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La mia Istanbul

Viaggio di una donna occidentale attraverso la Porta d'Oriente

 

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Nulla ci tira fuori chi siamo come l’amore.
Ci toglie le mutande, ci mette nudi davanti ai nostri limiti.
Ogni forma d’amore, da quella più nobile ai…calessi che scambiamo per sentimenti.
Perché le emozioni scoprono la pelle, la espongono alle tramontane, scompigliano i processi mentali con cui costruiamo le belle immaginette per i nostri presepi sociali e professionali. Non ci sono più il bue e l’asinello a scaldarci, la tempesta e la neve, niente più pastorello ma un mefistofelico diavoletto che ci punge con i nostri limiti, le nostre storie irrisolte, i nostri mai sopiti fantasmi.
Certo, anche la “pancia” mente, ma è meno furba della testa alla quale tutti ricorriamo, più o meno, per difenderci dalle emozioni che ci mettono in contatto diretto, e crudo, con ciò che siamo. Con le nostre parti più vulnerabili.
La conoscenza intellettuale, mentale, delle cose del mondo ci rende tutti belli, nobili, tutti potenziali “saggi” pieni di pillole da elargire. Ma quella conoscenza che non passa attraverso i pori della pelle, dell’esperienza diretta, non sarà mai realmente interiorizzata, realmente “cellulare”, impressa nelle profondità del nostro essere.
La testa è una grande via di fuga. E’ un grande cuscino su cui ci sediamo per governare il cavallo pazzo delle nostre emozioni, delle nostre “pance” così pericolose e compromettenti.
E se è vero che il centro è il cuore, beh, è più difficile “scendere” dalla testa al cuore che “salire”attraverso la pancia. Infatti la via dal basso verso l’alto è la via dell’albero, del passaggio fino al cielo per discendere di nuovo, ossigenati, dal cielo stesso.
Fare esperienza del mondo ( e non farne mera lettura, analisi e studio) è una cosa terribile. Chiede tanto coraggio.
L’istinto – per esempio – fa paura. Ma se continuiamo a scappare, ci spaventerà ancora di più. Così accade con tutto ciò che le nostre viscere reprimono. Succede con le rabbie, con gli amori incrinati,  con i vissuti "scandalosi"  che diventano forme di energia che, resa innaturalmente immobile, solida e statica, forma un sasso invsibile, una specie di “cancro” che invade, silente, il nostro corpo altrimenti vibrante.
Non è bello calarsi nel mondo delle passioni. Non è bello percepire i sentieri molteplici delle nostre emozioni, dei de-sideri che – stelle lontane e irraggiungibili – muovono il criceto nella ruota, in eterno, mentre noi non evadiamo mai dalla gabbietta.
Ma soltanto l’esperienza diretta, per contatto, con l’emozione ci permette di tentare di salire su questo cavallo incosciente, che galoppa a destra e sinistra , su e giù, trascinandoci dalle albe della nostra gioia ai tramonti della solitudine, dai nostri cieli assolati agli inferni delle notti più buie.
E così, molti scelgono una vita blindata. Sigillata dalla mente, chiusa alle emozioni, alla pelle, ai sentimenti che impacciano l’adulto meraviglioso che sbandieriamo tirandoci invece fuori paure, invidie, fragilità e gelosie. E tuttavia io preferisco sentire ogni limite, ogni meschinità, ogni irrisolto passato piuttosto che barattare con la mente l’inganno di un perbenismo rubato, di una saggezza scippata da qualche libro o qualche maestro, di maniere composte quanto posticce sedute sopra il tumulo di sentimenti ai quali è stato fatto un bel funerale. Anche la “pancia” è inganno, come inganno può essere l’amore, in cui mille illusioni bisogna attraversare prima di sollevare un velo infinitesimale di “verità”, un velo così sottile che un volo di farfalla lo strapperebbe.
Ognuno di noi ha bisogno di una testa, di una pancia e soprattutto di un cuore.
Ma le difese che costruiamo a volte superano la forza di una muraglia cinese. Difese mentali, corazze contro i sentimenti che agganciano sempre la nostra antica provenienza, i nostri mondi infantili, i nostri genitori che sulle cellule hanno disegnato, insieme a noi, progetti vari per i nostri destini.
Oggi molti uomini e molte donne preferiscono una vita tranquilla, al riparo dalle correnti di ogni tipo d’amore.
Il contatto con l’altro ti sbatte in faccia te stesso, ti tira fuori l’irrazionalità che nessuna ragione riesce a domare. E fa paura.
Le maschere sociali e professionali sono piccole icone perfettamente riuscite.
Ma dietro, dentro, si nasconde un pulsare segreto. Perché tutti, che lo riconosciamo o no, cerchiamo l’amore. Perché tutti sappiamo che da vecchi non conteremo i nostro trofei professionali, effimeri come l’ebbrezza di una bevanda alcolica in una sera d’estate, ma ascolteremo, dentro, la ricchezza degli scambi profondi che siamo stati capaci di avere. Se invece di quella ricchezza trovassimo un deserto, non ci sarà maschera che ci potrà consolare, né mente erudita che ci potrà salvare.
Amare significa mettersi in gioco, esporsi alle proiezioni, agli inganni, alle delusioni. Rendersi vulnerabili anche quando non ne vale la pena (fino scoprire cosa di noi ci ha condotto fino a quel punto, quale parte dimenticata o svalutata) siamo stati costretti a conoscere). È un gioco duro, spietato. Ma ci aiuta a conoscere noi stessi come nessuna lettura e nessun lavoro potranno mai fare. Perché le maschere si sgretolano e rivelano la parte fragile, pulsante, umbratile e meschina che nessuno vorrebbe mai vedere. Ma è accanto a quel “nero” che si scova anche un raggio di verità su noi stessi. Verità che, appena sfiorata, scompare di nuovo nel gioco delle maschere di un carnevale imperituro.

