi studi di avvocatura  aveva mantenuto la strategia e il pragmatismo, che avrebbero traformato l'isola in un regime dittatoriale non troppo migliore da quello che lo aveva preceduto. E mentre il Che scelse di andare a morire per salvare altri popoli, Castro si mise a governare il suo, di popolo, con le maniere forti. Troppo forti.

E mentre giravo per le strade dell'Havana tra meraviglia e disicanto, comunque stregata da quel luogo magico di allegria,di vita frugale capace però di illuminare i sorrisi, ho trascorso lì alcuni dei momenti più belli.

Perchè a Cuba c'è la villa di Hemingway, la Finca Vigia,  con  il suo studio che ancora mostra i libri e la macchina da scrivere (su cui magari ancora veglia lo spirito dei gatti tanto amati dallo scrittore), il giardino pieno di alberi e fiori e la barca con cui andava a pesca.

Ma su quella barca non era da solo. C'era, con lui, Gregorio Fuentes, un vecchio pescatore che fu così presente, così significativo nella vita di Hemingway da diventare l'eredità vivente de "Il vecchio e il mare", uno dei capolavori assoluti dello scrittore americano.

L'ho incontrato, Gregorio Fuentes.

Viveva poco lontano dall'Havana. in una casetta con la porta sempre aperta, come tutte le porte delle case cubane. Forse perchè c'è poco da rubare, o forse perchè l'ospitalità serena con cui la gente accoglie eventi e persone non può che non trovare dimora in un invito all'accesso, anche simbolico.

Quando sono arrivata era in casa, e si dondolava sulla sedia fumando la pipa. Sopra di lui, il ventilatore alleggeriva il caldo disperdendolo nel soffio del vento.

Parlava, parlava, e rideva, e poi parlava ancora. Qualche turista gli stava seduto davanti, altri ascoltavano in piedi.

A quel tempo non conoscevo ancora la lingua spagnola, ma capivo che stava parlando del suo rapporto con Hemingway, e dei loro giri in mare.

Ero lì, commossa, perchè non puoi non commuoverti davanti al testimone di un tempo prezioso. La lettura non ci porta solo in altri mondi, ma ce li fa vivere, li trasforma nei nostri paesaggi interiori. E così, diventano un po'  anche nostri. La mia Cuba, il mio Hemingway, il mio Gregorio Fuentes. Ma quel "mio" non è possesso, indica piuttosto un luogo del cuore in cui si deposita, intimamente, ciò che amiamo tanto.

A quel tempo, per fortuna, non esistevano i telefonini che avrebbero saccheggiato l'esperienza, l'avrebbero subito vanificata appiattendola in un selfie, o una storia su Instagram.

Invece eravamo tutti lì, in un ascolto mai distratto, a vivere quell'esperienza con pienezza e intensità.

Non importa se conservo solo un paio di scatti e qualche minuto di girato (avevo una videocamera,  a Cuba, perchè da sempre in me  il viaggio e il giornalismo narrativo  camminano insieme, anche senza la necessità di pubblicare, si tratat piuttosto di un modo di vivere e di sentire).

Conservo tutto nel cuore. E il ricordo ha la magia sfumata del tempo, non è incastrato nel digitale ad alta definizione che oggi sottrae tanta poesia (preferisco le macchine fotografiche analogiche, quelle che offrono immagini sfumate, in cui vibra l'eros - inteso in senso più ampio - della suggestione, non la pornografia della definizione ostentata). E dunque vive in me come un sogno. Frammenti, colori in cui dominano il bianco e l'azzurro, risate, sguardi, strade sterrate, palme, case diroccate...

Di quel momento, soprattutto, porto nella memoria lo sguardo allegro di ragazzino.

Gregorio Fuentes non c'è più. A me piace dire "è passato oltre", perchè sono convinta che, dato che l'energia non muore ma si trasforma, ogni forma umana vive poi altre dimensioni, altre galassie, altre possibilità di espressione.

Non c'è più ma quel ricordo si apre ogni volta che incrocio la mia copia de Il vecchio e il mare.

