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La mia Istanbul

Viaggio di una donna occidentale attraverso la Porta d'Oriente

 

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Essere un guru non significa avere un seguito di fedeli. Un guru p una persona in grado di indicarmi la via. Immaginiamo che mi sia perso nella foresta. Incontro un tale e gli chiedo:"Per favore, può indicarmi la strada per tornare a casa?" E lui: "Sì, fai così e poi così". E io: "La ringrazio molto", e seguo le sue indicazioni. Questo è un guru.

Oggi c’è l’idea che un guru sia una persona con numerosi seguaci che lo seguono come il pofferaio magico. E’ sbagliato. Un vero guru vi indicherà la via. La segui e ti ritrovi a casa. Allora potrai ringraziarlo. Io provo una naturale gratitudine per il mio guru, e il nostro rapporto mi dà gioia, ma questo non significa seguirlo ovunque, perché non sarei più a casa mia. Seguire il cammino che sta facendo il guru è un altro modo di perdersi. Il concetto yogico dello svadharma signifca "Il mio dharma", "la mia via". Se tenti di seguire il dharma di un altro, ti cacci nei pasticci. Il guru è quello che ti aiuta a trovare il tuo dharma".

(T.K.V.Desikachar, Il cuore dello yoga)

 

E ha ragione, Desikachar. Tra l’altro viviamo in una società piena di guru, insegnanti, maestri, apprendisti maestri, tuttologi dell’ultima ora.

Nessuno vuole essere più allievo. Niente. Tutti a insegnare, tutti a "sapere", tutti a maestreggiare.

E invece essere una guida, un insegnante, è cosa difficile. Lo è dal punto di vista accademico, figuriamoci da quello spirituale.

In-segnare, come suggerisce anche l’etimo, comporta un contatto profondo in grado di operare una trasformazione trasferendo un segno, un signum.

E, soprattutto, tiene conto del cuore pulsante di ogni allievo, uguale ma allo stesso tempo diverso da tutti gli altri.

Le cose si "complicano davanti al guru spirituale. C’è un bel libretto di Claudio lanzi, "Maleducazione spirituale", dedicato proprio alle difficoltà e alle illusioni di questo tipo di ricerca particolare.

Oggi, purtroppo, imperversano proprio i "pifferai magici" di cui parla Desikachar, illuminato insegnante di yoga, quei pifferai che agitano schiere di adepti lobotomizzati. Basta guardarsi intorno e se ne trovano a bizzeffe.

Desikachar opera un distinguo sottilissimo sul seguire la via di qualcun altro..e la propria.

Nessuno può fare un percorso al posto nostro. Nè noi possiamo pretendere di fare esattamente come qualcun altro, semmai ci si può avvicinare a una simile qualità dell’essere (e Cristo ci ha fregato gli apostoli, dicendo "Siate come me". Siate, – ha detto – non fate).

Ma nel ciarpame pseudo-spirituale dei nostri giorni come dare torto a chi, saggiamente (suo malgrado), dice: "Se incontri il Budda per la strada uccidilo"?

Il problema, infatti, è che non incontriamo mai il Budda. Al massimo, un budino.

 

Jorge Luis Borges

C’è un mistico indiano, Aurobindo, il quale diceva che non è possibile alcuna rivoluzione o evoluzione nella società, se non cambia e non migliora ciascuno degli individui che la compongono.

D’accordo, e credo che oggi si tenda a dare troppa importanza allo stato. E non solo allo stato; si pensa che un paese dipenda dal governo che lo amministra, ma forse i governi non sono poi tanto importanti, forse quel che importa è ciascun individuo, ogni singolo modo di vivere. Prendiamo un esempio a caso: supponiamo che la Svizzera sia retta da una monarchiae la Svezia sia una repubblica: i due paesi cambierebbero forse in qualche modo?

Tutto dipende dai cittadini.

Proprio così. Si tende a supporre che certe cose siano importanti, ma forse non lo sono affatto; si cade anche nell’errore di supporre che il governo sia il responsabile di tutti i mali che ci affliggono, ma forse il governo è smarrito e perplesso quanto noi, come ciascuno di noi. E’ la cosa più probabile.

Perciò Socrate dedicò la vita a educare l’uomo come cittadino.

Certo.

Infatti, se l’uomo non è formato come cittadino, anche se il governo è ottimo, la società non può funzionare.

La verità è che ciascuno di noi dovrebbe riformare se stesso, e solo così potremmo salvare la somma di individui che chiamiamo patria.

E’ così.

E dunque il mondo, perché il mondo è fatto di individui.

(Jorge Luis Borges, Altre conversazioni – con Osvaldo Ferrari)

 

Ecco, al di là degli tsunami elettorali (come li definisce la stampa questi giorni) forse dovremmo tornare a riflettere anche sul senso profondo dell’essere cittadini.

