Ho spostato un granello di sabbia

e ho modificato il Sahara

(Jorge Luis Borges)

 

Mi ha sempre colpito, questo verso di una poesia di Borges (uno dei miei scrittori preferiti. Lo amo di un amore folle, ardente, sospeso nel tempo).

La sabbia ci affascina per la sua mobilità, per il suo insinuarsi nei pertugi dello spazio e del tempo. Basta pensare alla clessidra, simbolo della scansione temporale ma anche del suo abbattimento nel luogo in cui cessa ogni passaggio. Il suo continuo capovolgimento è metafora delle polarità a cui soggiaciamo nel mondo del divenire. Avanti, indietro, su e giù, nero e bianco, giorno e notte…

Non a caso Borges, raffinato filosofo sedotto dalle vertigini metafisiche delle tradizioni antiche, pone la clessidra fra i suoi simboli preferiti, vicino al coltello, al labirinto, allo specchio, alla tigre…

Non ha forma, la sabbia. E allo stesso tempo è tutte le forme. Così fragile nella nostra mano, pronta a scorrere via come un sogno al mattino presto, diventa maestosa quando forma i deserti.

Eppure rimane sempre sfuggente, mutevole come mutevole è questo mondo, malgrado i nostri tentativi di fissarlo, trattenerlo, catalogarlo, incorniciarlo.

Il deserto e la sabbia fuggono dalle nostre pretese. Si rincorrono, liberi, per giocare a rimpiattino con le orme. Si divertono a cambiare in continuazione, spostando i confini. E noi, abituati al cemento delle città, quello stesso cemento che assurdamente ci imbroglia alimentando la nostra onnipotenza, rimaniamo perplessi davanti a quella danza di forme.

Non ci sono mai stata, io, nel deserto. Eppure la mia mente ha errato in quei luoghi, li ha cercati negli spazi dell’immaginazione, li ha tessuti di fantasie e di ricordi prestati da altri.

Come quelli di mio zio. Lui a cinquant’anni si è messo a studiare l’arabo. Perché – dice-  non puoi mai capire veramente un paese se non ne conosci la lingua.

Ha ragione, nella lingua vibra l’anima delle cose. E così lui, innamorato del deserto fin dal suo primo viaggio, si è immerso nella cultura araba penetrando i misteri di quel linguaggio onirico, simbolico, denso di evocazioni e richiami.

E ha girato in lungo e in largo ogni deserto. Due anni fa la sua compagna di una vita è morta di cancro. Due anime affini, di quell’affinità così rara che sembra esista solo nei libri.

E lui, lui per sopravvivere ha cercato il deserto, lo ha cercato con la disperazione di un’assenza cocente, ne ha percorso i giorni e le notti avanzando fino alla fine del mondo, là dove ogni sabbia si fa marea. 

Ma niente gite turistiche. Lui scompare per due, tre settimane. Parte insieme a una guida, e attraversa i deserti con un cammello.

A mia madre racconta delle notti speciali passate nelle tende dei beduini. Notti fatte di cibo e di chiacchiere intorno al fuoco, avvolti da un manto di stelle.

Le stelle. Mio zio dice che nessuna notte è così bella e potente come quelle su cui si affaccia il deserto. Senza l’artificio delle luci cittadine, il cielo mostra allora ogni stella, e ogni stella racconta un arcano.

E allora ti senti nudo, nudo davanti a un’immensità. E’ solo un brivido, un sussulto silenzioso, diverso dalle emozioni urlate di questa nostra società sguaiata, caciarona, disordinata. Lì, nel deserto, si vive di silenzi e di notte stellate. Si avanza bruciati dal sole, lasciando orme pronte a sparire senza lasciare traccia. Un passaggio lieve, dunque. Umile.

Non vivrebbe mai più senza deserti, mio zio.

Lo capisco.

E’ un’avventura dell’anima. Quando torna ne conserva la memoria nel cuore fino al giorno in cui il deserto non lo chiama di nuovo.

Sono sicura che laggiù, perso nelle montagne di sabbia, in quei silenzi di vento incrocia ancora la voce di mia zia. E’ lì che ritrova la ragione di quell’assenza. E di ogni presenza.

Alchimie del deserto.