Qualche giorno fa, in occasione del mio compleanno, un’amica mi ha regalato un mazzo di fiori.

Non sapeva che detesto i fiori recisi, radunati in gruppi cromatici e destinati a riempire il vaso di qualche salotto domestico con la loro agonia.

Ora li osservo sul tavolo della cucina. Resistono, resistono ancora. Ma già la morte ne corrompe il profumo, avvizzendone le forme convesse, il perimetro delicato come quello di una collina al tramonto, curvo sulle cose del mondo.

Poveri fiori. Rubati da sempre per la loro bellezza odorosa di primavere e delizie nascoste, custodite come polline donato alle api.

Ho sempre trovato tristi i negozietti di fiori. Incantano con la loro bellezza tremula, destinata a svanire come il canto di una sirena al risveglio.

Non capisco perché la bellezza va sempre "presa", "catturata", "posseduta". Quasi come se lasciarla lì e goderne la vista fosse inutile.

Invece il mondo ogni giorno ci offre il dipinto più bello. Quello che nessun artista, neanche il più abile, potrebbe restituire nella sua vitale pulsione.

Preferisco, io, fermarmi ad annusare i fiori di un’ aiuola, oppure le stupende magnolie cìhe come fiumi si riversano sui muretti romani nelle giornate primaverili, quando il sole stiracchia i suoi raggi prolungandoli oltre la tenda della sera.

E invece me ne sto, ora, a fissare il vaso con i poveri fiori morenti.

E penso a mio nonno, che nella sua tomba non volle mai nessun fiore reciso.