Si sta come d’autunno

sugli alberi

le foglie.

 

Com’è bello, l’autunno. Anche se ormai è così fragile, assediato – come le altre stagioni – dai cambiamenti climatici e dagli stupri a questa nostra Terra, violata e dolente.

Ma ieri, viaggiando in treno, osservavo le chiazze rossastre, segnali degli alberi per indicare, da sempre, il cambiamento, dal culmine estivo alla "morte" e al riposo della natura in inverno. Le foglie che cambiano nel tempo sono, per me, una mappa meravigliosa dei mutamenti. Gli alberi, adorni e disadorni, in un ciclo continuo, ci insegnano come dovremmo vivere. Anche se noi a volte vorremmo sempre l’estate, festa dei sensi, negligenza del fare. Invece nello spogliarello autunnale, che preannuncia i rigori dell’inverno, c’è un gioco sublime: insieme alla primavera, è il bilico fra due stati, e due ragioni d’essere, per l’uomo che vive la natura come metafora di Vita.

Lo sbocciare dei fiori e la caduta delle foglie rossastre sono terre di mezzo, luoghi in cui tutto è possibile prima della "fissità" estiva e invernale, della alterna prevalenza di luce e del buio.

Ricordo ancora quando, da ragazzina, passeggiavo sul prato Rocca, castello medievale di Senigallia, perché adoravo guardare il grande muro che lo perimetrava, coperto di foglie che mostravano i rossi più belli, in un gioco cromatico suggestivo, invitante.

Ancora oggi, adoro il colore sospeso dell’autunno silente, in cui le foglie cadono e fanno rumore solo se calpestate.

Se ne vanno via così, muiono in un batter d’ali, mute e leggere, fragili e bellissime.

Anche io penso alla condizione umana.

E penso che forse, a volte, questa fragilità è necessaria per una nuova forza.

Dovremmo essere come foglie che si staccano e cadono, a volte. Invece restiamo appesi, ostinati e fuori stagione, a ciò che non può più essere, a ciò che deve scivolare via con il mutato tempo.

Una "morte" preludio di un cambiamento, un distacco necessario per nuovi assetti, per inverni e primavere, e future estati in un’esistenza che non dovrebbe mai essere uguale, in una funerea fissità che ostacola i processi di rinnovamento.

Non ho mai trovato triste l’autunno, anzi l’ho sempre amato di un amore intenso, intenso come quello che riservo alla primavera.

Difficile assistere, oggi, a queste stagioni stonate. Difficile osservarne – impassibili – l’oltraggio.

Gli autunni e le primavere della mia infanzia avevano in sé tutta la vitalità della natura, e il mistero dei suoi insegnamenti.

Usavamo i freschi di lana, oggi scomparsi perchè un giorno ci arrostiamo nel caldo e l’indomani ci rannicchiamo nel freddo, in un moto disordinato, barcollante, privo di orientamento, come quello di un ubriacone.

Ma io conservo la memoria d’autunno. E ancora lo cerco, come ieri, nel treno che attraversava boschi e montagne, rivelando isole rosse, beate nella loro straordinaria caducità.

Spero che anche in futuro rimarranno, qua e là, assaggi d’autunno. Da prendere a morsi. Affamati dal tempo.