L’amore fa paura. Perché enormemente sopravvalutato come soluzione alla solitudine, perché implica mettersi in gioco, perché si pensa che si potrebbe soffrire troppo se l’altro ci lasciasse (spesso le immagini che vi si associano sono di tessuti lacerati e sanguinanti). Paura è il nome che diamo alle nostre incertezze, alla nostra sicurezza che proiettiamo sull’altro, che facciamo diventare un nemico pericoloso. Allora sogniamo amori idealizzati e perfetti, fuori dal reale; oppure scegliamo persone sbagliate per continuare a emozionarci restando autonomi”.
(Umberta Telfener
)

Di tutti gli amori conosciuti, solo alcuni sopravvivono consegnandoci il sigillo di un mutamento irrevocabile, una trasformazione indelebile malgrado la danza dei mutamenti li abbia poi allontanati fisicamente.
Sono gli amori “veri”, quelli che ci fanno capire quante balle spesso ci raccontiamo quando diciamo, o crediamo, di amare.
Questi amori spesso sono così potenti da essere fragili, precari, esposti alle tempeste quotidiane di eventi fatali che sembrano accanirsi contro il profumo speciale di quel prato fiorito.
Vivono sul brivido di un soffio, sulla carezza rubata all’alba, sul colore vermiglio di un tramonto che estingue il sole invitando alla contemplazione notturna.
E sono disperati. Della disperazione attonita, lacerata, incapace di compimento. Struggono l’anima,  come canta Jacques Brél nel suo bellissimo
Ne me quitte pas, ascoltatelo qui>> con i suoi versi intrisi di una poesia dolente che si fa scavo, lama, coltello.
Sono amori che non muoiono mai, anche se “formalmente” archiviati, seppelliti, messi in un angoletto a favore di altre destinazioni.
Chi ha vissuto questo tipo di amore ne conosce l’odore che appartiene a un luogo lontano, iperuranio, sospeso nelle curve degli universi. E allora capita a volte che altre carezze che vorremmo fare per rassicurare chi ci sta accanto si arrestano sulla superficie, rotolando giù solitarie, confuse, consapevoli di una soglia  che non possono superare. Hanno anche loro un profumo, ma non ha la stessa qualità. Fortunato è chi l’ha conosciuta, questa qualità, anche solo per brevi momenti.
Questi amori speciali sono specchi, compimenti del cuore e dell’anima. E sono rari, rarissimi. Accade quando due persone combaciano, quando ogni interstizio penetra in quello dell’altro, quando gli occhi aprono porte in cui brilla l’eternità di un momento.
Purtroppo la profondità di una bellezza che procede a doppio passo di danza a volte comporta instabilità, smottamento, perdita di tranquillità fisica e mentale. Del resto, ogni gioiello interiore si raggiunge pagando un prezzo. A volte, se è troppo alto, si fugge, si migra. Ma non si dimentica.
Questo è l’amore che sazia l’anima, che le offre le ali anche se poi, come Icaro, si può cadere per sempre. Senza rialzarsi più.
Poi ci sono gli amori “ordinari”, quelli che non nascono dalla magia del complemento, dall’arcana specularità in cui rimandi e fusioni permettono l’attraversamento dell’altro e di sé.
Ma a modo loro sono belli anche questi. Scaldano, permettono soste o accelerano dissensi, invitano comunque alla scoperta della diversità. Ci insegnano a misurarci. Importanti, anche loro. Ma di una qualità differente. Certamente più vivibili nell’estensione ordinaria del tempo.

E poi, invece, quanti calessi scambiati per amori. Una moltitudine.
Ognuno di noi è pronto a fare di un rapporto il castello di Camelot, trasformando il suo amante nel Graal.
Paure, desideri, bisogni, proiezioni.
Amori idealizzati, perfetti, mai scalfibili (perché scalfirli significherebbe aprire gli occhi sull’imperfezione di questi amori, sul loro far parte delle cose del mondo, appunto imperfette). Icone sacre su cui installiamo la nostra religione amorosa, la liturgia della coppia, recitata ogni giorno con santa devozione. Amen.