 

 

 

 "Sette anime" di Gabriele Muccino divide pubblico e critica, scompiglia, ispira o respinge.

A me è piaciuto. Moltissimo.

Peccato che la traduzione italiana non abbia rispettato, tanto per cambiare, il titolo in inglese: "Seven pounds", sette libbre, che richiama il "pound of flesh" shakesperiano, la libbra di carne umana chiesta dal mercante di Venezia per estinguere il suo debito.

Sette libbre, sette pesi, sette debiti.

E’ la  storia di un uomo che si finge esattore fiscale per trovare sette persone da salvare per compensare sette vite (fra cui quella della moglie) terminate a causa di un incidente stradale in cui la sua auto uscì fuori strada.

Una lista di Schindler con sette nomi:  sette persone da salvare, sette vite da aiutare.

Solo che di una di queste si innamorerà, e questo amore complicherà il suo piano ma non lo fermerà.

Un film drammatico, dolente, intensissimo.

Il peso della colpa e del rimorso pervade ogni scena, e allo stesso tempo accade che la speranza (improvvisa, come ogni speranza) soffi per un istante breve il suo alito caldo d’amore, e riscaldi un cuore nel tempo che concede un fiammifero. Ma la fiamma si accende, divampa, prosegue in un altrove diverso da quello sperato, trasformandosi in brace ardente nella memoria e nel fisico di un dono ricevuto.

Il cuore, non a caso, è l’altro tema centrale del film. Un cuore malato da salvare, un cuore ferito da sanare.

Facilissimo, in casi come questi, cadere nella banalità, nel valzer dei sentimenti strappalacrime, nella formattazione di schemi emotivi banalizzati – come sempre – da enfasi e ridondanze. E invece no. Invece il film  è sobrio, elegante, tende un filo e non lo molla. Inizia in punta di piedi e poi il disegno di una danza comincia a svelarsi (ma bisogna attendere almeno il secondo tempo del film) finché all’improvviso esplode come un fuoco d’artificio, i pezzi si compongono rapidamente  in una tensione emotiva che punge la pelle, la scopre.

Gran bel film. Grandissima interpretazione di un talento assoluto, Will Smith, scintillante nel suo felice sodalizio con Gabriele Muccino, che come un amante ne esalta le virtù attraverso una regia "fisica" e allo stesso tempo sottile, impalpabile.

La sceneggiatura (stupenda) è di un americano, malgrado le critiche di lentezza (certo, andiamo sempre troppo veloci) ed "ermetismo" (il puzzle che si compone man mano a me è piaciuto moltissimo) io ho trovato sette anime entusiasmante. E lacerante.

Fa riflettere sula nostra umana condizione, sospesa tra colpe e desideri di redenzione. E, soprattutto, pone domande mai risolte: è lecito il suicidio? e se ci uccidiamo per donare i nostri organi ad altre persone saremo davvero "puniti"? non avremo diritto di sepoltura? è un gesto egoista o un gesto d’amore?  compensare un errore con un’azione contraria ci rende liberi o ci indebita ancora di più verso il prossimo nostro?