La letteratura vive nei luoghi, nelle persone, cammina nella memoria dei lettori e negli spazi delle case che gli scrittori hanno abitato.

Quell'incontro è stato, semplicemente, magia.

 


 

Salone internazionale del libro. Anno 2000. Sono allo stand di Adelphi, una delle case editrici che amo di più. Un ragazzo dello

staff mi regala un poster di Bruce Chatwin, di cui da sempre colleziono tutti i libri, per mestiere  e per passione. Lo afferro con mani tremanti, gli occhi commossi. Non immagina cosa significa per me quel pezzo di carta  stampata.

La foto, famosa, lo ritrae con i suoi "pazzi,pazzi occhi da esploratore dell'Ottocento", come scrive Shakespeare che allo scrittore  inglese ha dedicato una lunga, intensa, partecipata biografia.  Appesi sulla spalla, gli scarponcini da viaggio.

Da quel giorno, il poster di Chatwin mi ha seguita ovunque. E' stato con me nelle case che ho abitato, nelle città in cui ho vissuto. E' per me ispirazione, risorsa, respiro.

"Che ci faccio qui"? è il titolo del libro di Adelphi che di Chatwin ha pubblicato diverse opere. Un libro immenso, immenso come lui.

Viaggiatore, scrittore, nevrotico poeta della vita e ammiratore del nomadismo come ritorno, ossimorico, alle radici stesse della nostra esistenza, Chatwin ha girato il mondo in lungo e in largo. Lo ha raccontato nei suoi taccuini, lo ha nominato, reso vivente,  così come fanno i suoi aborigeni australiani in "Le vie dei canti", lo ha ispezionato attraverso indimenticati  ritratti antropologici mescolati alle descrizioni di paesaggi vibranti.

"Perchè divento irrequieto dopo un mese nello stesso posto, insopportabile dopo due?".

Già. Il nomadismo era per lui un'esigenza, la sua "anatomia dell'irrequietezza" lo ha portato ovunque, dall'Australia alla Terra del Fuoco.

I viaggiatori, quelli veri, sono sempre soli. Non si spostano in massa, non leggono le guide turistiche. Semplicemente, si tuffano nell'inedito per spostare gli orizzonti più in là.

A proposito di orizzonti, Frida Khalo scriveva: "Dove tu vedi confini io disegno orizzonti". Anche per Chatwin era così.

La sua passione per l'ignoto, per l'incontro con l'altro da sé, è stata la stella polare della sua esistenza. Era un poeta del "diverso", Chatwin. Aveva una scrittura visiva, non a caso le sue fotografie sono intense, bellissime, illuminate da giochi cromatici che facevano da specchio al suo passato di amante dell'arte nelle gallerie londinesi. Annusava, così come fanno gli animali per conoscere un territorio, sentiva, scriveva.

"Che ci faccio qui?" è la domanda che ogni viaggiatore vero, geografico e anche mentale, si deve fare. Sempre.

E' LA DOMANDA.  Un po' come quella che Trinity rivolge a Neo. E' la domanda che  ci fa uscire dalla Matrix di abitudini che finiscono con l'appiattirci,facendo della vita un quotidiano sbiadito, con il cielo che si abbassa  un po' di più.

Che ci facciamo qui? In questa casa (per Chatwin la casa era una "perversione", un luogo "in cui appendere il cappello "), in questa città, in questo paese, in questo pianeta...

I viaggiatori veri si sentono sempre un po' stranieri in casa. Forse perchè la loro vera casa non è qui ma sulle stelle. Non c'è nessuna astronave che verrà a prenderlI, come accade a Et, ma qualche cuore innocente, come quello del bambino che ne capta il linguaggio segreto, riconoscerà l'alfabeto dell'anima randagia che nel viaggio cerca le parti smarrite di sé, e quelle che deve ancora incontrare. Quei cuori si incontrano spesso, quando si viaggia in solitaria. Perchè spostarsi in due, o in massa, non cambia di certo il risultato: portando un pezzo di "casa" con noi ci apriamo in modo diverso alle esperienze, trascinando alcune familiartià che invecem, per il momento, vanno dismesse. E' da soli che diventiamo esploratori, esploratori del mondo esterno che apre nuovi spicchi di terra anche dentro di noi, mutandone le geometrie.