Ma se siamo fortunati, allora un giorno uno tsunami ci colpirà facendoci aprire quegli occhietti strizzati che non vogliono vedere la verità delle cose, li sbarrerà fissando le palpebre con due stecchini finché non lacrimeranno, costretti alle forme reali, quelle che restano dopo la fuga di ogni immaginazione, di ogni consistenza proiettata e dunque effimera nella sua natura.
Ma c’è un’altra via di fuga dal contatto reale, profondo, con l’amore: “ scegliamo persone sbagliate per continuare a emozionarci restando autonomi”.
Idea magnifica, eccelsa. Strategia sublime e, temo, molto diffusa. Le nebbie emotive che sembrano catturarci nella nostra Avalon sentimentale in realtà sono gioco, inganno, finzione che permette di vivere la passione senza bruciarsi. Ma non c’è nessun fuoco che non brucia, qui sulla terra. Il “Fuoco che non brucia”, l’unico capace di farlo, appartiene alla verticalità degli spazi spirituali.
Dunque far finta di giocare agli amanti appassionati senza bruciarsi, senza mettere in gioco se stessi, funziona pure fino a un certo punto, fino a quando si sente il desiderio di uscire – anche solo per un istante – dai confini della propria pelle per un fugace incontro con l’altro. Ma lì, in quel crinale che separa due mondi, lì si deve perdere l’autonomia, abbandonando la magnifica corazza che blinda ogni nostro poro e che, invisibilmente, mette muri e distanze nel momento dell’inabissamento nell’altro, nel momento di un incontro reale che è per forza annullamento di sé e di ogni autonomia. Fa paura. Ma è l’unico modo per conoscere davvero qualcosa dell’altro. E di noi.
Ci sono coppie felicemente cementate da abitudini condivise, da sodalizi sereni, da giochi delle parti in cui ognuno assolve alla sua funzione nei confronti dell’altro e del mondo. Coppie abilitate a resistere al mondo facendosi forza a vicenda. Ma l’amore come conoscenza profonda di sé è forse un’altra cosa. Di amori ne esistono tanti. La qualità del rapporto tra due individui poggia su una vasta gamma di opzioni, tutte più o meno piacevoli e tutte comunque importanti, anche se in misura diversa, funzionali nel traghettarci alla scoperta di noi.
Il rapporto fra un uomo e una donna è qualcosa di misterioso, ineffabile. Perfino nelle sue varianti più superficiali, carnali. Perché è l’incastro che del due torna a fare l’Uno.
Quell’Uno che per la paura ti fa fare la cacca addosso nei pantaloni, se lo sperimenti non nella sua idea, nella sua elaborazione mentale ma nella sua esperienza vitale, vibrante, priva di appigli intellettuali.
Sconfinare nell’altro è il sogno di tutti. Riuscirci, privilegio di pochi.
Ma è solo continuando a cercare – attraverso ogni forma, ogni rapporto, ogni amore – che avanziamo nella conoscenza profonda di noi.
Perché, come diceva Jung, nulla ci tira fuori chi siamo realmente come l’amore. Nulla fa emergere ogni ombra inconscia come l’amore.
Perché ci tira giù le brache delle nostre difese, perché fa  affiorrare le nostre ombre e le visite dei nostri fantasmi, perché chiama a raccolta il bambino che tutti siamo stati.  Quel bambino che magari non ci piace e che scansiamo abilmente alla luce del giorno.
Com’è facile avere una buona immagine di noi stessi  quando svolgiamo bene i nostri mestieri. Quando facciamo un lavoro che ci piace, ci gratifica, ci fa sentire sicuri e “bravi”, stimati e applauditi dagli altri, la nostra autostima attraversa mari e montagne. Lì siamo lucidi, lì viene fuori il meglio del nostro essere (così pensiamo) perché quel confine strano, così sottile e rarefatto, quella pelle che ci divide dal mondo in realtà non è mai nuda, mai esposta al brivido che scuote i nostri abissi interiori.
Siamo più “mentali”, organizzati, capaci di decidere dinamiche e strategie.
Il nostro Io professionale è un bel personaggio, ben piantato a terra; non rischia di essere stregato dalle notti lunari e dai giorni solari di un amore “vero” che porta con sé anche le eclissi. I personaggi che abitiamo hanno maschere coi fiocchi, tutte personalità forti, tutte immagini vincenti, luminose.
Ma è solo dall’incontro con i vortici delle emozioni, con l’irrazionalità dei sentimenti, con la precarietà di una relazione fatta di scoperte e confronti (e se siamo molto molto fortunati, con quell’amore vero, autentico, speculare) è solo – dicevo – da questo incontro (nelle sue varianti di gradi differenti che però tutte spingono a una maggior conoscenza di sé) che emerge la natura profonda, spirituale, delle nostre radici. Che deve però passare attraverso le forze ctonie, conoscerne la potenza. E’ lì, in questo incontro d’amore che siamo scossi, che i personaggi abilitati ad agire felicemente per noi crollano tutti come birilli, rivelando le nostre follie, le nostre contraddizioni, i nostri infantili capricci e le nostre fobie.
Forse è per questo che oggi schiere di uomini e donne di successo quando, la sera, si tolgono cravatte e tacchi a spilli insieme alle loro certezze avvertono un buco allo stomaco, un pungolio che è “fame” di quel qualcosa che toglierebbe loro tante sicurezze in cambio di un po’ di verità.
All’uomo si ricopre di strati con cui affrontare una vita fatta necessariamente di ipocrisie e compromessi solo un’incontro d’amore reale regala la possibilità di smettere qualche strato per cercare l’essenza. Che è sempre piccina e allo stesso tempo grandissima, immensa. Fragile e potente. Vulnerabile e forte.
Palpita dentro e sotto la pelle. Aspetta, trepidante, di essere ri-conosciuta.