Bellissimo. Un film bellissimo. Leoni per agnelli mi ha incantato. E mi ha ferito. Perché quando esci dal cinema, sai di non aver visto un film ma di avere sbirciato un mondo reale, un  mondo che ci circonda e di cui tu stesso, isieme agli altri, sei responsabile. Un mondo schifoso.

Robert Redford produce e interpreta un film impegnato – come si dice – allontanandosi dalla chiassosa retorica americana sulle guerre e sul patriottismo. La bandiera americana, sventolata da sempre come un fallo glorioso intorno al quale ruota il mondo intero (una per ogni casa, contavo stupita quando vivevo negli Usa), comincia qui a mostrare meno stelle…e a far vedere meglio il sangue che colora quelle strisce.

Il film si gioca su tre storie parallele: una giornalista (Meryl Streep) intervista un ambizioso senatore repubblicano (Tom Cruise), due militari in Afghanistan, feriti  durante una nuova offensiva americana restano prigionieri dei ghiacci, un professore universitario (Roberd Redford) chiama un talentuoso ma impigrito studente per spingerlo a emergere.

Tre narrazioni che procedono parallelamente,  si inseguono, si incrociano, si mollano e si ritrovano ancora per convergere verso un finale drammatico. Drammatico per tutti.

I due militari sono due ex studenti del professore, due ragazzi di colore (un nero e un portoricano) che alla laurea preferiscono partire per la guerra. Perché per cambiare bisogna essere presenti, agire.

E mentre ci si gioca la pelle, mentre ci si trova circondati dal nemico con il cuore che rabbrividisce davanti alla consapevolezza di una vita imporvvisamente più corta, con una meta adesso vicina, troppo vicina, mostrata dal fiato della morte che alita sempre più svelto sul collo, mentre ci si gioca tutto questo, dicevo, altrove, in luoghi dalle pareti candide e accoglienti, uomini in doppiopetto decidono i destini del mondo camuffando le ambizioni personali e i narcisisimi onnipotenti dietro le retoriche motivazioni che sempre ingannano le nostre orecchie.

Il Senatore parla, pianifica, decide a tavolino illustrando alla stampa i perché (manipolati) delle strategie offensive per una vittoria che deve essere conquistata "con qualunque mezzo" mentre in quello stesso momento due ragazzi muoiono al fronte.

C’è una bella differenza, tra il parlare e il fare. Il ragazzino intelligente ma viziato che al professore continua a parlare del sogno americano, di una bella casa e  di buon lavoro perché tanto "il resto è una merda, il mondo politico è tutto corrotto"  vive nell’agio, studia ampliando la sua intelligenza che però non è radicata a un’operatività, a un’esperienza reale. Critica ma alla fine rimpolpa quello stesso sistema.

Il film procede così, con battute rapide come schiaffi che mostrano la fragilità del sistema americano e la sua incapacità – dall’11 settembre 2001 – di vedere realmente il passato che ha condotto a questo presente agghiacciante.

La giornalista incalza, domanda, cerca risposte che però sono solo quelle confezionate dalla pomposa retorica americana, con le solite frasi sulla necessità di combattere "il male". Anche se quel male l’ha armato lei, prima.

Ogni personaggio parla con voce tagliente, ognuno difende sé stesso ma la realtà delle cose man mano si sgretola davanti ai fatti nudi e crudi che svelano una nazione fragile come il vetro, persa nei labirinti delle sue credenze, divisa tra ansia di gloria e coscienza occulta della disfatta.

Redford usa la mano pesante, con questo film.

Scarnifica il sogno americano moderno, ne rosicchia i tessuti broccati, cala il sole per alzare la notte.

E ci mostra che per fortuna c’è un’altra America. Un America che si interroga, che si chiede, che decide anche di fare film lontani dalle esasperazioni nazionaliste.

Non c’è nessun nazionalismo, qui. Non finisce bene, la storia. Non finisce bene per niente.