E’ redenzione o scarico della coscienza? salvezza o dannazione?

E poi chi siamo noi per giudicare la vita nostra e degli altri?

"Lei è una brava persona?" domanda il protagonista agli sconosciuti che sta contattando per vedere se "meritano" il dono che cambierà il loro destino. 

Già. Una brava persona. Sono io una brava persona? che significa essere "brave persone"? quali sono i parametri per giudicarmi?

forse più che brave persone dovremmo essere persone vere. Vere davanti all’immagine che vogliamo dare, agli altri e a noi stessi.

Non a caso a un certo punto punto del film Will Smith domanda: "Lei è una brava persona? Anche quando gli altri non la vedono?".

Ecco, ecco allora che diventa più difficile. Essere bravi quando gli altri non ci osservano, quando smettiamo le nostre recitazioni, quando ci troviamo nel buio della nostra stanza, davanti alla coscienza.

Non è un film facile, questo. Propone domande, suggerisce risposte per forza solo sfiorate.

Lo scavo vero non sta mai in un film. Sta nella vita.

Di certo, però, sono grata ogni volta che qualcosa o qualcuno mi mette davanti alle domande.

 

 

Eri giunto così in alto con le tue sole forze che di conseguenza nutrivi un’illimitata fiducia nelle tue opinioni. E questo non mi affascinava tanto da bambino quanto più tardi, nell’età della crescita. Dalla tua poltrona dominavi il mondo. Solo il tuo punto di vista era giusto, ogni altro era demenziale, folle, anormale. Nutrivi una tale fiducia in te stesso che non ti sentivi affatto in dovere di essere conseguente, ma non per questo cessavi di avere ragione. Poteva anche accadere che su un particolare problema tu non avessi alcuna opinione, e allora tutti i parei possibili al riguardo dovevano essere sbagliati, senza eccezione. Ai miei occhi assumevi l’aspetto enigmatico dei tiranni, la cui legge si fonda sulla loro persona, non sul pensiero (…)

(Franz Kakfa, Lettera al padre)

Leggere la lunghissima lettera che Kafka scrisse a suo padre è un’esperienza dolorosa ma illuminante. Chi ha amato – come me – il suo genio assoluto non potrà non tracciare una linea dritta che lega tutte le sue opere al soffertissimo rapporto con suo padre.

Il senso di colpa, l’enigma, il processo che condanna senza giustizia e senza appello qualcuno ("ancora dopo anni mi impauriva la tormentosa fantasia che l’uomo gigantesco, mio padre, l’ultima istanza, potesse arrivare nella notte senza motivo e portarmi dal letto sul ballatoio", scrive ricordando un episodio dell’infanzia), la metamorfosi di un uomo "senza qualità" che si trasforma in un insetto diventano improvvisamente più chiari alla luce del rapporto che condizionò e trasformò tutta la sua vita.

Un padre padrone che frustra i talenti letterari del figlio, che lo giudica un incapace, un essere tormentato e irragionevolmente inquieto, diventa così l’elemento creativo nel quale la sofferenza si veste di parole, dando luogo alla letteratura. Sofferenza che, in Kafka, non se ne andò mai.

Il padre e la madre possono essere pietre d’inciampo quando il rapporto diventa complesso, difficile. I loro fantasmi allungano la loro ombra per tutta la vita. Ecco che alcuni, però, trovano ispirazione nell’arte. Anime vulnerabili, esposte ai venti dell’incomprensione, che tuttavia fanno del dolore legna che arde bruciando nel fuoco della creazione artistica.

Forse non c’è neppure talento senza dolore. Non è un inno al masochismo, ma una constatazione che nasce dall’osservazione dei fatti privati e degli stati d’animo di una folta schiera di scrittori, pittori, musicisti.

In Kafka il marchio del padre dà vita a una sorta di lettera scarlatta che imprime una svolta decisiva nel suo destino.

E il figlio malaticcio, sfortunato, problematico, diventa uno dei talenti più brillanti del secolo scorso, un vero gigante della letteratura.

Molti geni sono figli dell’incomprensione con i genitori. Figure complesse, queste. Angeli e demoni dei nostri giorni, quando magari ci troviamo a "combattere con forze infantili in età adulta", come Kafka scrisse a suo padre.

Il bambino che è stato è lì con noi, e non è detto che sia gaio come il fanciullino di pascoliana memoria.

