Qualche anno fa faticavo ad addormentarmi. Era un periodo denso di nervosismo e incertezza. Così presi l’abitudine di fare un piccolo gioco che mi ero inventata.

Stavo lì, nel mio letto (io dormo su un soppalco, cosa che fa somigliare il letto a un nido sospeso nel cielo, o a una cuccia), e invece di innervosirmi girandomi verso ogni punto cardinale, quasi come in un’antica incoronazione, mi fermavo e cominciavo, a occhi chiusi, a immaginare la stanza intorno a me. Poi immaginavo la casa, il palazzo, la strada, la città con le sue luci notturne…E proseguivo il viaggio. Immaginavo le città vicine, le campagne, i laghi e i fiumi, e poi ancora le regioni, l’Italia intera. E ancora altre terre, i continenti, gli oceani, i monti, i deserti. Man mano il mio corpo si rimpiccioliva perché aumentavo progressivamente lo spazio intorno a me. Si faceva piccino piccino, fino scomparire. Al suo posto il cielo, la Via Lattea fatta di stelle, i pianeti, la galassia, il silenzio siderale di altre galassie, fino alla curva dell’universo…

Ma a  quel punto mi ero già addormentata.

Un giorno ho scoperto con mio grande stupore che ciò che chiamavo "la mia piccola invenzione" era in realtà una pratica usata – con qualche variante – nelle tecniche yoga (a quell’epoca non sapevo nulla, io, dello yoga).

 Ne sono rimasta piacevolmente sorpresa.

In fondo, a ben pensarci non ero stata poi così originale. Mi ero semplicemente esercitata nel ridimensionamento dell’Io. Questo Io che si crede così importante, potente, "grande". Questo Io che mi esalta e mi abbatte a suo piacimento. Un Io capriccioso, tiranno. Era la sua presunta importanza a non farmi dormire, era il rumore dei pensieri affollati sulla testa, arrampicati lì, insonni, pronti a rivendicare posizioni e turbamenti, a elencare cose da dire o da fare, a processare emozioni. Ma la testa, che quando pensa si crede un gigante, in realtà è solo una misera, ridicola monetina lanciata per aria. Testa croce, sì no, adesso dopo, bianco nero, gnam gnam gnam, un ruminare di pensieri spettinati.

Per fargli capire la sua finitezza, però, occorre farle ascoltare il respiro dell’universo. Bisogna diluirla, stemperarla, renderla consapevole di ciò che la circonda. Farla sentire un nulla senza importanza.

Ecco, ecco che la relatività di noi stessi ci regala sospensione e sollievo. Ci aiuta a scivolare nel sonno.

Tanto più piccoli diventiamo, maggior leggerezza acquistiamo. E in questa terra enorme, brulicante di vita e di milioni di storie importanti quanto la mia, in questa terra che guarda un cielo ancora più grande, labirintico enigma di ogni Inizio e ogni Fine, arcano di ogni stupore, meraviglia di remote creazioni, io mi sento restituita alla mia preziosissima nullità.

Non è nichilismo. No. E’ viaggio leggero, senza zavorra. E’ bocca di leone nel vento.

Troppo legati alla materia del nostro Io, ci crediamo "grandi", "importanti", "potenti". Ma non lo siamo. Non lo siamo.

Siamo solo creature nelle quali soffia dentro la vita. Per ora. Non sappiamo neanche per quanto. Eppure ci comportiamo come se fossimo per sempre. Per sempre. Per sempre. Ma se "del diman non v’è certezza", perché non molliamo invece ogni arroccamento?

Rimpicciolire quel birichino dell’Io, sempre occupato a mettersi addosso qualche lustrino, ad appiccicarsi qualche abito di scena nuovo e pronto per l’occasione, diventa un piccolo esercizio di pazienza. L’immaginazione apre porte e finestre, ci fa sconfinare mostrandoci l’immenso che si trova fuori di noi, esattamente oltre il confine della nostra pelle (ed esattamente anche all’interno di quello stesso confine).

Riduce le chincaglierie dell’Io.

E di notte, a volte ancora arriva a volte vantando la sua importanza, dandosi arie da primadonna. Questo piccolo esercizio viene in mio soccorso. Lo fa ancora oggi, quando ne ho bisogno.

E’ un esercizio davvero benefico.

Sssst. Buona notte.