In questo senso il viaggi ci riconduce alla sacralità della vita perchè ci mette davanti a noi stessi, ci spoglia delle certezze, delle abitudini, per saggiare limiti e vastità che sono innanzitutto dentro noi stessi.

Negli ultimi venti anni le neuroscienze hanno mostrato sempre di più come la neuroplasticità del cervello. E se lo stimolo (buono) ne favorisce le sinapsi, l'assenza di stimoli lo uccide. E in un mondo sempre più digitale, robotizzato, il viaggio, quello vero, diventa esorcismo per scongiurare la perdità di umanità che ci sta consegnando a uyna dervia antropologica mai vissuta prima.

Ecco allora che camminare, viaggiare in treno, prendere un aereo per incontrare culture diverse, ci restituisce a una dimensione che vuole sottrarsi al livellamento globale imposto da cellulari, social, applicazioni.

Che ci faccio qui?

Cerco di essere, innanzitutto. E cerco di conoscere la meraviglia del pianeta di cui faccio parte. 

Il viaggio, il viaggio vero, ci aiuta a essere custodi e testimoni migliori di un mondo che l'uomo sta distruggendo.

Il viaggiatore autentico è, innanzitutto, un poeta che usa il linguaggio del cielo, del mare, della sabbia e del vento.

Ogni giorno si chiederà il senso della sua stessa esuistenza.

Ogni momento.

Ogni ora.

Ogni istante.

specchi

 Ogni persona ci fa da specchio. Cosa rispecchia? La moltitudine che ci abita dentro. Alcuni specchi tirano fuori le nostre parti più ispirate, nobili, coraggiose e creative. Altre, invece, specchiano i nostri limiti e le nostre ombre. Se e' vero che per essere completi abbiamo bisogno di tutti gli specchi, e' anche vero che dobbiamo cercare chi amplifica le piccole luci che ci brillano dentro. Chissà perché, allora, molti di noi rimangono attaccati a quelle persone che ci rimandano l'eco di un vizio, un difetto, una nociva ostinazione. La libertà da uno schema fisso e familiare vuol dire cercare di rompere prima di tutto i vincoli interni per cercare, oltre agli specchi 'sani' quel mare bianco in cui ci guardiamo mentre l'anima osserva se stessa. Narciso e' affogato dietro di noi, e non lo salveremo.

 

 

cuore Quando eravamo piccoli, immaginavamo il mondo dei libri come un mondo popolato da persone aperte, tolleranti, con un cervello gigante, spazioso come le praterie degli indiani d'America.

Editori, scrittori, redattori...

Un mondo di gente colta, di gente che sa spaziare oltre i suoi confini.

Io poi sono cresciuta, e in quel mondo ho iniziato a lavorarci.

E ho capito che il mio era solo un sogno.

Perché i libri vivono solo nella testa, in questo mondo. Non vivono nel cuore.

E, senza aprire le pagine sul cuore, un libro rimane solo "lettera morta". Buona per fare "ammasso di cultura", per fomentare l'egopatia, il narcisismo.

Per far finta di essere in "missione" divina. Quei libri, sulla testa, non servono in realtà a nulla.

Devono scendere, diventare "umani", sporcarsi di sentimenti condivisi sul serio, condivisi con uno scopo sociale.

La "bella letteratura" aiuta le nostre giornate, alimenta il nostro intelletto, ma non migliora di certo il mondo.

E siamo arrivati un un momento critico, decisivo per il futuro dell'umanità.

Se non tiriamo giù i libri dal cuore, se non li mettiamo in mezzo al mondo, fra la gente, usandoli come un'arma di pace, non servirà a nulla essere buoni editorii, buoni lettori, buoni scrittori.

Se non si legge molto, in questo paese, forse la colpa non è solo del ventennio berlusconiano, della televisione, delle tecnologie...

Forse la colpa è anche nostra, è anche di quegli operatori del settore che si accontentano di un "cenacolo per pochi eletti" (anzi, di un "cenacolo per pochi letti").