Magari è sbrindellato, ferito, sospeso nei territori inconsci in cui il tempo tace. Fragile, umbratile, lunare, si nasconde dentro e dietro l’adulto condizionandone le decisioni.

Il bambino che fu Kafka muove la penna dell’adulto, ne guida con mano sicura le intenzioni e i pensieri.

Così accade a ognuno di noi, nel bene e nel male.

Un padre non certo facile, quello di Kafka. I caratteri non si conciliano solo in virtù della condivisione di uno stesso sangue. A volte chi dovrebbe educarci diventa il modello dal quale fuggiamo, il modello che non vorremmo mai ripetere, quello che ci visita nei nostri incubi.

A un certo punto della vita, però, si deve avere pietà. Per sé stessi e per quei genitori nei confronti dei quali non siamo riusciti a trovare un varco, un passaggio capace di diventare un luogo di incontro.

Kafka decise di scrivere questa bellissima lettera in modo "da rasserenare un poco entrambi e rendere più facili la vita e la morte".

 

Lucrezia Borgia

Oggi ci scandalizziamo per i fotoritocchi al computer. Il loro uso è quasi selvaggio,  tanto che i grafici si specializzano nelle acrobazie garantite da Photoshop perché aumenta la resa e il lavoro.

Le foto dei personaggi celebri mostrano deretani, seni, muscoli, visi e corpicini scolpiti. Tutti belli, precisi, appetibili.

Tutti taroccati. Anzi, ritoccati.

Da qui lo scandalo di alcuni.

Certo, non è bello sapere che quasi sempre abbiamo davanti un’immagine posticcia alla quale hanno tolto qualche chilo di troppo oppure hanno sollevato un poco le tette con un sapiente gioco di ombre cinesi…

Il problema è che il computer oggi rende tutto immediatamente trasformabile grazie al controllo del virtuale che si fa realtà tangibile.

Però il fotoritocco non nasce certo con internet che, in realtà, ne meccanicizza e ne esaspera, moltiplicandole quasi all’infinito, le possibilità.

Prima della fotografia esistevano solo i dipinti: paesaggi e persone restituiti da mani sapienti. A volte…molto sapienti.

In effetti pare che i ritratti dei personaggi celebri – conti, imperatori, duchi e duchesse, regine e principi che hanno fatto la storia degli ultimi secoli – siano spesso stati abbelliti. Come nel caso di Lucrezia Borgia, miscuglio di fascino e ombra che ancora oggi seduce con la sua vicenda. La vediamo in molti quadri d’autore che ne esaltano i tratti delicati e allo stesso tempo profondi. E tuttavia a un certo punto i critici d’arte hanno scoperto che un anonimo ritratto raffigurante quella che sembrava una giovane qualunque in realtà rappresentava lei, Lucrezia, diciamo…"prima della cura". Il naso più ingombrante, gli occhi leggermente infossati sparirono poi dai ritratti ufficiali.

E non toccò solo a lei.

La fedeltà nel ritratto di sangue blu rischiava di essere viziata dal peso di una raffigurazione idealizzata, un po’ come si faceva con le antiche statue greche e romane che rappresentavano gli dèi (uno per tutti, il magnifico Apollo di Veio).

Solo che gli déi erano déi, ovvero "forme dell’anima", come scrive Campbell. E’ giusto che un dio sia Armonia e Bellezza suprema.

E tuttavia anche  nel sangue reale si coagulava l’incarnazione divina. Di qui probabilmente la necessità di quel bello ideale ispiratore – nella resa pittorica – di molte lusinghe estetiche laddove la natura era stata poco generosa con il soggetto.

Ingentilire i tratti era una pratica diffusa quando si dipingevano per stirpi "patrizie".

Addirittura alcune regine non più giovani continuarono sempre a mostrare vent’anni in una eterna primavera anche nei ritratti dipinti durante il loro autunno.

Insomma, ritratti simili a quello di un Dorian Gray che non solo rimane giovane ma diventa anche più bello sotto lo sguardo dell’artista di turno.

Si sa, l’uomo da sempre insegue la bellezza non corrotta dal tempo, in un anelito costante che dona all’arte le visioni più suggestive. L’incanto senza tempo del Bello si fa struggimento, tensione verso.

In molti casi i visi e i corpi dei soggetti nobili venivano magnificati attraverso opportune aritmetiche dell’estetica; addizioni e  sottrazioni studiate per ritoccare i tratti, ingentilirli e abbellirli.

