Per soffocare in anticipo ogni rivolta, non bisogna essere violenti. I metodi del genere di Hitler sono superati. Basta creare un condizionamento collettivo così potente che l’idea stessa di rivolta non verrà nemmeno più alla mente degli uomini.
L’ ideale sarebbe quello di formattare gli individui fin dalla nascita limitando le loro abilità biologiche innate.
(…)
Bisogna fare in modo che l’accesso al sapere diventi sempre più difficile e elitario. Il divario tra il popolo e la scienza, che l’informazione destinata al grande pubblico sia anestetizzata da qualsiasi contenuto sovversivo.
Niente filosofia. Anche in questo caso bisogna usare la persuasione e non la violenza diretta: si diffonderanno massicciamente, attraverso la televisione, divertimenti che adulano sempre l’emotività o l’istintivo. Affronteremo gli spiriti con ciò che è futile e giocoso. È buono, in chiacchiere e musica incessante, impedire allo spirito di pensare.
Metteremo la sessualità al primo posto degli interessi umani. Come tranquillante sociale, non c’è niente di meglio.
In generale si farà in modo di bandire la serietà dell’esistenza, di ridicolizzare tutto ciò che ha un valore elevato, di mantenere una costante apologia della leggerezza; in modo che l’euforia della pubblicità diventi lo standard della felicità umana. E il modello della libertà.
Il condizionamento produrrà così da sé tale integrazione, l’unica paura, che dovrà essere mantenuta, sarà quella di essere esclusi dal sistema e quindi di non poter più accedere alle condizioni necessarie alla felicità.
L’ uomo di massa, così prodotto, deve essere trattato come quello che è: un vitello, e deve essere monitorato come deve essere un gregge. Tutto ciò che permette di far addormentare la sua lucidità è un bene sociale, tutto ciò che metterebbe a repentaglio il suo risveglio deve essere ridicolizzato, soffocato, combattuto.
Ogni dottrina che mette in discussione il sistema deve prima essere designata come sovversiva e terrorista e coloro che la sostengono dovranno poi essere trattati come tali”.
Günther Anders. 1956 in “L’uomo è antiquato”

 

 

 

 

"Un buon lettore è raro quanto un bravo scrittore.”

Borges

 

L’ho capito fino in fondo proprio qui, a Tangeri, nello spazio bianco di un mattino di vento.

Funzionano, le parole, solo quando ci arrendiamo, quando smettiamo di pretenderle. Loro viaggiano sulle frequenze, sono un suono. Hanno un peso, una direzione. Ho sempre suggerito ai miei allievi dei corsi di editoria e scrittura di considerare le parole come una partitura musicale, di leggerle come si legge un brano ad alta voce, sviluppando una sorta di orecchio assoluto.

Sì, vanno ascoltate, le parole. Producono armonie e disarmonie, come la musica. La musica delle parole fa di noi i direttori di un’orchestra anarchica in cui sono loro a scegliere noi, e a guidarci. Penso agli esperimenti di Masaru Emoto, lo scienziato giapponese che scriveva le frasi sui foglietti che appiccicava a bottiglie d’acqua che venivano poi esaminate al microscopio: i cristalli che si formavano disegnavano geometrie molto diverse tra loro a seconda della “qualità vibrazionale” delle parole. Parole d’amore generavo cristalli armonici, parole di odio e disprezzo davano vita a geometrie disarmoniche, che risuonavano con il tipo di energia liberata. Sì, perché la parola è energia. Una forma di energia molto potente.

Non è solo l’”abracadabra” dei maghi o la parola segreta degli iniziati spirituali, la parola è madre di ogni generazione nella materia. In principio era il verbo.

E il verbo è suono.

Non a caso nelle Vie dei canti gli aborigeni australiani narrano la creazione del mondo attraverso il nominarlo. Il nome è padre, il nome è madre. La parola dunque è molto potente, può essere risorsa o trappola, cibo che sfama o coltello che uccide. L’uomo lo sa bene, ne ha sempre fatto uso. Ecco perché dobbiamo avvicinare le parole con rispetto e umiltà. Attendere, avere pazienza, come nella leggenda della tribù Hopi in cui un indiano in cammino si ferma e rallenta per attendere la sua anima.

Le cose belle, le cose preziose hanno bisogno della qualità del tempo. Quel tempo che oggi ci sfugge, immersi drammaticamente in una società velocissima che sceglie l’intelligenza artificiale prima ancora di aver imparato bene a usare quella “fisiologica e naturale”. Ecco,  le parole ripagano chi è consapevole della preziosità del tempo, della pazienza. Se le parole sono musica, dobbiamo trovare gli accordi. E sapremo “intonarle” in sintonia con la nostra ispirazione. 

Scrivere è sempre un fuoco, una febbre.  Ẻ attrito che genera una scintilla. A volte sembra quasi una malattia. Una malattia di cui non voglio la cura.

