Salone internazionale del libro. Anno 2000. Sono allo stand di Adelphi, una delle case editrici che amo di più. Un ragazzo dello

staff mi regala un poster di Bruce Chatwin, di cui da sempre colleziono tutti i libri, per mestiere  e per passione. Lo afferro con mani tremanti, gli occhi commossi. Non immagina cosa significa per me quel pezzo di carta  stampata.

La foto, famosa, lo ritrae con i suoi "pazzi,pazzi occhi da esploratore dell'Ottocento", come scrive Shakespeare che allo scrittore  inglese ha dedicato una lunga, intensa, partecipata biografia.  Appesi sulla spalla, gli scarponcini da viaggio.

Da quel giorno, il poster di Chatwin mi ha seguita ovunque. E' stato con me nelle case che ho abitato, nelle città in cui ho vissuto. E' per me ispirazione, risorsa, respiro.

"Che ci faccio qui"? è il titolo del libro di Adelphi che di Chatwin ha pubblicato diverse opere. Un libro immenso, immenso come lui.

Viaggiatore, scrittore, nevrotico poeta della vita e ammiratore del nomadismo come ritorno, ossimorico, alle radici stesse della nostra esistenza, Chatwin ha girato il mondo in lungo e in largo. Lo ha raccontato nei suoi taccuini, lo ha nominato, reso vivente,  così come fanno i suoi aborigeni australiani in "Le vie dei canti", lo ha ispezionato attraverso indimenticati  ritratti antropologici mescolati alle descrizioni di paesaggi vibranti.

"Perchè divento irrequieto dopo un mese nello stesso posto, insopportabile dopo due?".

Già. Il nomadismo era per lui un'esigenza, la sua "anatomia dell'irrequietezza" lo ha portato ovunque, dall'Australia alla Terra del Fuoco.

I viaggiatori, quelli veri, sono sempre soli. Non si spostano in massa, non leggono le guide turistiche. Semplicemente, si tuffano nell'inedito per spostare gli orizzonti più in là.

A proposito di orizzonti, Frida Khalo scriveva: "Dove tu vedi confini io disegno orizzonti". Anche per Chatwin era così.

La sua passione per l'ignoto, per l'incontro con l'altro da sé, è stata la stella polare della sua esistenza. Era un poeta del "diverso", Chatwin. Aveva una scrittura visiva, non a caso le sue fotografie sono intense, bellissime, illuminate da giochi cromatici che facevano da specchio al suo passato di amante dell'arte nelle gallerie londinesi. Annusava, così come fanno gli animali per conoscere un territorio, sentiva, scriveva.

"Che ci faccio qui?" è la domanda che ogni viaggiatore vero, geografico e anche mentale, si deve fare. Sempre.

E' LA DOMANDA.  Un po' come quella che Trinity rivolge a Neo. E' la domanda che  ci fa uscire dalla Matrix di abitudini che finiscono con l'appiattirci,facendo della vita un quotidiano sbiadito, con il cielo che si abbassa  un po' di più.

Che ci facciamo qui? In questa casa (per Chatwin la casa era una "perversione", un luogo "in cui appendere il cappello "), in questa città, in questo paese, in questo pianeta...

I viaggiatori veri si sentono sempre un po' stranieri in casa. Forse perchè la loro vera casa non è qui ma sulle stelle. Non c'è nessuna astronave che verrà a prenderlI, come accade a Et, ma qualche cuore innocente, come quello del bambino che ne capta il linguaggio segreto, riconoscerà l'alfabeto dell'anima randagia che nel viaggio cerca le parti smarrite di sé, e quelle che deve ancora incontrare. Quei cuori si incontrano spesso, quando si viaggia in solitaria. Perchè spostarsi in due, o in massa, non cambia di certo il risultato: portando un pezzo di "casa" con noi ci apriamo in modo diverso alle esperienze, trascinando alcune familiartià che invecem, per il momento, vanno dismesse. E' da soli che diventiamo esploratori, esploratori del mondo esterno che apre nuovi spicchi di terra anche dentro di noi, mutandone le geometrie.

In questo senso il viaggi ci riconduce alla sacralità della vita perchè ci mette davanti a noi stessi, ci spoglia delle certezze, delle abitudini, per saggiare limiti e vastità che sono innanzitutto dentro noi stessi.

Negli ultimi venti anni le neuroscienze hanno mostrato sempre di più come la neuroplasticità del cervello. E se lo stimolo (buono) ne favorisce le sinapsi, l'assenza di stimoli lo uccide. E in un mondo sempre più digitale, robotizzato, il viaggio, quello vero, diventa esorcismo per scongiurare la perdità di umanità che ci sta consegnando a uyna dervia antropologica mai vissuta prima.

Ecco allora che camminare, viaggiare in treno, prendere un aereo per incontrare culture diverse, ci restituisce a una dimensione che vuole sottrarsi al livellamento globale imposto da cellulari, social, applicazioni.

Che ci faccio qui?

Cerco di essere, innanzitutto. E cerco di conoscere la meraviglia del pianeta di cui faccio parte. 

Il viaggio, il viaggio vero, ci aiuta a essere custodi e testimoni migliori di un mondo che l'uomo sta distruggendo.

Il viaggiatore autentico è, innanzitutto, un poeta che usa il linguaggio del cielo, del mare, della sabbia e del vento.

Ogni giorno si chiederà il senso della sua stessa esuistenza.

Ogni momento.

Ogni ora.

Ogni istante.