La giornalista che deve decidere se preparare il pezzo confezionato dal senatore stesso, quello in cui racconterà nuove, pietose bugire abitate da velleitari proclami di gloria, sa che conosce un’altra verità, ma che non potrà raccontarla senza mettere in gioco il futuro. In fondo lei, come molti altri, ha chiuso gli occhi per non vedere. Ha preso per buone le dichiarazioni trionfanti della necessità di queste guerre che dal 2001 stanno spezzando la schiena all’America.

C’è un’altra America, avevamo detto.

L’America che fa, che rischia, che conosce il pulviscolo delle parole.

 

I due ragazzi che crepano sotto i colpi dei talebani sono partiti perché sapevano che l’unico modo per fare qualcosa era cercare di cambiare le cose, e sapevano che essendo una minoranza etnica per loro sarebbe stato difficile, dietro ai libri, poter influire sul mondo e migliorarne un pezzetto.

Non a caso i militari americani sono nella maggioranza neri e portoricani. Sono quelli che hanno respirato la polvere della violenza nei quartieri lontani dalle graziose villette accomodate sulle colline di Hollywood, quelli che hanno visto le ingiustizie e il degrado che affianca il sogno della bandiera. Ma ci credono ancora, ci credono nonostante tutto, e partono volontari. Se la causa è sbagliata, il coraggio è invece quello giusto.

Fare, fare. Basta parlare. Il mondo non si cambia con le parole.  Anche perché ci si ritrova con un paese fatto di leoni che muoiono al fronte e di agnelli che comandano e parlano. E che sopravvivono, sopravvivono sempre. Nelle loro casette (bianche) decidono i destini del mondo, destini che saranno realizzati da mani che si sporcheranno di sangue e che faranno il lavoro per loro.

Comodo, troppo comodo.

Ecco perché l’antiamericanismo ottuso è davvero stupido. Ecco perché gli idioti che urlavano "Una, cento, mille Nassirya" hanno il cervello di un uovo di struzzo. Idioti. Imbecilli. Pasolini più di trent’anni aveva già capito che la realtà è più complessa, fumata. Ce lo aveva ricordato indicando nei poliziotti di Valle Giulia i veri proletari, la vera matrice di quel popolo, che gli studenti borghesi che facevano la rivoluzione- figli di papà che la sera tornavano nelle loro belle abitazioni a mangiarsi la minestrina calda – andava difendendo.

La realtà è sfumata, è complessa.

L’America non è solo quella dei fanatismi, dei patriottismi muscolari e dei cattivoni che colpiscono basso a Guantanamo.

L’America è fatta anche di povera gente che va a fare la guerra perché non ha troppe alternative, o perché crede comunque in un sogno di cui godono gli altri, però, quelli che non rischiano mai e che continuano a studiare per lavorare in Wall Street, comprarsi il villino a Santa Monica e fare il weekend a Las Vegas.

Quanti agnelli parlanti, e quanti leoni all’opera.

Il film è ricco di sfumature continue.

C’è un momento in cui nel campus degli studenti un televisore manda un servizio – importantissimo – sulle ultime bizzarrie di una pop-star mentre i titoletti che scorrono sotto recitano di un’agenzia che annuncia la nuova offensiva americana. Sì perchè l’America in fondo è così. I giovani si appassionano di più Britney Spears e alle sue cazzatine quotidiane. Perché anche i media, comunque, hanno avuto le loro colpe, a volte,  nel sostenere in modo acefalo il governo americano nella sua corsa alla rinfusa contro il terrorismo.

Il terrorismo.

Bucarne la retorica è impresa difficile, ma se si va oltre, se si guarda più in là, si osserva la gente che muore per a maggior gloria di qualche potente.

Mi tornano in mente alcuni versi bellissimi – affilati, taglienti – della Szymborska:

Basta che tu sia petrolio

mangime arricchito o materiale riciclabile

O anche il tavolo delle trattative, sulla cui forma

si è disputato per mesi:

se negoziare sulla vita o sulla morte

intorno a uno rotondo o quadrato.

Intanto la gente moriva,

gli animali crepavano,

le case bruciavano

e i campi inselvatichivano

come nelle epoche meno remote

e meno politiche.