 

 

 

 

 
La mia notte mi strema. Sa bene che mi manchi e tutta la sua oscurità non basta a nascondere quest’evidenza che brilla come una lama nel buio, la mia notte vorrebbe avere ali per volare fino a te, avvolgerti nel sonno e ricondurti a me. Nel sonno mi sentiresti vicina e senza risvegliarti le tue braccia mi stringerebbero.
 
La mia notte non porta consiglio.
La mia notte pensa a te, come un sogno a occhi aperti. La mia notte si intristisce e si perde. La mia notte accentua la mia solitudine, tutte le solitudini. Il suo silenzio ascolta solo le mie voci interiori. La mia notte è lunga, lunga, lunga.
 
La mia notte avrebbe paura che il giorno non appaia più ma allo stesso tempo la mia notte teme la sua apparizione, perché il giorno è un giorno artificiale in cui ogni ora vale il doppio e senza di te non è più veramente vissuta.
 
La mia notte si chiede se il mio giorno somiglia alla mia notte. Cosa che spiegherebbe la mia notte, perché tempo anche il giorno. La mia notte ha voglia di vestirmi e di spingermi fuori per andare a cercare il mio uomo. Ma la mia notte sa che ciò che chiamano follia, da ogni ordine, semina-disordine, è proibito. La mia notte si chiede cosa non sia proibito. Non è proibito fare corpo con lei, questo, lo sa, ma si irrita nel vedere una carne fare corpo con lei sul filo della disperazione. Una carne non è fatta per sposare il nulla. La mia notte ti ama fin nel suo intimo, e risuona anche del mio. La mia notte si nutre di echi immaginari. Essa, può farlo. Io, fallisco.
 
La mia notte mi osserva. Il suo sguardo è liscio e si insinua in ogni cosa. La mia notte vorrebbe che tu fossi qui per insinuarsi anche dentro di te con tenerezza. La mia notte ti aspetta. Il mio corpo ti attende. La mia notte vorrebbe che tu riposassi nell’incavo della mia spalla e che io riposassi nell’incavo della tua. La mia notte vorrebbe essere spettatrice del mio e del tuo godimento, vederti e vedermi fremere di piacere. La mia notte vorrebbe vedere i nostri sguardi e avere i nostri sguardi pieni di desiderio. La mia notte vorrebbe tenere fra le mani ogni spasmo. La mia notte diventerebbe dolce. La mia notte si lamenta in silenzio della sua solitudine al ricordo di te. La mia notte è lunga, lunga, lunga.
 
Perde la testa ma non può allontanare la tua immagine da me, non può dissipare il mio desiderio. Sta morendo perché non sei qui e mi uccide. La mia notte ti cerca continuamente. Il mio corpo non riesce a concepire che qualche strada o una qualsiasi geografia ci separi. Il mio corpo diventa pazzo di dolore di non poter riconoscere nel cuore della notte la tua figura o la tua ombra. Il mio corpo vorrebbe abbracciarti nel sonno. Il mio corpo vorrebbe dormire in piena notte e in quelle tenebre essere risvegliato al tuo abbraccio. La mia notte urla e si strappa i veli, la mia notte si scontra con il proprio silenzio, ma il tuo corpo resta introvabile. Mi manchi tanto, tanto. Le tue parole. Il tuo colore.
 
Fra poco si leverà il sole.
Frida Khalo

 

Il cinema e la letteratura hanno molte cose in comune. Prima fra tutte, narrano storie. Il registro letterario e quello cinematografico sono diversi, certo, eppure a volte si incrociano, si sfiorano, si sovrappongono.  E vivono in una felice condizione “sospesa” in cui il libro si si film e il film si trasforma in libro. Accade poche volte perché ci vuole molto talento. Ci è riuscito Luchino Visconti ne “Il gattopardo”, ad esempio.

Se abbiamo letto il libro, il film solitamente ci deluderà. Perché quel “film” lo abbiamo già visto. Lo abbiamo creato noi. Siamo stati noi stessi lo sceneggiatore, il montatore, il regista, il fonico.  Borges (e non solo) sosteneva che il libro appartiene al lettore, più che all’autore. Calvino lo conferma ne Se una notte d’inverno un viaggiatore, uno dei suoi capolavorì   assoluti, attraverso un racconto impensabile senza la presenza viva, partecipata, dello stesso lettore. Un libro che “morirebbe” senza il lettore / co – autore.

Difficile accettare la versione cinematografica, per quanto riuscita, di un libro che abbiamo amato senza avvertire  una sorta  di “tradimento” operato dal regista che altera, manomette, decifra arbitrariamente la narrazione che ha preso vita nella nostra mente, uscendo fuori dalle parole e abitando lo spazio immaginativo in cui personaggi e paesaggi trasformano la parola scritta in carne, sangue, soffio vitale. Quella versione sarà comunque un’effrazione rispetto alla storia che pagina dopo pagina è esistita per noi, soltanto per noi. Ora quella storia viene condivisa da un pubblico più vasto, non è più definita soltanto dallo spazio intimo che ci collega al suo autore (e questo è già un cambiamento sgradito) ma addirittura diventa l’oggetto di altre fantasie, altre immaginazioni, altre visioni. E per quanto la parola scritta sia la stessa, la percezione soggettiva rimarrà sempre individuale, quasi un fatto privato anche se condiviso, così come un  tramonto viene filtrato dalla sensibilità sensoriale ( e non solo ) di chi lo guarda.

