Nelle persone che amiamo, c’è, immanente in loro, un qualche nostro sogno che non sempre sappiamo discernere, ma che perseguiamo. Era stato il mito di Bergotte, di Swnn, a farmi amare Gilberte; il mito di Gilberto il malo a farmi amare la duchessa di Guermantes.

E quale vasta distesa marina era stata riservata, per quanto doloroso, geloso, individuale esso potesse apparire, al mio amore per Albertine!

Del resto, proprio per queste qualità individuali su cui ci accaniamo, i nostri amori per le persone sono sono già aberrazioni.

 

(Marcel Proust, Alla ricerca del Tempo perduto, vol. XVI, Il tempo ritrovato, Einaudi)

 

Oggi pomeriggio, mentre stavo trafficando sulla mia biblioteca alla ricerca di un libro (sono disordinatissima, purtroppo), mi sono imbattuta in Proust.

Una vecchia, straordinaria conoscenza. Anni fa, approfittando della sosta forzata dovuta a una malattia che i medici non riuscivano a diagnosticare, ho avuto il privilegio di leggere tutta la Recherche.

Ricordo di avere passato notti e giornate intere con gli occhi incollati sui libri.

Semplicemente, Proust aveva sovrapposto il suo tempo al mio.

Mi aveva trascinato in una zona remota, priva di confini materiali, sospesa tra cielo e terra.

E mi sono innamorata. Della sua scrittura, della sua sensibilità, del suo pensiero. Mi sono innamorata di quelle descrizioni pittoriche in cui sembra di muoversi all’interno di un quadro impressionista.

Malgrado siano passati vent’anni, ricordo ancora con impressionante nitore la minuziosa descrizione del sole che gioca sul vestito bianco di Odette, mentre lei tiene in mano il suo grazioso ombrellino, e sorride, mentre sull sfondo il parco la trattiene in una cornice. 

 

Cercavo proprio quel passaggio (grazie all’abitudine, poi smarrita nel tempo, di segnare con un lapis blu le frasi più belle dei libri che leggevo) e invece mi sono ritrovata fra le mani l’ultimo volume della Recherche.

Aprendo le pagine a caso, ecco che sosto su questo passaggio che allora, come oggi, mi aveva colpito.

Quella di Proust è un’opera immensa in cui i percorsi individuali si fondono ai ritratti sociali (come quelli che avvenivano nel salotto dei Verdurin), in cui la riflessione filosofica incrocia una sensibilità estrema tesa fino alla curva del cielo.

Eppure l’amore, in ogni sua variante, rimane il tema di fondo da cui parte ogni sinfonia.

Pochi hanno saputo osservare il caleidoscopio dei sentimenti con la sua stessa sensibilità.

Tutto pelle, Proust. E cervello, tanto cervello.

Gli amori narrati nel suo libro sono dolorosi, estatici, a volte clandestini (l’omosessualità del barone di Charlus). 

Ma tutti sono dotati di un’anima, quella che la penna di Proust ha plasmato dalla creta del suo pensiero.

E svicolano dalle maglie del tempo perché vivono in un altro tempo, quello stesso tempo analogico che rappresenta il filo di tutta la Ricerca.

Aprire il libro, dopo tanti anni, per ripercorrerne alcuni passaggi, è stato un po’ come dare un morso alla mia madeleine.

Ho sentito affacciarsi una malinconia profumata che però è rimasta sospesa sulla finestra della memoria, allontanandosi senza fare rumore.

Non si può tenere fra le mani in un libro di Proust senza ritrovare il nostro tempo perduto.