Luca Flores

 

Ho visto "Piano, solo",  il film che racconta la storia di Luca Flores, il musicista Jazz morto suicida nel 1995.

Un film davvero bello, forse con qualche lacuna ma sicuramente efficace. Sulla depressione di Flores si sceglie di non insistere troppo. "Ma perché non hanno fatto vedere i medici e le cure?" mi ha chiesto il mio amico Mario all’uscita.
Perché non serve. La sofferenza dell’anima è tutta nell’irrisolto dolore per l’incidente d’auto nel quale, quando era bambino in Africa, morì sua madre. E lui, come tutti i bambini, si sentì colpevole.

Non siamo tutti uguali. Alcuni sopravvivono a dolori immensi, altri vengono invece travolti da un soffio di vento. Dipende dalle nostre acque emotive, dipende dalla fragilità dell’anima, o dal suo grado di resistenza.

Non basta il successo (Flores suonò perfino con Chet Baker) a colmare gli strappi che ci trasciniamo.

C’è un momento molto bello, nel film, in cui Flores-Rossi Stuart racconta di come la musica sia la vera voce dell’anima. Ma lui non volò via sulle note, purtroppo. Sostò sul bilico della morte, e si gettò.

La sofferenza mentale di alcuni "squilibrati" altro non è che una compressione estrema di sofferenze troppo grandi da sopportare.

Sono delicate, alcune persone. Sono come uccellini. Se per caso stringi troppo, ti muoiono nella mano. 

Non c’è tortura più grande di un dolore non sanato. 

Il film mi ha fatto pensare ad alcuni versi:

La vita che si è presa la speranza
Non la restituirà
Con lei se ne sono andati il sorriso e la canzone
Hanno fatto la valigia in un giorno di pioggia
Mescolandosi alle lacrime per non essere trattenuti
Ogni trauma si somma ma non si dimentica
Fino al momento in cui non si soffre più:
sigillate le emozioni in un sepolcro
si avanza come fantasmi nella neve.