Certo, narratori più “visivi” come Proust riescono a dare pennellate descrittive così minuziose alla loro “opera su carta” che i lettori saranno inclini a trasformare la scrittura in immagini più simili fra loro. Di fatto, l’immensa, meravigliosa Ricerca proustiana è una galleria di dipinti impressionisti che, come tanti oli su tela, prendono forma e vita pagina dopo pagina.

Anche dopo tantissimi anni, impossibile dimenticare i giochi di luce del sole sui sofisticati drappeggi dell’abito bianco di Odette che, con il suo ombrellino, si staglia fra alberi e foglie.

Eppure , per quanta somiglianza si possa cogliere, la mia Odette non sarà mai uguale alla Odette di un altro lettore.

Ed è per questo che il cinema fatica a combinare il matrimonio perfetto  con la letteratura. Chissà, forse perché le nozze con i consanguinei comportano fragilità e deformazioni nel parto creativo che ne consegue.

Ma, quando ci riesce, come accade a Visconti, è magia, alchimia.

Se dunque i film inseguono i libri, li corteggiano, trovano “libera ispirazione” (che diventa anche una difesa davanti all’esito infelice, al risultato che genera malcontento), restano comunque confinati in un mondo vicino eppure ben definito, che sfiora il libro ma non si mescola mai.

E quando cercano di somigliare troppo alla sua cifra stilistica ne escono pesti e impacciati, come accade al film Sostiene Pereira, pallido tentativo di trasposizione cinematografica dell’opera di Tabucchi.

E poi, poi ci sono i casi particolari. I casi in cui accade che l’autore del libro è anche il regista del film. Ed ecco che possiamo, in questo caso, entrare nella mente dello scrittore per vivere poi sullo schermo la storia esattamente così come è stata da lui concepita, immaginata, vissuta.

Per chi, come me, da sempre si appassiona di cinema  e letteratura è un evento imperdibile.

Ed è così che sono andata a vedere, incuriosita, Il primo giorno della mia vita, malgrado critici spesso non troppo entusiasti (e sulla critica avrei qualcosa da dire, ma è un’altra storia, troppo lunga, qui, da raccontare.

Non ho letto il libro, lo ammetto. Con la mente vergine di ogni influenza possibile, con occhi profani, mi sono seduta al cinema e ho guardato il film.

Un film che ho trovato bellissimo. Intensa  la storia, riusciti i dialoghi, il montaggio, la recitazione (difficile sbagliare con Tony Servilli, Margherita Buy, Valerio Mastrandrea).

Spesso il nostro cinema fatica a trovare una sua dimensione riuscita, assediato dai vizi provinciali della commedia italiana nazional-popolare e la difficoltà nel trovare un ritmo riuscito, un afflato narrativo serrato come quello tipicamente americano, insieme alla difficoltà nel creare espressioni drammatiche e allo stesso minimaliste, lente eppure mai noiose, che il cinema francese frequenta invece con agio e confidenza.

Invece qui, a mio avviso, il regista/scrittore Paolo Genovese riesce a regalarci un film di spessore, che affronta il delicato tema del suicido con malinconica leggerezza. Quella leggerezza che, per dirla con calvino, non è mai banalità ma “gravità senza peso”.

Così come senza peso sono i corpi dei quattro protagonisti morti e non morti, in bilico fra la vita e la morte, il suicidio e il riscatto, in quell’attimo sospeso fra le anse del tempo in cui sembra possibile tornare indietro, rimediare, modificare il passato anche nel suo gesto più estremo.

E se ad alcuni critici non è piaciuto l’enigma perché troppo “misterioso”, quell’enigma irrisolto invece   dà ancora più forza al film.

La non eccessiva caratterizzazione dei personaggi, così come quella del misterioso “psicopompo” che accompagna le anime in uno strano aldilà che si snoda invece proprio qui, sulla terra, fra anime di ossa e corpi sudati.

I dialoghi sostengono l’assenza di un’azione robusta, invasiva, e mettono in risalto – ecco – la risonanza fra cinema   e letteratura attraverso la forza vivificante della parola. Parola scritta, parola parlata. Parola dal potere immenso, se usata bene, in ogni sua declinazione.

 Inquadrature che mettono in risalto la bravura degli attori, musica indovinata che offre suggestione alle scene, tensioni narrative poggiate su scatti e rallentamenti costeggiano la storia e le imprimono forza.

Non ho letto il libro, ripeto. Non è neppure importante.

Quello che conta, per me, è avere l’occasione di sbirciare nell’universo creativo di un narratore unico, che traduce in film la sua opera letteraria.

Non capita tutti i giorni. E, almeno solo per questo, ne vale la pena.