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La mia Istanbul

Viaggio di una donna occidentale attraverso la Porta d'Oriente

 

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In questo ultimo giorno del 2009 ascolto Gaber. Magnifico, pungente, estremo Gaber.

Ecco il link di una canzone che amo tantissimo, Le cose:

http://www.youtube.com/watch?v=Df6QPPkmaQ0

Mi piace salutare l’anno insieme a lui (mai come quest’anno avremmo avuto bisogno di voci e mente lucide come la sua, ahimé) mentre penso alle cose che devo accettare, a quelle che posso lasciare e a quelle che vorrei cambiare. Una lista di intenzioni che scriverò su carta e in silenzio brucerò stasera, nel saluto della notte.

Niente feste, grazie. A Capodanno amo i silenzi.

O, magari, un po’ di buona musica. Ma quella sussurrata, non quella urlata.

Quella che si percepisce appena, come certe malinconie.

 

Poche cose mi piacciono come l'autunno. Sul serio. Molti di noi si immalinconiscono, tardano con la mente al pensiero delle perdute gioie estive. Non io. Forse sto diventando un'anima crepuscolare, ma ai colori aggressivi dell'estate preferisco quelli caldi di un autunno che colora ogni cosa con i suoi rossi meravigliosi, impareggiabili.
Non c'è artista in grado di metterli su tela con la stessa intensità, con gli stessi accostamenti cromatici che, sempre, mi stupiscono.
Guardo le viti che si arrampicano suoi muretti dando nuova vita a quelle pietre, cammino su foglie ammassate come su una nuvola in terra, osservo il cielo che spesso si tinge di azzurri e di grigi che finiscono per compenetrarsi scortati dalle ali degli uccelli in volo. Com'è monotono, il cielo, d'estate. Con quel blu così raramente soccorso dai bagliori lattuginosi di qualche nuvola che lo attraversa. D'autunno, quando non piove, i colori diventano più capricciosi, e quel capriccio mi piace.
Insomma, l'autunno mi regala sospiri di serenità. E sì. forse anche di malinconia. ma una malinconia sana, beata, dolce e tiepida come i primi maglioni di lana.

E' una natura incerta come incerto è il nostro vivere. In ogni foglia che cade vedo il mutamento che preclude a ogni rinnovamento.

Le mie piante, in terrazzo, stanno vivendo questa stagione in modo diverso a seconda della loro peculiare natura. Alcune, come le rose, si svestono completamente, altre invece sfoggiano mescolanze ardite di rossi e di verdi.

Altre ancora resistono, e accettano un sole pallido che si nasconde presto dietro ogni notte.

E io sto bene, in mezzo a loro, a guardare i contrasti del cielo prima che si spenga per accendere la sera.

E guardo lontano, verso le colline.

Penso a paesaggi che mi aspettano in quei viaggi in treno che in questo periodo sono così numerosi.

Le colline e i boschi, feriti dalla ferrovia, mi saluteranno con il loro autunno più bello.
E io, io starò lì a guardare.

 

Troppo spesso ci dimentichiamo chi siamo. Presi dagli eventi, impegnati a indossare le maschere quotidiane, a passare di film in film, a vincere l'oscar per la nostra migliore interpretazione. Rapiti dalle cose, dalle persone, dalle illusioni, sedotti dal gioco sottile e morboso della danza di maya, che ti strappa a te stesso.
Ogni tanto, ogni tanto ricordarci di noi ci fa bene.
Ma ricordarci di noi "veramente", non di quel "noi" che ci siamo costruiti per piacerci (copia e incolla di personaggi virtuosi, ieratici, buoni, generosi, perfetti) o disprezzarci (eh già, perchè ci piace tanto anche costruire immagini negative, in fondo l'eroe bello e tenebroso, dannato e distruttivo ha il suo fascino, ci piace immaginarci così, scuri come una notte senza luna). Insomma, non di quei personaggi che invariabimente mettiamo davanti.
Ricordarci di noi. Solo di noi. Così come siamo veramente. Nello spazio di una nudità quasi sacra, un'intimità senza sesso, senza parole, fatta di vuoti e di pieni. Di tremori. E pudori.
Lì, in quel luogo, per un attimo possiamo ricordarci di noi. E, finalmente, respirare.

