"Chi dice che preferirebbe lottare fino alla morte piuttosto che farsi violentare è un idiota… Parlando di scalate o di traversate burrascose certa gente dice di essere diventata tutt’uno con la montagna o con l’acqua.Io divenni tutt’uno con quell’uomo. Quell’uomo teneva in mano la mia vita…"

(Alice Sebold, Lucky)

Ho appena terminato Lucky, il libro in cui Alice Sebold racconta dello stupro subìto quando aveva solo diciannove anni. Accadde una notte, in un parco. Lo stupratore le rubò il fiore della verginità, mandandone in mille pezzi i petali all’interno di una vecchia galleria, fra i vetri rotti e l’ansimare della paura.

Ma lei non mollò. Sostenne lo sguardo dei compagni di studi, le domande della polizia, la sua "diversità" che all’improvvio metteva una barriera fra lei il mondo, il resto del mondo.

Usò lo schermo del suo umorismo per impedire al mondo di penetrarla di nuovo.

Con una violenza carnale si viene scagliati nel Tartaro in cui scorre lo Stige. Trovare la via per la luce è così difficile che molte donne cercano di dimenticare, di seppellire il passato. Anche Alice ha tentato di farlo. Ma quello della violenza è un marchio di fuoco, una lettera scarlatta cucita per sempre nell’abito che mostriamo al mondo. E anche dentro, i lividi e i graffi dell’anima tormentano la mente che cerca di correre lontano, lontano dal momento che cambiò per sempre una vita.

Alice però è Lucky, fortunata. Anzi benedetta, come spiega lei. E’ stata all’inferno ma è anche tornata. Forse perché anni dopo ha incontrato di nuovo il suo stupratore, perché è riuscita a inchiodarlo, a sopportare la nuova violenza del processo in cui la donna, comunque, è sempre vittima di un sospetto mai dichiarato ma che volentieri circola, serpentino, nelle aule. Quello che in fondo, da qualche parte, sia lei la responsabile. Un sospetto maledetto che affiora e che di nuovo corrompe ciò che era stato già corrotto, segnato.

Quando le parole raccontano un’esperienza vissuta si fanno carne. Perché per quanto ci si possa sforzare, per quanto l’invenzione letteraria riesca a spingersi oltre il non vissuto per restituirci altri mondi che hanno il sapore della verità, solo il vivere un’esperienza ci rende davvero coscienti del suo significato.

Perciò ho accompagnato la storia di Alice come potevo, in punta di piedi e con grande rispetto. Con quel pudore che nasce quando avviciniamo i dolori degli altri. Ma nelle sue pagine ho sentito il graffio amaro della verità, la disperazione di una speranza ostinata, come quelle piantine che spuntano fra le crepe del cemento, quelle su cui nessuno scommetterebbe e che invece stanno lì, a testa alta, quasi con impertinenza, resistenti al vento e alla siccità, a testimoniare la forza sacra della vita. L’uomo è una canna pensante, scriveva Pascal. Si piega ma non si spezza.

Forse si spezza anche, penso. Ma penso anche che da quella rottura nasca una nuova vita.

Chi ha sofferto molto conosce le mutilazioni del dolore, ma conosce anche la forza della fragilità.

Il libro di Alice Sebold è doloroso, difficile come tutte le storie vere in cui abbiamo occasione di entrare, come ospiti invitati a sbirciare dietro una tenda.

Eppure quel dolore è il motore di una forza nuova che le fa dire, oggi, benedetta.

Benedetta ogni donna che muore e risorge.