Ritoccare, appunto. Un fotoritocco artistico, manuale, dal sapore di un tempo perduto che non è più.

Ma chi si scandalizza troppo per l’uso di photoshop forse dimentica questi "interventi" pittorici.

Si sa, il bello è una tentazione irresistibile. Come  sapeva bene anche Dorian Gray.

 

 

Il mio unico amore nasce dal mio unico odio
(Romeo e Giulietta, Shakespeare)

Quando Romeo, disperato, realizza che la fanciulla di cui si è innamorato nel breve spazio di un respiro è figlia del suo nemico peggiore, paralizza solo per un istante la sua intenzione, inscrivendola nello stupore.
Questa frase mi ha sempre affascinato, colpito.
Raduna i misteri di un’ambivalenza sempre presente, che unisce – in vari modi – l’amore all’odio malgrado i nostri tentativi di liberarci dalle ambiguità mettendo l’amore da una parte, incorniciato alla parete dipinta di roselline pastello, e l’odio da un’altra parte, meglio ancora se si tratta di uno sgabuzzino, un anfratto poco visibile, poco pericoloso per la nostra “bella immagine” con cui ci riproduciamo a noi stessi e agli altri.
Già nel tempo del mito questa umana tendenza viene corrosa attraverso dèi dalla doppia valenza e amori che si trasformano in odio, come nel caso di Medea.
Fu Freud con la psicanalisi a consolidare le verità dell’ambivalenza attraverso un inconscio bizzarro, birichino, capace di eludere i nostri manicheismi per riproporci la scomodità di sentimenti e sensazioni.
Fu lui a dire che la madre adora e odia il suo piccino (prevale una parte, ma questo non significa che l’altra non resti in vita) scandalizzando tutti quelli che in questa immagine vedono solo l’emblema dell’amore assoluto. Vero. Ma per ogni “luce”, per ogni amore, c’è sempre un contraltare che, nel mondo degli opposti, lo definisce e gli dà corpo e sostanza.
Oggi la scienza sembra soccorrere i “vaneggiamenti” di quelli che indagano filosoficamente e psicologicamente i tessuti della psiche. Infatti un gruppo di ricercatori britannici dell’University College of London ha scoperto che quell’”odi et amo” di Catullo è scientificamente vero. Amore e odio sono le due facce di una stessa medaglia. Infatti sono attivati dalle stesse aree del cervello e dagli stessi meccanismi biochimici.
Dunque è inutile scansarel’uno dall’altro con tanto sudore cercando a tutti i costi una separazione cesarea. Bisogna discriminare, sì. Imparare a dirigere le nostre emozioni.
Ma pretendere di esaltarne una credendoci immuni dall’altra è un errore molto pericoloso.
I nostri mondi interiori vivono di luci e di ombre, mescolano le cose, viaggiano sull’irrazionale. Governare il nostro “cavallo” vuol dire anche sapere che questo cavallo è sia bianco che nero.
Amore e odio sono così vicini. Solo una cosa li separa davvero: la razionalità dell’odio.
Chi odia infatti lo fa metodicamente, agli impulsi seguono sempre pianificazioni, strategie. L’odio è serpentino, come un demone.
L’amore, soprattutto quello passionale, è più farloccone. Segue la pancia e non la testa, si nutre di sogni e di nuvole, di proiezioni ideali.
Colui che odia invece vuole vedere la realtà per non sbagliare la mira quando affonda il coltello.
Non a caso quando ci innamoriamo gran parte della corteccia cerebrale associata alla capacità di giudizio “va in panne”, mentre nel circuito dell’odio la parte raziocinante del nostro cervello rimane bene attiva.
L’odio cerca vendette, vendette servite fredde per essere gustate meglio. L’amore no, lui vede intorno a sé solo il puttino che lo ferisce.
Ci sono poi molte gradazioni, sia nell’odio che nell’amore. Ma entrambi, comunque, sono necessari a farci prendere coscienza di noi, che ci piaccia o no.
Non è bello odiare. E’ terribile. Ma a volte è necessario. E, guarda un po’, se trasformato, il carburante dell’odio, energia libidica di Thanatos, arriva a trasformarsi in amore che cura, guarisce.
Eros e Thanatos non possono essere separati.
“Il mio unico amore nasce dal mio unico odio”, dice Romeo.

E quando Thanatos lo colpirà con la spada del fato, avrà comunque conosciuto il miele ambrato di Eros.