Ho sempre amato Ladyhawke… Sono una romanticona, lo so. Ma la leggenda della donna falco e dell'uomo lupo, destinati da un sortilegio a vivere sempre insieme ma sempre lontani mi ha sempre incantato, vent'anni fa come oggi. Un destino tragico frutto di un sortilegio:  di giorno lei è un falco e di notte, quando riassume le sembianze umane, lui si trasforma in un lupo. Vivono così ogni giorno, sempre insieme ma sempre separati dalle loro forme. C'è solo un attimo, magico, misterioso e terribile in cui a volte riescono per a vedersi per un istante, ed è collegato all'enigma del tramonto, a quello spazio sospeso fra due mondi in cui il giorno non è ancora notte, uno spazio che è crinale, orlo spazio-temporale, momento in cui cessa per un attimo l'avversa rincorsa del tempo. E' solo in quel momento che i due amanti si vedono e si sfiorano, per un istante  breve , troppo breve, strappato alla moltitudine delle assenze. Qui il video con la scena citata: http://www.youtube.com/watch?v=vfJ8LHSHGAg&feature=related
Il film finisce ovviamente bene: l'incanto viene spezzato e i due vivono insieme per sempre. Eppure l'idea struggente di un amore non vissuto a causa di un "sortilegio" è anche molto reale. Allo stesso modo, l'idea di un tramonto metaforico in cui sorge l'istante extratemporale che permette alle anime di unirsi in un altro spazio e un altro tempo non è così distante per gli amanti che lo hanno conosciuto, anche se un destino avverso li ha tenuti e li terrà separati per sempre.
Avevo venti anni quando ho visto questo film e ancora oggi mi commuovo. 
E penso che,  in fondo, la vita non è altro che un incantesimo di cui dobbiamo liberarci per scoprire chi siamo davvero. E chi, davvero, abbiamo davanti. Oltre ogni maschera e ogni illusione. Oltre ogni lupo e oltre ogni falco. I più coraggiosi ci provano, facendosi un sacco di male. Ma, almeno, ci provano.

 

La vera libertà è solitudine
(E. Junger)

C'era una volta una pecora che, insieme alle altre, viveva in un recinto spazioso ma, ovviamente, circoscritto. La pecora, inquieta, percorreva la staccionata circolare annusando odori nuovi che venivano dallo spazio intorno. Uno spazio, che alle pecore faceva paura. Ma lei sentiva profumo d'erba fresca, freschissima, diversa dalle solite pappe preparate per il suo gregge, e ascoltava rumori soavi di ruscelli freschi, gioiosi. Voleva vedere. Provò a chiamare le altre, a convicere le pecore a uscire fuori, tutte insieme, per un'escursione di gruppo. Ma le altre pecore risposero: "Noooo, noooo" belando disperate "Là fuori c'è il lupo, e tante brutte cose che non conosciamo. Mille pericoli e ostacoli, brutti mostri cattivi". Ma la nostra pecora non si rassegnava e un bel giorno oplà, saltò il recinto e si inoltrò in quelle terre sconosciute.  Terre meravigliose, piene di meraviglie. Terre espanse, libere, selvaggiamente scintillanti di infinite promesse. Tutta felice, la pecora conobbe le acque più fresche dalle quali si abbeverò, brucò l'erba più tenera, si appisolò all'ombra di alberi accoglienti sotto un sole nuovo.
Poi tornò nel recinto per raccontare alle altre tutte le belle cose che aveva visto e vissuto. Ma le dettero della pazza. C'era il lupo, fuori, e molte cose brutte, sconosciute. Non era quella la verità. Era una bugiarda. Una folle.
Così iniziarono a isolare la povera pecora pazzerellona, a farla sentire sbagliata.
E lei, lei continuò a vivere i suoi giorni in cattività, finché il ricordo di quell'infinito si fece sempre più flebile.
Un giorno i pastori, vedendola così pallida, malaticcia, priva di vita, le aprirono la porta del recinto per farla uscire, a patto che non rientrasse mai più. Ma lei, lei, spaventata, si rintanò in un cantuccio fissando con occhi rassegnati e atterriti quello spazio infinito che le aveva regalato i momenti più belli della sua vita.
Chiuse gli occhi, tristissima, e si mise a dormire.

Le pecore "nere" vengono sempre ostacolate, spogliate delle loro visioni, dei frutti prolifici derivati dalla ricerca, dallo spostamento dei soliti, vecchi confini.
E così vivono nella solitudine, nell'emarginazione. Non capite, spesso non volute, cercano di mantenere vivo il ricordo degli spazi interiori nei quali hanno assaporato la libertà dell'essere.
Alcune di loro riescono a mantenere gli occhi vigili. E non si arrendono. Cercano, cercano, finché non salteranno di nuovo la staccionata. Altre, invece, non ce la fanno. Si adattano alle misure ristrette della loro cattività. E quando qualcuno apre per loro la porta del recinto che le tiene prigioniere, scelgono di restare nella mediocre quotidianità dei giorni misurabili e consolidati.
Ma, dentro, sanno. E la loro malinconia ogni giorno farà i conti con la memoria della perduta libertà. E, chissà, un giorno forse, tenteranno di saltare ancora.