La frattura tra il libro e la società sta anche nella testa. E si salda solo passando attraverso il cuore.

 

Le persone profonde fanno fatica a stare a galla. Vero. Sono  inseguite dal disagio, dal dolore, da quella punta irritativa che buca sempre la pelle. Questo mondo, così com’è, come lo abbiamo voluto, è fatto per i superficiali. Per quelli che ancora credono che vivere sia un tuffo nella “Milano da bere”, una passeggiata nel Mulino Bianco con i suoi biscottini fatati, mentre  tutto intorno a me, a te, la Vodafone. Ma che c’è, lì, tutto intorno a noi? Un sacco di merda. Ed è quella merda che, come un alchimista, devi trasformare in oro. Sempre che tu riesca a creare un varco nel cerchio di Mediolanum, eh già, perché tu sei un puntino al centro, circondato, anzi accerchiato, da quelle associazioni a delinquere chiamate Banche, circondato da questo mondo economico e finanziario che casca a pezzi, come l’intonaco di una vecchia casa che non vogliamo cambiare. La crisi economica, forse, in mezzo a tanta angoscia ci aiuta a togliere i totem che ci hanno anestetizzato per anni, tanti, troppi anni. E ancora crediamo in un mondo fatto di successi ( o su – cessi?) patinati, pettinati, fatti in serie come una Coca Cola? Quelli che si sono svegliati a ceffoni adesso stanno accanto a quelli che, anche quando le vacche avevano la ciccia addosso (che grasse grasse, da noi, non sono state mai), dubitano, dubitano di un mondo fatto solo per i narcisi, i menefreghisti, gli acrobati, gli artisti dell’individualismo e del qualunquismo, del furto al prossimo perché importa solo arrivare alla meta.

Il circo è scoppiato. Bene, forse ritroveremo il sapore antico di qualche valore finito nel sottosuolo. O forse no, forse, come adesso, cercheremo di pensare che tutto tornerà come prima, e che il Produco Consumo Ergo Sono proseguirà, indenne, la sua corsa folle contro un muro che non sarà fatto di gomma.

In tutta questa ansia per il futuro, forse la vera domanda da porsi è la solita, vecchia domanda: chi sono? Dove vado? Ma, ancora meglio: dove sono? Dove sono, ora, dentro di me?

I disadattati, quelli che sembrano sempre gli eterni perdenti perché non si trovano a proprio agio nell’oceano di squali, hanno almeno capito la grande truffa di un sistema che all’uomo ha tolto la cosa più preziosa: la sua umanità. Einstein diceva: “dobbiamo diventare campioni di umanità”. Prima ancora che eccelsi scienziati, professori, manager, comunicatori… dobbiamo essere campioni di umanità.

Invece siamo  diventati come i Replicanti, sordi a qualunque test emotivo.

Campioni di umanità. Il dolore, quello vero, ha due strade: o ti chiude per sempre dentro te stesso o ti rende solidale. Peccato che, per noi, la solidarietà nata da una comune tragedia ha gli stessi tempi di un lutto, che nel giro di un anno viene comunque elaborato psichicamente; poi, tutto torna come prima.

Come per l’11 Settembre, “siamo tutti americani”. Siamo tutti uniti, solidali. E, alla fine, ciao, arrivederci, è stato un piacere. Perché è sempre così, che funziona. Le grandi tragedie creano una empatia con scadenza. Come uno yogurt che a un certo punto diventa rancido e va buttato via.

Peccato, perché se ci ricordassimo, ogni giorno, quel senso di unione, di dolorosa unione, forse saremmo quei campioni di umanità che, alla fine, sono davvero più preziosi di tutto.

Le persone intelligenti, sensibili, faticano a trovare gli spazi in un contesto che sgomita, sgomita, e opprime il prossimo per portare avanti se stesso.

Io, Io, Io.

I Pad. I Pod. I Phone.

E invece ci sono anche gli altri. Basta aprire gli occhietti per vederli. Camminano accanto a noi, ogni giorno.

Solo che, mentre corriamo, non li vediamo.

 

(Francesca Pacini)