Tutto qui.

 

 

L’esperienza è reale; le parole non sono reali: le parole sono degli altri, l’esperienza è solo vostra.
(B.K.S. Iyengar, L’albero dello yoga)

Anche se ho fatto delle parole un mestiere cerco sempre di tenere alta la guardia. Il fatto è che ho visto schiere di intellettuali e filosofi incantare le folle con le loro sapienti parole, allo stesso modo in cui le mani sapienti dell’amante percorrono il deserto della pelle amata deponendovi rugiada fresca di albe umide.
Ma l’esperienza, poi, ha smascherato l’inganno.
Perché niente ti mette davanti a te stesso come la pratica del quotidiano. Quella che verifica ogni intenzione, ogni limite, ogni incoerenza,
E’ qui che franiamo tutti. Chi più chi meno, anche a seconda del grado di spietatezza con cui osiamo guardare noi stessi. Possiamo anche mentire usando nuove parole. In fondo le parole possono essere spade o coperte. Dipende da come le usiamo.
E, soprattutto, dipende dal loro legame intimo con la nostra realtà. Quella che si basa sull’esperienza, su ciò che realmente facciamo, non su ciò che diciamo.
Le parole sono seducenti e birichine. Danno una forma ai pensieri, li vestono con il loro suono.
Per questo occorrono prudenza e attenzione.
A volte è meglio essere diffidenti. Avvicinarle di soppiatto, scrutando continuamente il confine tra la parola parlata e la parola agita, vissuta.
Non a caso nelle religioni si parla di vivere ciò che si legge.
E invece regna una profusione di oratori pieni di belle parole, in ogni campo (basta vedere il circo politico che precede queste elezioni) ma poveri di significato interiorizzato, realmente vissuto.
C’è una pratica impietosa, crudele. Quella che consiste nel verificare ogni giorno la sintonia delle nostre teorie con il nostro fare.
Sì, l’esperienza è reale (malgrado gli inganni del gioco di Maya) perché è li che le frodi vengono estinte.
E  tuttavia come è bello dondolarsi sulle parole, farsi confortare, cullarsi nel mare del dire.
Poi, però, poi dobbiamo darci da fare.

 

 

La vita è un nastro rosa teso su un abisso.

(Virginia Woolf)

 

E a volte questo nastro sembra davvero fragile. Disperatamente fragile.

E allora ci attacchiamo sopra paillettes dorate, bottonicini colorati, profumi di lavanda e fili argentati.

Ma l’abisso rimane. E il nastro, piano piano, precipita.

 

 

Tutti abbiamo la nostra coperta di Linus.

Calda, familiare, confortevole, sta sempre lì. Se per caso si usura, eccoci pronti a crearne un’altra. Magari morbida morbida, più di prima.

E poi, poi senza copertina fa freddo.

Stare nudi davanti a noi stessi potrebbe provocarci una polmonite, esposti come siamo ai venti fracassoni dei nostri tormenti interiori, dei nostri limiti veri (e non di quelli presunti), delle nostre incertezze,

Se per caso proviamo a depositarla che accade?

 Brr. Freddo. Tanto freddo. Voglio la mia copertina, Voglio ciucciarmi il ditino.

Ci sono persone e situazioni che rischiano di portarci verso la soglia di un abisso.

Quell’abisso in cui, nudi, precipitiamo in noi stessi.

E allora fuggiamo via, spaventati. Ci infiliamo di nuovo sotto la nostra copertina, cuciamo gli strappi, laviamo con Perlana i colori, cerchiamo di nuovo la sicurezza.

Quante coperte di Linus ci sono?

Tante. Moltissime.

Possono essere i vari fidanzati, focolari, lavori, viaggi, palestre di turno. Perfino le ricerche spirituali possono essere trasformate in copertine di Linus.

Ovunque si trovi la nostra sicurezza, lì sta la coperta.

Ce la mettiamo addosso cambiandola nel tempo inseguendo il mutare dei nostri bisogni, delle necessità.

Ma c’è sempre l’attimo spietato della verità. Quello in cui osiamo guardare davvero.

La copertina fatata delle nostre proiezioni allora cede, si sfilaccia, mostra l’usura. A quel punto, molti corrono a procurarsene un’altra. Altri, invece, restano al freddo.

Impauriti, incerti, tremanti, restano lì.

Senza coperte la vita fa male. A volte penso che crescere significhi semplicemente accettare il dolore di essere non come vorremmo – o immaginiamo – ma come siamo.

Ecco perché, alla fine, ci tiriamo fin sopra la testa la nostra bella copertina di Linus.

Spegniamo la luce. Buonanotte.