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La mia Istanbul

Viaggio di una donna occidentale attraverso la Porta d'Oriente

 

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Sul film di Moretti si è detto tanto. Sul libro di Veronesi, pure.

Mi interessa solo appuntare qui la mia emozione nel ritrovare, al cinema, questa storia così affascinante, così assurda da essere vera.

Se un padre dopo un lutto parcheggia sé stesso fuori dalla scuola di sua figlia, ogni giorno, per stare lì, immobile, a oservare il brulichìo di persone affaccendate, prese dalla loro quotidianità fatta di riti, di grandi o piccoli appuntamenti, se un padre, dicevo, fa questo, in realtà compie un solo, eloquente gesto: cambia prospettiva.

Ed è quella prospettiva, accidenti, che non riusciamo spesso a cambiare.

Non troviamo la nostra panchina.

E il mondo, il nostro, non cambia mai.

Immersi nella corrente delle nostre giornate che inseguono il "fare", nuotiamo contro l’acqua, accaniti, risalendo correnti contrarie, ansimando sull’esistenza sempre tesa a rincorrere un obiettivo che altri hanno segnato per noi (ma che noi, ingenui, crediamo nostro).

Sulla panchina, invece, il mondo cambia. Si inverte, si capovolge, mostra spetti segreti svelati solo a occhi rallentati, privi di meta.

Dovremmo tutti cercare la nostra panchina.

Cercare quel luogo sospeso, proteso senza ansie sul mondo, testimone delle azioni di altri, delle storie affannate, a volte belle, a volte terribili.

Ecco allora che le correnti cessano e il mare tumultuoso si trasforma in laghetto. E in questo laghetto specchiamo – e misuriamo – noi stessi.

Intorno, l’umanità convulsa agita affanni e successi mentre noi vediamo invece racconti, storie i cui protagonisti, gli uomini, si spogliano delle loro strutture e mostrano quel trattino di carne vibrante, essenziale.

Il mondo dalla panchina cambia forme e colori.

Si fa più poroso ma allo stesso tempo leggero, pieno di pulviscoli che danzano al ritmo del sole e del vento, delle ore sfuggite alla fretta, della relazione con l’altro incontrato senza cornice, privo di quegli schemi che indossiamo al mattino.

Già, dalla panchina le finzioni sembrano meno finzioni.

E forse, a volte, per sostare e sederci non abbiamo bisogno di un lutto, come accade a Paladini.

Abbiamo solo bisogno di trovare la forza di uscire per entrare davvero.

 

 

La felicità è fatta per essere condivisa.

(dal film  Into the wild)

 

Torno su una frase del film di cui ho scritto in precedenza che qualcuno ha opportunamente segnalato e che, dopo aver ronzato nella mia testa per un breve periodo, è stata casualmente (mai nulla è casuale, però) ripresa, questa mattina, da una persona a me carissima.

Una frase che si presta a interpretazioni polimorfe, ambigue, poste su più piani intepretativi.

Non voglio soffermarmi, qui, sul difficilissimo senso della parola "felicità", che merita speculazioni nelle quali la filosofia avvolge e penetra il senso del quotidiano riportandoci indietro, a millenni fa, alle antiche e mai risolte interrogazioni dell’uomo sul senso del suo destino nella molteplicità del divenire, immerso in un mondo di mutamenti continui fino alla trasformazione estrema, la morte. Quella che ci toglie ossa e sangue e confini.
La felicità, dicevo, è una faccenda assai complessa che per ognuno ha una destinazione diversa.

Ciò che rende felice me rende indifferente te, e viceversa.
Eppure, eppure ci sono "fratellanze" che accomunano uomini e fati tanto diversi fra loro. La più sublime, la più misteriosa di queste "fratellanze" è proprio la condivisione.
Già, perché ognuno, a suo modo, conosce l’importanza di dividere con qualcun altro un momento felice. Mentre l’infelicità può avere un moto centripeto (nei momenti di sofferenza molti uomini preferiscono isolarsi, come fanno i gatti ammalati), la felicità è, per sua natura, centrifuga. Vuole espandersi, dilagare. Chiede uno specchio e un rimbalzo.
Esplode scoppiettando nel cuore, e le sue scintille tendono verso gli altri, verso coloro che amiamo, o con i quali dividiamo comunque un pezzo del nostro tragitto.
Non a caso all’uomo malinconico è più congeniale la solitudine (mi viene in mente la meravigliosa raffigurazione del Dűrer), non a caso certe suggestioni umbratili hanno i colori di un paesaggio nordico mentre ogni Sud del mondo decanta con i suoi cromatismi la gioia di vivere malgrado le assenze.
Ogni momento lieto vorrebbe poter essere condiviso.
Il protagonista del film ha ragione. Ma in cosa consiste la condivisione?
Se la definizione della felicità invita a inerpicarsi su un sentiero assai ripido, attraversato da radure boschive e foreste vergini, quella di condivisione è altrettanto complessa.
Cosa condividiamo? Con chi?
Esistono infinite possibilità, e all’interno di queste oceani di varianti.
La condivisione può essere superficie, onda piacevole verso il tramonto, oppure può diventare abisso, stupore di profondità e di stelle notturne in fondo a ogni mare.
Dipende da ciò che vogliamo, da ciò che cerchiamo. Dipende anche dai momenti della nostra vita attraversati da passaggi e virate, dalla necessità o (cosa più difficile) dalla volontà.
Ma è vero, la felicità, comunque sia, ha bisogno di essere condivisa.
L’attimo tremante di gioia cerca mani e visi su cui appoggiarsi, orecchie su cui allungarsi.
Cerchiamo sempre, per tutta la vita, i luoghi sublimi in cui dare senso ai nostri momenti. E se la natura sembra sostenerci dilatando l’anima oltre ogni cielo, solo un altro essere umano riesce a specchiare fino in fondo la dimensione profonda della nostra gioia.

C’è solo un tipo di solitudine che è scambio continuo. Si tratta una solitudine rara, introvabile. Appartiene ai santi e ai folli (che spesso coincidono). Chi ha trovato davvero il Tutto nel cuore vive dei suoi fiori perenni in ogni istante.
Ma noi, noi comuni mortali con i nostri affanni e i nostri rovelli, pieni di desideri intrecciati e di sogni dispersi, abbiamo bisogno innanzitutto di trovare l’Uomo nella condivisione.
Non c’è vita senza scambio e relazione.
E per quanto anche una montagna o un deserto possano affinare l’anima donandoci “momenti di essere”, per quanto un gatto o un cane ci pongano in contatto diretto con i nostri più riposti semini interiori, facendoli fruttificare, per quanto tutto questo sia bello e necessario e importante, non c’è nulla come la mano tesa di un’altra persona verso di noi, con lo sguardo complice fatto di occhi affiatati, per renderci consapevoli della nostra esistenza. Di ogni nostra esistenza.

 

 

 

Capita, a volte, di osservare all’improvviso, un cambiamento. Magari al cinema, guardando un film.
A me è successo con Into the wild, il malinconico, affilato film di Sean Penn.
La vicenda – ispirata a una storia vera – narra delle migrazioni di Chris, un ragazzo poco più che ventenne che decide di seguire la Natura lasciandosi alle spalle la civiltà corrotta. A dire il vero, la spinta, come spesso accade, è data da una ferita profonda, molto profonda.
Il rapporto con i genitori è infatti sofferto, doloroso, segnato da una incompatibilità ormai “fisiologica” che corrompe ogni momento lieto.
E così Chris decide di chiudere con la sua vecchia vita per scrivere una nuova biografia, finalmente libera da convenzioni e condizionamenti. E libera da quei genitori nei quali non si è mai specchiato, frantumando la sua identità in rivoli malinconici e insofferenti.
Ed ecco che il suo viaggio – raccontato in un road movie che attinge però ai grandi miti dell’America pionieristica, come quello dell’uomo solo davanti alla terra selvaggia – diventa anche un percorso dell’anima.
Molto diverso da certe ebbrezze kerouakiane (On the road è una ribellione che corre volentieri sullo “sregolamento dei sensi” e su una certa anarchia poliforme), il film dipinge un intensissimo ritratto interiore nel quale molti possono comunque riconoscersi.
E tuttavia, tuttavia io, che ho fatto del viaggio materia di esplorazione e di studio, all’improvviso ho capito di avere, a un certo punto della mia vita – non so bene neanche quando – saltato un fosso, approdando a una dimensione diversa, non necessariamente più “matura” ma senz’altro più riflessiva.
Mi sono cibata di Chatwin, ho amato la grande letteratura di viaggio perché nel viaggio vedevo e sentivo la possibilità di un altrove diverso dalla fuga – trasformato anche in articoli- ma poi, come dicevo, qualcosa è cambiato. Forse perché ho capito che quella ferita che ci fa migrare, ci fa fuggire in spazi ampi e selvaggi, può essere “curata” anche stando fermi. Invertendo la rotta, passando dall’estensione esteriore a quella interiore. Dentro di noi ci sono brughiere più odorose e umide di quelle inglesi, siamo attraversati da mari profondi come gli oceani, i silenzi di cui godiamo hanno lo stesso sapore di quello che veglia su tutti i deserti di questa terra. E abbiamo estati e inverni, e odorose primavere che si alternano all’uggia di ogni autunno. Ci sono lupi, agnelli e uccelli esotici. E albe e tramonti che annunciano cieli stellati.
Ecco, ecco dove possiamo andare. L’Alaska non è solo un luogo geografico, è uno spazio interno. Ma raggiungere queste lande è molto difficile proprio perché sono così vicine, separate solo da un soffio. O dalla pulsazione del nostro cuore.
Perciò ho avvertito, guardando il film, la misura di un cambiamento. L’avventuriera, la zingara della mia adolescenza si è trasformata, ha cambiato direzione cercando di sfiorare altri spazi, altre immensità. Che poi riesca ad annusarle soltanto è un’altra storia. Ma un certo profumo, un certo profumo non si dimentica. Mai.

 

 

Qualche giorno fa, in occasione del mio compleanno, un’amica mi ha regalato un mazzo di fiori.

Non sapeva che detesto i fiori recisi, radunati in gruppi cromatici e destinati a riempire il vaso di qualche salotto domestico con la loro agonia.

Ora li osservo sul tavolo della cucina. Resistono, resistono ancora. Ma già la morte ne corrompe il profumo, avvizzendone le forme convesse, il perimetro delicato come quello di una collina al tramonto, curvo sulle cose del mondo.

Poveri fiori. Rubati da sempre per la loro bellezza odorosa di primavere e delizie nascoste, custodite come polline donato alle api.

Ho sempre trovato tristi i negozietti di fiori. Incantano con la loro bellezza tremula, destinata a svanire come il canto di una sirena al risveglio.

Non capisco perché la bellezza va sempre "presa", "catturata", "posseduta". Quasi come se lasciarla lì e goderne la vista fosse inutile.

Invece il mondo ogni giorno ci offre il dipinto più bello. Quello che nessun artista, neanche il più abile, potrebbe restituire nella sua vitale pulsione.

Preferisco, io, fermarmi ad annusare i fiori di un’ aiuola, oppure le stupende magnolie cìhe come fiumi si riversano sui muretti romani nelle giornate primaverili, quando il sole stiracchia i suoi raggi prolungandoli oltre la tenda della sera.

E invece me ne sto, ora, a fissare il vaso con i poveri fiori morenti.

E penso a mio nonno, che nella sua tomba non volle mai nessun fiore reciso.

 

 

 

 

 

Qualche giorno fa la mia insegnante di yoga mi ha detto qualcosa che mi ha fatto riflettere molto. Stavo cercando – invano – il punto di equilibrio che permette di sollevare le gambe da terra con facilità per effettuare le famose posizioni invertite, a testa in giù.

Si tratta di un punto "magico" in cui la gravità scompare e le gambe si sollevano da terra con una leggerezza incredibile, quasi come sollevate da mani invisibili. Non c’è più gravità, non c’è più peso.

E’ come entrare nel moto di una spirale che ti tira su.

Un giorno ce l’avevo fatta, finalmente. E avevo provato una leggerezza incredibile.

Non ci sono più riuscita.

Inutilmente ho ricercato quel punto, quasi impercettibile eppure così potente.

Mi stavo lamentando quando Patrizia, la mia insegnante, mi ha ricordato che non si deve mai dare nulla per acquisito.

Una volta raggiunta una posizione, una postura (che è simbolo e metafora di mille altre "posture" che riguardano tutta la nostra vita), non bisogna mai dare per scontato il successivo raggiungimento della medesima posizione.

Ogni raggiungimento non è un vero raggiungimento. Non si raggiunge mai nulla, in realtà. Anche perché non è nella meta finale (la postura) che ci si sviluppa, ma è nel percorso. E’ nello sforzo che si fa, nella tensione verso.

Ha ragione. La vera bellezza è nell’apprendimento, la vera bellezza giace nell’affinare, momento dopo momento, la nostra "postura", sia interna che esteriore.

E pensare di aver acquisito qualcosa è un errore. Non c’è vera acquisizione, alla fine.

Il voler "afferrare" qualcosa ne uccide la vita.

E il ricominciare da capo, il sapere che nulla è scontato, comporta un insegnamento prezioso.

Così proverò e riproverò, ogni giorno.

Anzi, come dice Yoda al giovane Luke Skywalker:

"Tu no prova, tu fa".